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The black watch: il culto al quadrato

La musica che amiamo è costellata da vicende e personaggi che definire “bizzarri” è riduttivo. A volte si tratta di un vero e proprio bestiario o, come è il caso di quanto sto per elogiare, di un’autentica Wunderkammer. Prendete John Andrew Frederick, l’arti-genio che dalla fine degli anni Ottanta pubblica con la sigla the black watch – lui vuole che si scriva così: in minuscolo – meraviglie di guitar-pop dalle tinte psichedeliche che, in virtù della solidissima aura di classico che le circonda, non appartengono ad alcuna epoca. Qualcosa che può ricordare allo stesso tempo Guided By Voices e R.E.M., Robyn Hitchcock e Yo La Tengo, Cure e Smiths, la Flying Nun e il post-punk albionico, ma alla fine suona come un a sé che seduce presto e non ti abbandona più.

Chi già è al corrente avrà estratto dagli scaffali lavori che non prendono polvere: quanto a tutti gli altri, spero si siano fiondati immediatamente ad ascoltare e acquistare. I più pigri partano dalle fenomenali raccolte The Vinyl Years: 1988-1993 e 31 Years of Obscurity: The Best of the black watch 1988-2019: il desiderio di saperne di più sarà immediato e consequenziale. Tipico culto con a monte una storia particolare, black watch, del tipo noto a pochi e coccolato dalla critica più attenta. Anzi: un culto al quadrato, siccome fu a un’esibizione dal vivo dei Lucy Show – alzi la mano chi li ricorda… – che Frederick decise di allestire la prima di infinite formazioni. Meno male: da uomo rinascimentale, il Nostro ha in curriculum romanzi e tomi di critica cinematografica, possiede un obliquo senso dell’umorismo – come non voler bene a chi cava dal cilindro trentatré giri intitolati Led Zeppelin Five e Magic Johnson? – e sensibilità e intelligenza rare.

Lettore accanito, John è cresciuto nel decennio favoloso per antonomasia a pane e Beatles imbracciando la chitarra a undici anni, per sconfiggere la noia di mesi trascorsi nel letto con una gamba rotta a causa di un grave incidente sportivo. Poi la vita è andata avanti, finché il laureato in letteratura inglese che insegnava alla University of California di Santa Barbara assisteva a quel concerto e decideva di cambiare vita. Sin dall’inizio, John ha optato per una line-up “fluida” (con la parziale eccezione della polistrumentista J’Anna Jacoby) e per pubblicare in autarchia. Fuori l’esordio sempre nel 1987, da allora – tra autoproduzioni e successive presenze su marchi indipendenti di vaglia – non ha più smesso di inviare missive all’angolo di mondo disposto ad ascoltarlo. Toccata lo scorso marzo quota ventuno (senza contare singoli ed EP), è ora che vi prepariate a fare spazio in casa e vedere il portafoglio sgonfiarsi. Se il (non) genere di riferimento è nelle vostre corde, vi si spalancheranno le porte di un universo magnifico e policromo.

Un mondo parallelo costruito con talento e dedizione, nel quale i Sixties sfociano nella neopsichedelia passando attraverso power pop e new wave. Un’istituzione, Mr. Frederick: eccelso songwriter, conosce il segreto per camminare disinvolto sulla corda tra un ampio spettro emotivo e una ricercata eleganza formale, porgendo canzoni ironiche e malinconiche dove il sole della California è filtrato da qualche nuvoletta. Per non citarne che alcuni, gioielli della caratura di Georgette, Georgette ed Emily, Are You Sleeping?, di To William, My Father, Who Brought Home Books On India e I Don’t Feel The Same, di Moonlight Thru Ivy, The Tennis Playing Poet Roethke Said e Blue Umbrella appartengono al nobile casato che conquista il cuore scansando banalità, cliché e luoghi comuni. Un patrimonio da scoprire, custodire e propagandare, la musica di John Andrew Frederick. Innamoratevene, ché ne vale davvero la pena.

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Judee Sill: caduta e ascesa di una fenice

Quando scrivi di musica nell’era di internet, cercare di raccontare le persone è ciò che conta. Essendo i fatti (calunnie e falsità incluse) a portata di click, porli in relazione costituisce un valore aggiunto e idem capire cosa sta dietro la biografia. Studiando le vite degli altri, rifletto su quanto di esse abiti nei dischi e a volte scopro cose spiacevoli che tratto con i guanti, poiché detesto la morbosità e le agiografie e preferisco interessarmi cosa spinge un essere umano verso determinate scelte. Pur sapendo che l’artista non appartiene a questo pianeta, è così che ci gettiamo nelle anime altrui per capire la nostra. A maggior ragione se una donna – intensa e naturale come un fiore che si apre al sole – trasforma insicurezze e massimi sistemi in emozione pura. Perché di amore e della sua assenza si scrive sulla pelle, perché la femminilità è uno stato che prescinde dal corpo, perché il destino si rivela giorno per giorno.

Incontrare per la prima volta Judee Sill significa abbandonarsi a un’onda che ti accompagna mentre nuoti a mezz’aria. Devi sentirla, dopo di che ascolterai con orecchie diverse una differenza tra piegarsi e spezzarsi così sottile da sparire e quel blues inteso come condizione dello spirito in cerca di rifugio. Alla fine affronti il dolore, il misticismo e la (ri)scoperta avvenuta grazie all’entusiasta Jim O’Rourke, a un articolo di Mojo e alle successive ristampe. Solo due gli LP ufficiali, ma abbagliano come cattedrali sotto una volta stellata e sottolineano l’ascendente su nomi eccellenti – Joanna Newsom e Julia Holter, Warren Zevon e Beth Orton, Bill Callahan e Bonnie “Prince” Billy – che ne hanno riletto le canzoni o hanno inseguito una musica delle sfere impossibile da replicare. Il segreto della perfezione, forse, sta in un talento che ha compensato il caos con l’elevazione umanistica mentre viveva come un acrobata senza rete. Può bastare. Avanza, persino.

