La musica che amiamo è costellata da vicende e personaggi che definire “bizzarri” è riduttivo. A volte si tratta di un vero e proprio bestiario o, come è il caso di quanto sto per elogiare, di un’autentica Wunderkammer. Prendete John Andrew Frederick, l’arti-genio che dalla fine degli anni Ottanta pubblica con la sigla the black watch – lui vuole che si scriva così: in minuscolo – meraviglie di guitar-pop dalle tinte psichedeliche che, in virtù della solidissima aura di classico che le circonda, non appartengono ad alcuna epoca. Qualcosa che può ricordare allo stesso tempo Guided By Voices e R.E.M., Robyn Hitchcock e Yo La Tengo, Cure e Smiths, la Flying Nun e il post-punk albionico, ma alla fine suona come un a sé che seduce presto e non ti abbandona più.
Chi già è al corrente avrà estratto dagli scaffali lavori che non prendono polvere: quanto a tutti gli altri, spero si siano fiondati immediatamente ad ascoltare e acquistare. I più pigri partano dalle fenomenali raccolte The Vinyl Years: 1988-1993 e 31 Years of Obscurity: The Best of the black watch 1988-2019: il desiderio di saperne di più sarà immediato e consequenziale. Tipico culto con a monte una storia particolare, black watch, del tipo noto a pochi e coccolato dalla critica più attenta. Anzi: un culto al quadrato, siccome fu a un’esibizione dal vivo dei Lucy Show – alzi la mano chi li ricorda… – che Frederick decise di allestire la prima di infinite formazioni. Meno male: da uomo rinascimentale, il Nostro ha in curriculum romanzi e tomi di critica cinematografica, possiede un obliquo senso dell’umorismo – come non voler bene a chi cava dal cilindro trentatré giri intitolati Led Zeppelin Five e Magic Johnson? – e sensibilità e intelligenza rare.

Lettore accanito, John è cresciuto nel decennio favoloso per antonomasia a pane e Beatles imbracciando la chitarra a undici anni, per sconfiggere la noia di mesi trascorsi nel letto con una gamba rotta a causa di un grave incidente sportivo. Poi la vita è andata avanti, finché il laureato in letteratura inglese che insegnava alla University of California di Santa Barbara assisteva a quel concerto e decideva di cambiare vita. Sin dall’inizio, John ha optato per una line-up “fluida” (con la parziale eccezione della polistrumentista J’Anna Jacoby) e per pubblicare in autarchia. Fuori l’esordio sempre nel 1987, da allora – tra autoproduzioni e successive presenze su marchi indipendenti di vaglia – non ha più smesso di inviare missive all’angolo di mondo disposto ad ascoltarlo. Toccata lo scorso marzo quota ventuno (senza contare singoli ed EP), è ora che vi prepariate a fare spazio in casa e vedere il portafoglio sgonfiarsi. Se il (non) genere di riferimento è nelle vostre corde, vi si spalancheranno le porte di un universo magnifico e policromo.
Un mondo parallelo costruito con talento e dedizione, nel quale i Sixties sfociano nella neopsichedelia passando attraverso power pop e new wave. Un’istituzione, Mr. Frederick: eccelso songwriter, conosce il segreto per camminare disinvolto sulla corda tra un ampio spettro emotivo e una ricercata eleganza formale, porgendo canzoni ironiche e malinconiche dove il sole della California è filtrato da qualche nuvoletta. Per non citarne che alcuni, gioielli della caratura di Georgette, Georgette ed Emily, Are You Sleeping?, di To William, My Father, Who Brought Home Books On India e I Don’t Feel The Same, di Moonlight Thru Ivy, The Tennis Playing Poet Roethke Said e Blue Umbrella appartengono al nobile casato che conquista il cuore scansando banalità, cliché e luoghi comuni. Un patrimonio da scoprire, custodire e propagandare, la musica di John Andrew Frederick. Innamoratevene, ché ne vale davvero la pena.