Breve la vita di Judee Lynne Sill, benché abbia più senso parlare di tante esistenze bruciate per riempire una voragine affettiva. Nata nell’ottobre 1944, cresce a Oakland prendendo confidenza con piano e chitarra nel bar gestito dal babbo. Quando costui muore, mamma si risposa a Los Angeles con un disegnatore di cartoni animati alcolizzato e violento e la ragazzina diventa adulta anzitempo nel peggiore dei modi, poiché il patrigno la picchia e ne abusa. Poco da stupirsi se da teenager sembra uscire da un noir di Jim Thompson: cacciata dalla scuola pubblica, all’istituto privato Judee fuma erba; ottenuto il diploma, si sposa per dispetto, rapina benzinai e negozi di liquori; in riformatorio impara a suonare l’organo e divora libri. Di nuovo libera, si lega a un contrabbassista che la introduce all’LSD finché non entra in scena Bob Harris, pianista tossicodipendente che la porta a Las Vegas per un matrimonio che non durerà. Altro giro, altro inferno: un’eroinomane orfana anche di madre firma assegni a vuoto, ruba, si prostituisce. Tornata in galera, tocca il fondo quando ricontatta il fratello e lo scopre deceduto. Ormai sola, traccia una linea e decide da che parte stare.

La ventunenne (!) che ha vissuto il doppio si accosta ai Rosacroce, all’esoterismo e all’alchimia. In un impeto febbrile scrive e, amica di gente che milita in Leaves e Turtles, ottiene un impiego da autrice conto terzi. Le Tartarughe trasformano Lady-O in una hit, David Geffen prende nota e nel ’71 la chiama alla Asylum riservando il numero uno del catalogo per Judee Sill, capolavoro che cancella i confini tra pop, colonna sonora, gospel, classica, folk. Tutto armonizzato da una calligrafia di naturale complessità e avvolto in un’orchestrazione bilanciata, della quale si occupa soprattutto Don Bagley, già nel di poco antecedente Ladies Of The Canyon che presta anche il produttore Henry Lewy. In un autentico “a sé” piovono da dimensioni ultraterrene la melodia e il corno di Crayon Angels, una The Achetypal Man mediana tra Bach e country blues, l’arcadia folk screziata di barocco in The Phantom Cowboy e di Hollywood per Ridge Rider. Tra elaborati simbolismi, sensualità criptica, arcani flower power e citazioni del romanzo L’ultima tentazione di Cristo, la voce – spesso sovraincisa in strutture corali e fughe – conficca nel cuore gli estatici rapimenti My Man On Love e Lopin’ Along Through The Cosmos, la cantabilità sofisticata di Lady-O e The Lamb Ran Away With The Crown, il gospel laico del singolo Jesus Was A Cross Maker curato da Graham Nash, il peculiare r&b Enchanted Sky Machines, l’arazzo Abracadabra. Si trascende il sublime, ogni volta privi di parole. Incantati. Stupefatti.

Lo stato di grazia prosegue nei tour con Randy Newman e Van Morrison, benché il 33 giri sia un fiasco commerciale e il tentativo di lanciare in Inghilterra una cantautrice sui generis non porti a nulla. Sospettando che Geffen la promuova in modo inadeguato, la bad girl lo insulta pesantemente e poco dopo un enorme cartellone pubblicitario sul Sunset Boulevard è rimosso. Gli obblighi contrattuali ridotti al minimo, al sostegno economico provvede un fondo fiduciario, comunque scialacquato in costosi regali ai conoscenti più cari come il poeta David Bearden, amore tormentato protratto fino a metà decennio. Nel 1973 Heart Food conferma Lewy in regia, mentre Judee si occupa delle partiture e impugna egregiamente la bacchetta pur senza alcuna esperienza. Compatto e articolato, il disco offre sonorità più piene e cose memorabili nello struggimento da favola The Kiss, in una frizzante The Pearl, nella meditabonda The Phoenix. Apice assoluto The Donor, sinfonia tascabile dove il crescendo chiesastico si scioglie su pianoforte e voce e scaglia il coro del kyrie eleison in empirei dai quali si sta per precipitare.

Esigue le vendite, due incidenti automobilistici ledono la spina dorsale della Nostra, che con i suoi trascorsi non può acquistare antidolorifici e – amaro paradosso – deve per forza ricorrere alla droga. L’ultimo sussulto nel 1974, quando esce dall’ospedale e in un giorno incide Hi, I Love You Heartily Here, album “perduto” ripescato da O’Rourke sul CD Dreams Come True del 2005 con altri inediti per uno scavo di archivi proseguito da Live In London e Songs of Rapture And Redemption. Nel centro esatto dei Settanta inizia il dissolversi silenzioso di chi, non tollerando l’invalidità crescente, torna nei luoghi dove è nata. La mattina seguente il Ringraziamento 1979 la Sill viene trovata nel suo appartamento stroncata da un’overdose. Il medico legale archivia il caso come suicidio, ma gli amici ricordano un pranzo sereno pur se disseminato di segnali – sguardi, gesti, frasi – che cogli soltanto a posteriori. Dopo la cremazione, l’oceano Pacifico ricongiunge il corpo all’universo e cala il sipario. Restano in dote musiche che rasentano l’indicibile e la consolazione che, come la fenice che cantò, Judee è viva più che mai.

United States Of America: post, prima di tutto

Quando ancora i dischi uscivano soltanto in formato fisico, spulciare le note di copertina era una gioia e una fonte di illuminazione. Inoltre, scoprire chi aveva contribuito a cosa poteva rappresentare un’interessante chiave d’accesso e di interpretazione, come del resto quei ringraziamenti che talvolta “spiegavano” l’artista con disinvolta eleganza. Per tacer delle interviste e dei rimandi del critico avveduto e/o dell’esperto di turno, capaci di cogliere allo stesso tempo l’importanza di una band e le sue radici più o meno nascoste. Per esempio, quelle di gente fantastica che adoro come Stereolab, Portishead e Broadcast. Tranne gli ultimi, le assonanze con gli United States Of America mi furono evidenti solo dopo aver toccato con orecchio la ristampa Edsel uscita nel ‘97 del loro unico LP.

Non sono che alcuni, quelli citati sopra, dei tanti discepoli di nobile rango folgorati dalla meteora che solcava i cieli nel fatidico Sessantotto, si fermava alla posizione 181 di “Billboard” e non conosceva successori. A differenza di altri manufatti d’epoca, però, non è invecchiata né puoi dirla databile. Scusate se è poco e, soprattutto, scusate se ne parlo nella rubrica “culti” quando trattasi di un classico. Questioni di lana caprina, in fondo. L’importante è lodare un 33 giri splendido e lontanissimo da coordinate rock (and roll) tradizionali, le sonorità d’avanguardia poggiate su un “appassionato distacco” che ritroveremo nei nomi succitati, lo stile già post spigoloso e minimale ma benedetto da umanità e senso melodico.

In eccesso di anticipo, gli United States Of America rinunciarono alle chitarre e, partendo dalla colta contemporanea e dalla performance art, approdarono a favolose mutazioni di psichedelia. Non fu facile arrivarci, ma il percorso ricco è utile a chiarire la genesi e la natura di un peculiare punto di arrivo. Joseph Byrd nasce nel 1937 in Kentucky e cresce in Arizona, amando il jazz e padroneggiando diversi strumenti sin dall’adolescenza. Dopo la laurea ottiene un master a Stanford, conosce La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich e si trasferisce a New York, studiando con Morton Feldman e John Cage e trafficando con elettronica e arte concettuale nelle fila del movimento Fluxus. Del 1963 l’incontro con Dorothy Moskowitz, studentessa di tre anni più giovane con la quale si fidanza e per un po’ lavora alla Capitol.

Non fa per loro, così traslocano a Los Angeles per introdurre l’avanguardia alla UCLA. Fondato il New Music Workshop con il trombettista Don Ellis, il nostro uomo sfacchina sulla musica indiana e allestisce happening multimediali. In occasione di uno di essi, nel ‘65 organizza un gruppo blues attorno all’amica Linda Ronstadt: una vera epifania per chi capisce che il rock vanta notevoli possibilità esplorative e un pubblico assai ampio. Frattanto, lui e Dorothy si sono lasciati pur restando in ottimi rapporti. Quando ai primi del 1967 pongono le fondamenta del progetto, è lei a cantare come un’altera Grace Slick mentre Byrd scrive, arrangia e maneggia un arsenale di tastiere con l’anarchico collega Michael Agnello, Stuart Brotman al basso e Craig Woodson alla batteria.

A dispetto del nome provocatorio e di una bizzarra proposta è la Columbia a farsi avanti, tuttavia Agnello e Brotman se ne vanno indignati. Rimpiazzati con Gordon Marron al violino, il bassista Rand Forbes e il tastierista ospite Ed Bogas, per dare compiutezza a ciò che gli ronza in testa il capobanda commissiona al giovane Tom Oberheim un modulatore ad anello, si avvale di un antesignano del sintetizzatore, usa effetti e microfoni a contatto. L’eccentrica tavolozza e l’assenza di un background convenzionale si saldano a precise scelte estetiche garantendo originalità: un quintetto preparatissimo sotto il profilo esecutivo mescola Cage, Stockhausen, l’etnologia e l’amore di Byrd per Charles Ives, affrontando il rock contemporaneo senza pregiudizi né alterigia. Un demo risulta gradito alla Columbia e il contratto è siglato grazie anche ai buoni uffici di David Rubinson, vecchia conoscenza newyorchese che lavora colà come produttore.

Dicevo di un tragitto complicato: durante le registrazioni dell’album sorgono infatti problemi di non poco conto. Tra chi attribuisce a Joseph atteggiamenti dispotici e chi imputa a Rubinson eccessi di invadenza, tra chi vuole svoltare verso la popedelia e chi giura fedeltà all’innovazione, pare incredibile che l’esito restituisca un ciclo sonoro e tematico a tal punto coeso e affascinante. Su un telaio ritmico solido e fantasioso tastiere, violino e nastri preregistrati intrecciano trame immaginifiche sin da The American Metaphysical Circus, stranito impasto della pepperiana Mr. Kite con pianoforte ragtime e due marching band che si apre su un’ipnotica ballata e poi chiude il cerchio tornando all’inizio.

In totale armonia, agli squarci rumoristi della frenetica Hard Coming Love risponde l’estatica, cosmica dolcezza di Cloud Song, al serrato inno The Garden Of Earthly Delights ribatte il sarcastico e robotico cabaret I Won’t Leave My Wooden Wife For You, Sugar. Farina del sacco di Marron e Bogas, Where Is Yesterday è psichedelia inquieta un filo più convenzionale perfettamente integrata allo slanciato, acidulo avant-pop Coming Down, al romanticismo elegiaco di Love Song For The Dead Ché, a una Stranded In Time con la quale Marron e Bogas recapitano gustosa psichedelia britannica, alla collagistica The American Way Of Love che tutto sintetizza con mirabile articolazione. Una voce in loop ci chiede “quanto è stato divertente?” e il disco termina aprendo finestre su futuri lontani.

Il gruppo ha però i giorni contati: dissapori, tensioni e accuse sfociano nella cacciata del leader, le ferite non saranno mai rimarginate e il rompete le righe arriva nella primavera ’68. Dorothy prova vanamente a tenere in piedi la sigla e, in coda al decennio, Joseph incide un apprezzabile lavoro solistico. Da allora ha pubblicato dischi di musica tradizionale americana dell’800, composto per cinema e televisione, prodotto Jazz di Ry Cooder e insegnato. Più discreto il profilo degli altri, spiace riferire della dipartita di Forbes nel dicembre 2020 e di relazioni tuttora pessime. Stante una certa amarezza, conforta l’evidenza che il loro circo metafisico non smetterà mai di stupirci.  

Musica per le mezze stagioni: Tudor Lodge

In tempi di speculazione meglio ribadirlo: la rarità di un manufatto discografico non costituisce necessariamente garanzia di valore artistico. Semmai è più probabile il contrario, poiché certi furbacchioni sono soliti costruire mitologie di cartongesso a fini speculativi. Venendo al punto, mentre scrivo queste righe un originale Vertigo, numero di catalogo 6360043, dell’omonimo album dei Tudor Lodge vi costa settecentocinquanta euro. Attenzione: per una copia “VG”, e scordatevi la “mint” se non possedete una Mastercard Black. Siamo oltre la decenza, insomma, considerando che le ristampe sono reperibili a prezzi ragionevoli sia in vinile che in CD.

Tenendo sempre ben presenti le teorie di Sigmund Freud sul collezionismo, a me interessa il succo e cioè la musica. Eccezione che conferma la regola, Tudor Lodge ne offre di squisita e ascrivibile al folk albionico che, tra anni Sessanta e Settanta, era oggetto di felici contaminazioni da parte di chi lo mescolava al rock e chi ne scandagliava il lato oscuro, di chi si lanciava in viaggi acidi e chi, come i Nostri, inseguiva una purezza pastorale possibile solo nell’immaginazione. In quella favolosa ricerca di equilibrio si osservavano le radici da diverse prospettive ed ecco perché il filone tuttora rappresenta una viva fonte di ispirazione: perché significava tornare indietro mentre si progrediva e viceversa.

Vale oggi come nel turbolento ’68, allorché il duo voce/chitarra di Reading composto da John Stannard e Roger Strevens trae il nome – quasi: il locale si chiamava Tudor Tavern – da un pub cittadino. Di lì a un annetto Lyndon Green subentra a Strevens e, tempo altri dodici mesi, la formazione si stabilizza con la cantante e flautista americana Ann Steuart. Battuto palmo a palmo il circuito folk, approdano a Londra e, grazie ai buoni uffici del manager Karl Blore, firmano per la Vertigo. Il 33 giri di cui sopra vede la luce nel 1971 in una strepitosa confezione, svelando arazzi di plettri acustici intessuti sulla sezione ritmica dei Pentangle e su misurati intrecci di fiati e archi.

Il resto ce lo mettono melodie gentili, armonie vocali altrettanto e un “ricercato minimalismo” che da ossimoro diviene realtà. Benché figlio della propria epoca, Tudor Lodge vanta infatti un particolare sapore che qualcuno ha definito twee folk: ci sta, se parliamo di dolcezza che non stanca, di incantesimi bucolici senza eccesso recuperati in tempi relativamente più recenti da band affini come Shelleyan Orphan e Mirò, di un’aura da stagioni di mezzo che non ci sono più. Soprattutto, se parliamo della The Lady’s Changing Home che varia la ricetta ricorrendo a un pizzico di elettricità in più, di una rilettura di Kew Gardens del collega Ralph McTell, della sofisticata, un filo malinconica delicatezza che promana da It All Comes Back To Me e Recollection, da Nobody’s Listening e I See A Man.

Se gli scintillanti madrigali folk-pop Would You Believe?, Help Me Find Myself e Forest giustificano in pieno il paragone con i Belle And Sebastian, l’incantata e incantevole Two Steps Back suggerisce un’ipotetica Joni Mitchell britannica e Willow Tree parte oscura per dipanarsi cameristica. Tutto molto bello, ma che finisce nel solito modo: la promozione dell’etichetta è carente e il disco non vende. Pochi soldi e tanta stanchezza, Annie se ne va e con la sostituta di lusso Linda Peters, pronta a intraprendere una favolosa carriera con il marito Richard Thompson, i Tudor Lodge completano un tour in Olanda e nel 1972 si dividono. Dai primi anni ’80 si sono susseguite rimpatriate con un’altra cantante e John ha proseguito fino alla morte, sopraggiunta nel marzo 2020. In un beffardo scherzo del destino, l’ultima incarnazione dei Tudor Lodge aveva da poco pubblicato un album dal titolo Life Goes On

Frammenti di un paradiso pop: Guided By Voices

Se nutri interesse per il lato visionario del pop, a Robert Pollard vuoi un sacco di bene. Nonostante tutto, perché nessuno è perfetto e tanto meno un artigenio che probabilmente batte Billy Childish quanto a (iper)produttività. Non mi sono dato la pena di controllare, ma pare che la discografia del Nostro si attesti sulle tre cifre, e comunque i conti fateli voi. A me importa lodare la band tornata in pienissima attività con un profluvio di dischi che nemmeno la pandemia ha arrestato e, quel che più conta, in buona forma.

Ho scritto “band” e tuttavia, pur senza sminuire la cinquantina di elementi transitati nelle sue fila e il braccio destro Tobin Sprout, i Guided By Voices sono Robert Pollard. Per questo, da che mise un primo punto alla vicenda non c’è stato modo di annoiarsi tra la carriera solista e svariati altri progetti: per le medesime ragioni, la rimpatriata non offre il fianco a critiche. Anzi, sottolinea l’atemporalità delle canzoni di Bob, che sono battiti di ciglia che cuciono pop, psichedelia e new wave in un fugace momento, dove ciò che per altri è abbozzo dipinge un universo compiuto.

Rimuovere il superfluo mostrando l’arguzia compositiva è il segreto di un culto per antonomasia. Di un anello mancante tra Beatles, Television Personalities e Swell Maps che, costruendo un ponte tra R.E.M. e Beat Happening, è servito da esempio per Sebadoh e Pavement. Non è poco, ne converrete. Sorrido al pensiero che Robert (classe 1958: maestro elementare, amante dei surrealismi verbali, voce al crocevia tra Paul McCartney e Michael Stipe) si sia trovato per caso in una cantina di Dayton, Ohio, a inseguire sogni. Intorno ai venticinque anni, inizia ad avvolgere un folk-rock venato di nervosismo e popedelia in brevi schegge che sbucano da una foschia sonora.

Spetta ai Fab Four della Georgia ispirare nel 1986 il mini Forever Since Breakfast, laddove nell’87 gli LP Devil Between My Toes e Sandbox indicano discrete potenzialità, confermate entro due anni da Self-Inflicted Aerial Nostalgia. Più cupo nel 1990 Same Place The Fly Got Smashed, la svolta giunge dodici mesi dopo: autoprodotto come i predecessori in poche centinaia di vinili, Propeller vede l’ingresso di Sprout, che con la sua penna bilancia lo strapotere di Pollard. Apportato un tocco di equilibrio, il cocktail di sixties, sperimentazione e ironia non sfugge alla stampa, nel ’93 Vampire On Titus esce su Scat e un gruppo cui si sono aggiunti Mitch Mitchell, Greg Demos e Kevin Fennell – con ragione, questa viene considerata la line-up “classica” – si esibisce dal vivo con maggiore frequenza.

L’asso è calato l’anno successivo da Bee Thousand, un Revolver da cantina – ascoltare per credere Kicker Of Elves, Queens Of Cans And Jars, Echos Myron – però imbevuto di freakbeat e post-punk. Solo colpi d’ala qui, dagli Wings alticci di Tractor Rape Chain alle The Goldheart Mountaintop Queen Directory e Yours To Keep sottratte allaIncredibile String Band, passando per la dolcezza svagata di A Big Fan Of The Pigpen e per il Dan Treacy abbigliato paisley di I Am A Scientist. Se Mincer Ray e Hot Freaks sono gli Wire con Stipe al microfono, le incrostazioni di Hardcore Ufo e i Gang Of Four spuri di Her Psychology Today tratteggiano un manifesto estetico che restituisce anima alla musica.

Lo stile definito dal sardonico leader lo-fi arena rock impressiona la Matador ed ecco Alien Lanes riassumere un linguaggio che ora possiede anche la compattezza per imporsi nel panorama indie. Applausi agli incroci di Pixies e Beatles (As We Go up We Go Down, A Salty Salute) o di Move e Fall (Pimple Zoo, Watch Me Jumpstart), a 45 giri dimenticati nel cassetto da Pete Townshend (Closer You Are) e scivolati via da Document (Stripes White Jets), a ipotesi di Zombies in overdose di elio (Chicken Blows), agli omaggi alla Flying Nun (Blimps Go 90) e ai Soft Boys (Alright), alla sintassi matura e mirabile di Motor Away, Game Of Pricks e My Valuable Hunting Knife. Dopo l’ingresso nell’élite alternativa, Under The Bushes Under The Stars soffre però una certa stanchezza.

Il rischio dello stereotipo dietro l’angolo, nel 1997 Pollard rinnova la compagine assoldando i veterani Death Of Samantha, frattanto ribattezzatisi Cobra Verde. Si spiegano così le trame strumentali più robuste di Mag Earwhig!, evoluzione che colloca tra Big Star, Badfinger e Posies la bellezza di I Am A Tree, Bulldog Skin, Not Behind The Fighter Jet e Now To War. Logico a quel punto tentare il salto di categoria, però Ric Ocasek non trova la quadra di uno standard compositivo inusualmente basso: continuamente rinviato, Do The Collapse esce su TVT nel ’99 lambendo il fondo dei Top 200 con una blanda e stralunata parafrasi degli Weezer. Mentre dei Cobra Verde rimane solo il prezioso Doug Gillard, il periodo negativo prosegue con il divorzio del nostro eroe, che tuttavia trova la forza di reagire e recupera terreno in Isolation Drills.

Scarse le vendite, rientra alla Matador per Universal Truths And Cycles, Earthquake Glue e Half Smiles Of The Decomposed che, a inizio del nuovo millennio, coniugano inventiva e verve. Si chiude su una nota alta: una maratona di quattro ore e sessantatré (!) canzoni, tenuta il 31 dicembre 2004 al Metro di Chicago e immortalata dal DVD The Electrifying Conclusion. Come accennato in apertura, lo spazio verrà colmato da un profluvio di sigle e imprese solitarie da setacciare in cerca di gioiellini. Infine, la nostalgia una tantum non canaglia riallaccia i fili del discorso dal 2010 al 2014. Infine, sei anni fa Robert ha riaperto i cancelli del suo bizzarro e bellissimo mondo. Un mondo che somiglia a un paradiso per atei. Siate i benvenuti.

Da costa a costa, la febbre di David Wiffen

Passami la bottiglia. Dammela. Ci sono un sacco di ragioni per svuotarla. Lenire il dolore, forse persino uccidermi. Giù un altro, vai.” Nella sua fredda lucidità, è un ritratto impietoso che oscilla tra l’ammissione di colpa e la rassegnazione di quando non ne puoi più e l’unica cosa che vorresti dire è “basta”. Ti aspetti che chi ha scritto queste parole (sistemandole su una musica al contrario briosa) abbia alle spalle una vita di cadute. Invece, More Often Than Not David Wiffen l’ha pubblicata poco prima di compiere trent’anni. Si trova su un album omonimo – secondo in ordine di pubblicazione, primo a essere stato registrato in studio – che poggia mezz’oretta di country e folk su una penna raffinata, sonorità elaborate e il baritono di David. Cercatelo, se amate Lee Hazlewood e Fred Neil.

Fuori nel 1971, non va da nessuna parte e l’artefice resterà un culto nonostante le riletture di Tom Rush e Byrds, di Jerry Jeff Walker e Ian & Sylvia, di Eric Andersen e persino Harry Belafonte. Più recentemente Cowboy Junkies, Jayhawks e Rich Robinson hanno omaggiato un talento consegnatosi in un (mica tanto) piccolo capolavoro di quella che oggi chiamiamo Americana. Citato nel novero de songwriter canadesi, in realtà David è nato in Inghilterra nel 1942 e ha attraversato l’Atlantico a sedici anni, dopo alcuni traslochi che dalla fattoria della zia – dove cresce con la madre mentre il babbo ingegnere è al fronte – lo hanno portato a Claygate. A scuola milita in un gruppo skiffle e in Canada bazzica le caffetterie del folk revival, spostandosi con l’autostop a Toronto, Edmonton, Calgary.

Da costa a costa, debutta su disco a Vancouver nel 1965 in circostanze singolari: lo invitano a una compilation dal vivo, il giorno dell’incisione è l’unico a presentarsi ed ecco un David Wiffen At The Bunkhouse Coffeehouse, Vancouver BC del quale non si accorge nessuno. Cambiati i tempi, gioca la carta del gruppo: combinano poco i Pacers, ma tramite i Children diventa amico di Bruce Cockburn e Richard Patterson. Li rincontra nei Three’s a Crowd, che nel ’68 consegnano un passabile pastiche di acid-folk barocco e sunshine pop in Christophers Movie Matinee, poi attraversano una serie di vicissitudini e rimpasti fino allo scioglimento. Mentre lotta contro l’alcool, David continua a esibirsi e nel ‘71 spunta un contratto con la Fantasy. Il resto lo sapete.

Anzi, no: due anni dopo il Nostro cala l’asso Coast To Coast Fever anche grazie alla United Artists e al valore aggiunto di Cockburn, che produce e maneggia le chitarre. Sulla copertina delle successive ristampe del disco, David è mollemente adagiato su una sedia, come un cowboy che riposa dopo un lungo viaggio. Adeguatamente oppiacee e rilassate, le atmosfere mescolano country, folk e rock dentro l’alone di stordimento dei primi anni Settanta, allorché la controcultura si allontana dalla realtà mentre torna alla tradizione con il senno del poi. Oltre a ciò, Coast To Coast Fever brilla per il concept implicitamente autobiografico e arrangiamenti asciutti ma attenti al dettaglio. Soprattutto per le canzoni: svelte a imprimersi e preziose di un timbro da crooner in blue(s) che le avvolge di malinconia crepuscolare e allo stesso tempo terrigna, virile, pure un po’ svagata.

Non rinunci a nulla, qui: non a favolose ipotesi di un James Taylor rustico (White Lines, scritta da Willie P. Bennett; il florilegio acustico Climb The Stairs), non alla sognante Skybound Station dall’incedere torpidamente folk-rock che, tra corde e percussioni, apre una vena di gospel bianco, non al Lucifer’s Blues attraversato da un sax soul che sul finale osa un’impennata jazz. Altrove, il caracollare e la slide della Up On The Hillside offerta da Cockburn ricordano Beggars Banquet, episodi pianistici come la vibrante You Need A New Lover Now cortesia di Murray McLauchlan e il commiato Full Circle – qualcosa di David Ackles, nel suo dramma trattenuto – non sfigurerebbero sui primi lavori di Jackson Browne e nei solchi del coevo Closing Time, la raccolta amarezza di Smoke Rings e una meditativa We Have Had Some Good Times stendono un ponte tra l’autore di The Dolphins e il Terry Reid di River.

E poi? Poi quella bellezza se la filano in quattro gatti. Wiffen si ritira guadagnandosi da vivere come autista e, vinta la battaglia contro l’alcolismo, nel 1999 ricompare con il discreto South Of Somewhere e nel 2015 recupera in Songs From The Lost And Found vecchi brani che credeva perduti. Da poco ha tagliato il traguardo degli ottant’anni e gli auguro tutto il bene possibile. Sappia che la sua febbre era buona e qualche cuore lo ha scaldato. Grazie infinite, amico.  

Sean O’Hagan, enigmista pop

È cosa nota che, dalla metà degli anni Ottanta, la spinta creativa in ambito rock rallenta il passo anche a causa di un differente approccio verso la storia. Pur continuando a costruire sulle basi dell’esistente, gli artisti si concedono con frequenza sempre maggiore giochi di citazioni più o meno esplicite, da un lato rimescolando il passato in ricette originali oppure gustose, dall’altro accontentandosi dell’esercizio di stile. Ripenso ad allora – per la cronaca, muovevo i primi, entusiastici passi nella popular music – e rispetto all’attualità mi sembra comunque un paradiso. Tuttavia, non sono qui per lamentarmi – dischi belli e importanti ne escono: la fatica, oggi, sta nella selezione – ma per lodare Sean O’Hagan e gli High Llamas.

Nel suo fantastico pop postmoderno, infatti, le citazioni sono una solida spina dorsale e un amabile rebus per critici e appassionati. Nello smaliziato divertimento creativo c’entra il fatto che Sean abbia anche scritto di musica e perciò non teme di riconoscere le proprie influenze. Senza fermarsi a questo, le incastra e amalgama giungendo in dimensioni parallele dove Smile è stato completato senza traumi e i Left Banke sono più famosi di Gesù, dove agli Steely Dan si dedicano corsi universitari e i compositori italiani di colonne sonore sono Dei dell’Olimpo. Una terra dei sogni, in tutti i sensi.

In principio c’erano i morbidi e discreti Microdisney, guidati con Cathal Coughlan – purtroppo scomparso nel maggio 2022 – tra l’Irlanda e Londra fino al tramonto degli eighties. Chiusa l’esperienza, Cathal fonda i Fatima Mansions e di O’Hagan sapete. All’inizio degli anni ‘90 l’E.P. Apricots si espande nell’album Santa Barbara, la squadra (in realtà, strumentisti attorno al capobanda) gioca bene ma il ragazzo è scontento. Ascolta Beach Boys, Left Banke, Van Dyke Parks, Kraftwerk, Neu! e li vorrebbe anche in ciò che sta scrivendo, perciò approfondisce le armonie vocali, il gusto per l’arrangiamento orchestrale, la scrittura che nasconde le complessità nella naturalezza. Con calma, arriva al segreto di, ehm… Fatima del pop d’autore.

La svolta è un concerto degli Stereolab: una chiacchierata con Tim Gane e Lætitia Sadier e Sean si aggrega come tastierista fino al ’94. L’entusiasmo lo spinge di nuovo sugli High Llamas, cui decide di donare una linfa che oggi diremmo intrisa di retromania. Quando sempre nel 1994 la piccola Target di Brighton pubblica Gideon Gaye, chi se ne accorge resta a bocca aperta: in mezzo a Britpop, grunge e crossover sbuca fuori una delizia di impasti strumentali ricchi però calibrati e di atmosfere nelle quali scorgi Brian Wilson e Burt Bacharach, Byrds e Steely Dan, Big Star e Piero Umiliani, il Van Dyke Parks di Song Cycle (omaggiato nell’uso del font Torino Italic Flair) e John Cale a Parigi nel 1919. Ci sono tutti, insieme e appassionatamente, per dimostrare che se c’è un cuore, retro significa anche brand new.

Poiché il gesto è spontaneo nella scintilla creativa e curatissimo nello sviluppo, dopo quasi tre decenni Gideon Gaye non mostra rughe. In eterno sarà un magnifico a sé in cui, tra alcuni siparietti col respiro del cortometraggio, sfilano la glassa agrodolce The Dutchman, gli XTC bucolici sotto cascate d’archi di Giddy And Gay, i Byrds che scambiano McGuinn con Fagen & Becker per Checking In, Checking Out, la library music lisergica Up In The Hills, il superbo quarto d’ora di Track Goes By in viaggio dal jingle-jangle a nevrosi motorik-jazz, l’incantato apocrifo wilsoniano The Goat Looks On e il suo gemello eterozigoto The Goat. Stupendo e, sì, imperdibile.

La critica gradisce, il disco viene riedito dall’Alpaca Park e persino dalla Epic. Anche se infine se li assicura la V2, gli High Llamas sono troppo eleganti e arguti per le masse indie. Gli album che seguono saranno di buona caratura, pur senza riuscire a sottrarre l’artefice dal culto né a eguagliare Gideon Gaye. Sapranno in ogni caso evitarne la fotocopia tra un’elettronica vintage che va e viene e il passaggio alla Duophonic, problemi economici che obbligano Sean a lavorare conto terzi e un paio di validi lavori solisti. Viene da pensare che un genio così meriterebbe ben altro, ma in fondo, come il suo Venerato Maestro anche lui non è stato fatto per questi tempi. E così sia.

Movietone: il mare dentro

Il Movietone è una tecnica inventata quasi cent’anni fa per registrare immagini e sonoro in sincronia. Anche se fu scelto per caso, trovo che si leghi bene alle suggestioni evocate da una formazione che con Stereolab e Pram appartiene al club degli “Hauntologi” ante litteram, indagatori del monoscopio atavico della memoria che ognuno possiede. Con diverse sfumature, sono i capostipiti della tradizione che, passando attraverso i Broadcast e il “giro” Ghost Box, sfocia nell’attualità di Vanishing Twin e Beautify Junkyards: “Non saprei dire se la nostra musica sia cinematica o evochi un passato immaginario. Se accade, è una fortunata coincidenza. In ogni caso, molte canzoni sono ispirate dai film: Jean Luc Godard ha influenzato profondamente il silenzio e la struttura dei brani, e anche la scena con la casa che esplode in ‘Zabriskie Point’.“ Sono trascorsi anni, ma i Movietone li ricordo nitidamente che iniziano un concerto da punti diversi del locale coinvolgendo gli astanti in un magico gioco. Penso ai significati del verbo “play” e tutto quadra.

Del resto quadrava anche nei medi anni Novanta a Bristol, dove Kate Wright (che ringrazio per le dichiarazioni che leggete qui), Rachel Brook e Matt Elliott militano nei Lynda’s Strange Vacation: “Ci incontravamo ai concerti e frequentavamo la Cotham, una scuola superiore vicina al caffè dove ci ritrovavamo abitualmente e al negozio di dischi dove lavorava Matt Elliott.” Oltre al Brit-pop, impazza un trip-hop del quale nella nuova avventura trattengono la lentezza e il senso per le atmosfere, benché i loro gusti – eterogenei ma in fondo complementari – vadano dai Velvet Underground a Nick Drake e Tim Buckley passando per krautrock, shoegaze, new wave, indie-noise, jazz, tropicalismo, slowcore e altro ancora. Di sì vasto campionario, nel loro suono rinvenite scaglie e aromi impastati con una malinconia da spiagge di inizio/fine stagione, quando con poca gente intorno e un clima più fresco ti rilassi per davvero.

Nella “mini scena” di Bristol parallela a Massive Attack e dintorni, l’iperattivo trio – Rachel era nei Flying Saucer Attack, Matt opera anche come Third Eye Foundation – accoglie alla batteria Matt Jones A/K/A Crescent e il marchio cittadino Planet battezza i primi passi: “Matt Jones rispose a un annuncio e presero i Crescent. Siccome cercavano una band con ragazze, io e Rachel formammo i Movietone e fu naturale coinvolgere gli altri. Alcuni di noi andavano all’università e appena possibile tornavamo a Bristol per le prove: in treno lavoravo sulle canzoni, che si adattavano al paesaggio che vedevo dal finestrino.“ Lungometraggio e colonna sonora virtuali in un colpo solo, insomma, offerti con inventiva già dalla “quiete rumorosa” del 45 giri She Smiled Mandarine Like/Orange Zero.

Nel 1996 replica l’umbratile gemma Mono Valley/Under The 3000 Foot Red Ceiling, anticipando un LP omonimo ruvido e naif ma complessivamente riuscito. Oltre alle ripescate Orange Zero e Mono Valley piacciono la velvetiana Chance Is Her Opera, il folk ombroso Green Ray e quello cristallino Late July, l’estatica 3 AM Walking Smoking Talking. Entro un biennio Day And Night lascia affiorare la voce della Wright, lima gli spigoli ed è il capolavoro di chi frattanto è passato alla Domino: “Matt Jones aveva acquistato un otto piste con il quale incidemmo gran parte del disco. Ha il suono che preferisco, le canzoni posseggono spazialità e credo trattenga la nostra essenza.” Un insieme minimale, raccolto e attento all’intarsio benedice l’incanto Blank Like Snow, il jazz-folk Sun Drawing, la sinuosa Night Of The Acacias ispirata da Alice Coltrane e i viluppi di Noche Marina. Se Blank Like Snow plana da un rasserenato Pink Moon, Useless Landscape, Summer e l’ipnotica The Crystallisation Of Salt At Night padroneggiano il lessico di Mark Hollis.

Scrosciano gli applausi, tuttavia non sono da meno i successori The Blossom Filled Streets e The Sand And The Stars. Il primo compensa nel 2000 il forfait di Elliott con nuovi compagni, una tavolozza espansa e panorami in cui è dolce naufragare: “Fu un disco molto personale, con testi importanti e composizioni difficili da concretizzare per la complessità strumentale.“La costa britannica diventa uno stato della mente popolato da inquietudini (Hydra, 1930’s Beach House), ricami (Star Ruby, Night In These Rooms) e stratificazioni (Year Ending, il brano omonimo). The Sand And The Stars chiude una pausa triennale spesa sugli altri progetti disegnando una mappa dell’anima del gruppo, sia nell’artwork che nella scelta di suonare davanti al mare: “Il feeling generale è più ampio. Invitammo degli amici in una casa sulla scogliera e registrare al buio sulla sabbia fu di grande ispirazione, nonostante il problema di portare contrabbasso e batteria lungo un sentiero ripido.

Accanto ai classici acquerelli (In Mexico, We Rode On, la title-track) sfilano i Galaxie 500 albionici di Ocean Song, una popolaresca Pale Tracks, lo splendore sospeso Snow Is Falling, la polaroid Near Marconi’s Hut e la festa mesta Beach Samba. E poi stop, fine delle trasmissioni. Concluso l’impegno contrattuale c’è chi mette su famiglia, chi si occupa d’altro e il tempo non basta: le strade si dividono artisticamente e gli amici rimangono tali. Lo sguardo fisso in un orizzonte dove acqua e cielo si confondono, non resta che aggiungere al quadro l’ultima pennellata The Movietone Peel Sessions 1994-1997, edito in questi giorni dalla Textile. Perché questa non è “solo” bellissima musica, questa, ma un’oasi di riservata bellezza in cui rifugiarsi. Qualcosa di necessario, in tempi bui.

John (Hammond) canta Tom (Waits)

I dischi preferiti di ognuno sono indiscutibili come i piaceri personali. Vanno al di là dell’oggettività perché sono pezzi di anima, amici arrivati in un momento particolare che da allora tengono compagnia, esaltano, commuovono, fanno incazzare. Ognuno ha il proprio club, e sai che belle sorprese quando leggi le liste altrui, ché nella musica – come nella vita – c’è sempre da imparare. Nel mio circolo, dal 2001 tengo sempre lucida la poltrona di Wicked Grin, perché possiede una magia che di Tom Waits preleva lo spirito e adatta le (de)forme con l’abilità del sarto alle prese con stoffe pregiatissime. In Wicked Grin John Hammond rischia grosso, poiché rilegge canzoni pescate dal repertorio Island e dintorni, ovvero da un’epocale scavo tra le ossa del blues per incastrarci polka, tango, Kurt Weill, Captain Beefheart, rose e polvere da sparo. Fedele alla propria vocazione di interprete, come già con i padri delle dodici battute cava dai jeans qualcosa che schiva e schifa le maniere laccate e le mezze misure.

Giusto così, ché l’uomo sa il fatto suo. Nato il tredici novembre del 1942 a New York, è figlio dell’omonimo talent scout della Columbia col quale non crebbe, essendosi i genitori separati che lui era piccolo. Questione di DNA l’orecchio fino, si innamora della chitarra slide alle superiori e l’illuminazione definitiva arriva durante un concerto di Jimmy Reed. Un annetto di college in Ohio e addio libri, torna in città a suonare fino a notte fonda. In pieno folk revival, il ventenne è un nome di tutto rispetto che incide per la Vanguard, nel ’66 funge da intermediario tra uno sconosciuto Jimi Hendrix e Chas Chandler e infine abbraccia l’elettricità registrando con The Band, Duane Allman, Dr. John e Michael Bloomfield.

Avanti veloce all’inizio del nuovo secolo: reduce da un tris vincente di LP su Point Blank, ha un’idea meravigliosa. Prende una dozzina di gemme dal catalogo waitsiano, aggiunge il traditional gospel I Know I’ve Been Changed, chiama qualche amico – Augie Meyers, tastierista di Doug Sahm; il mago dell’armonica Charlie Musselwhite; Stephen Hodges e Larry Taylor, fidata sezione ritmica di Sua Stramberia – e poi sistema l’autore in regia. In realtà, lo lascia libero di gironzolare come un cane pastore affettuoso ma curioso che annusa, zompa e abbaia. Il bello della faccenda è che Hammond non rimane schiacciato sotto il peso di tanto ben del demonio, ma se ne appropria intrecciando una coperta ruvida e calda. Ti porta davanti a una palude che mostra quanto sia antico lo scheletro dei brani e poi ti invita a nuotarci dentro.

Fuor di metafora, è una geniale reinvenzione di invenzioni che getta sul piatto note di copertina scritte da T-Bone Burnett e l’amaro romanticismo dell’inedita Fannin’ Street, smussa le asperità vocali e schiarisce i toni senza che la profondità ci rimetta. Hammond sente ciò che canta e suona, che si tratti del John Lee Hooker sfrigolante evocato in Heartattack And Vine, ‘Til the Money Runs Out e Big Black Mariah o di cartoline scivolate dal cassetto di Walker Evans come Clap Hands, Buzz Fledderjohh e Get Behind The Mule. Nel mazzo di assi spuntano anche la flessuosa 2:19, una caracollante 16 Shells From A Thirty-Ought Six, il notturno latino Shore Leave, la spigliata Jockey Full Of Bourbon e una splendida Murder In The Red Barn, che traduce l’umore ispido di Bone Machine nel jazz noir appartenuto a Blue Valentine. Una scommessa vinta a mani basse, Wicked Grin. Un disco del cuore che pulsa come un cuore. Non serve aggiungere altro.

Phantom Band: Sono Pazzi Questi Scozzesi!

Da quando la produzione discografica ha assunto cadenze folli, è impresa davvero impossibile affrontare con serenità un ammasso sempre più annichilente di pubblicazioni. Ciò premesso, ogni tanto ti imbatti in nomi che un tempo avresti definito di culto come gli scozzesi Phantom Band, purtroppo spariti dalla circolazione che sono ormai sei anni. Se di scioglimento si tratta, consola che abbiano chiuso bottega all’apice della forma e del percorso artistico immacolato che intrapresero a Glasgow nei primi anni zero. Amici di lunga data, Duncan Marquiss e Greg Sinclair (chitarra), Gerry Hart (basso), Damien Tonner (batteria), Andy Wake (tastiere) e il cantante Rick Anthony si lanciano in jam informali per passare il tempo dopo un giro al pub. Mano a mano, iniziano a trascorrere sempre più tempo in sala, “trenta-e-qualcosa” con dalla loro il cinico disincanto dell’età in cui puoi ancora giocarti qualche chance ma la vita l’hai masticata. Di conseguenza, ragioni prima di aprire bocca o di scrivere canzoni.

Questo spiega in parte l’arguzia con la quale ricompongono modelli esistenti in fogge personali senza prendersi troppo sul serio. Cambiano nome di continuo (NRA, Los Crayzee Boyz, Tower of Girls, gli esilaranti Robert Redford e Robert Louis Stevenson) e si lasciano dietro un nastro, un CD-R e un’etichetta creata a bella posta battezzata “estrema nudità”. Doppiata la metà del decennio, optano per una definitiva ragione sociale sottolineando la natura enigmatica che fa bel paio con il tagliente nonsense e i concerti in maschera – che assecondano una ritualità pagana palese anche nelle trasfigurazioni folk e nell’approccio percussivo al ritmo – o in cui piazzano un’attrezzatura da body building sul palco invitando il pubblico a usarla. Sento sussurrare “Monty Phython” e “Bonzo Dog Band”, vedo sorrisi d’intesa. Bene. Sarebbe comunque mero colore se non ci fosse uno stile sostanzioso spremuto dalle collezioni di dischi e dalle epifanie della quotidianità, un assaggio del quale plana su un singolo per Trial & Error che nel 2007 persuade la Chemikal Underground a scritturare il gruppo.

A inizio 2009, l’esordio Checkmate Savage testimonia un ampio ventaglio di intuizioni a fuoco tra kraut-wave (The Howling) e James muscolari (Folk Song Oblivion), ipnosi folk-rock declinate post (Crocodile) e country-gospel modernizzato (Island), Beach Boys teutonici (Throwing Bones) e mutant-funk con venature surf e tribali (Burial Sounds). Facile prospettare un gioiello dietro l’angolo, e infatti nell’autunno 2010 The Wants recapita un capolavoro di avvincente complessità e canzoni che respirano. Ci trovate folk dalle movenze “motorik” (The None Of One), melodie struggenti che partono crepuscolari e arrivano limpide (Come Away In The Dark), post-punk in viaggio tra varchi spaziotemporali (Into The Corn, Everybody Knows It’s True), coltellate al revival new wave (Mr. Natural, Walls) e alla pavidità dell’indie più formulaico (A Glamour, O, Goodnight Arrow). Una voce dal timbro scuro, arrangiamenti policromi e strutture ardite confluiscono in un avant-pop ricco di passione. Una rarità, allora come ora.

Con Iain Stewart al posto di Tonner si suona in America ed Europa, prolungando l’attesa per il “difficile terzo album” fino al luglio 2014. Strange Friend supera la prova traslocando gli LCD Soundsystem oltremanica (The Wind That Cried The World) e i Love in Irlanda (Atacama), alternando garage-wave poppizzato (Clapshot) a ipotesi hard della Beta Band (Sweatbox) e ibridi tra Human League e Smashing Pumpinks (Doom Patrol).Tanto è il materiale accumulato nelle session che pochi mesi più tardi Fears Trending (spiritoso anagramma di Strange Friends…) svuota i cassetti, offrendo una Spectrelegs che manda al tappeto i Black Mountain, gli Harmonia incupiti di Tender Castle, una Local Zero da XTC sardonici, lo Scott Walker indeciso tra elettronica lo-fi e Morricone di Denise Hopper e Olden Golden. Ti aspetti un futuro di meraviglie e invece nisba. Durante l’ennesimo tour, in Francia la Phantom Band è derubata della strumentazione, le rimanenti date vengono cancellate e da allora i simpatici pazzoidi non hanno più suonato insieme. Tuttavia non dispero, ché alcuni membri sono ancora attivi in altri progetti e nel loro caso una rimpatriata porterebbe di certo cose buone. Ehi, ragazzacci, che ne dite di riprovarci?