A volte gli altri si fanno un’idea sbagliata di noi. Può dipendere da svariati motivi: una corazza che abbiamo costruito per proteggerci da ferite passate, la frattura tra pensiero ed espressione della quale cantava Lou Reed, una condizione così particolare che la maggior parte della gente fatica a cogliere. Ecco: se l’uomo e l’artista in parte coincidono, per quel geniaccio di Luke Haines credo valga l’ultima ipotesi. Se in questi anni, oltre che averne la massima stima, sono riuscito nei limiti del possibile a capirlo, è nella categoria dei sognatori cinici che va inserito, accanto a gente come John Cale e Matt Johnson.
Se proprio bisogna incasellarlo, intendiamoci. La critica più attenta e una cerchia di fedelissimi ai suoi piedi, a Luke è mancato solo il successo. In piena onda Britpop gli Auteurs non erano secondi a nessuno ma rimasero schiacciati tra Blur, Oasis e Pulp; medesima sorte nel decennio precedente per i Servants nonostante uno scintillante guitar-pop alla Smiths. Forse, che accada per vocazione o destino, qualcuno non esce da un determinato ruolo. In ogni caso, Haines è troppo intelligente per i luoghi comuni ed ecco spiegato un prosieguo di carriera dipanato tra progetti di ottimo livello come Blackbox Recorder, Baader Meinhof e la collaborazione con Peter Buck, per tacer dei dischi solisti, dei volumi di memorie e di ricette…

Non ci si annoia mai con quest’individuo mercuriale e imprendibile e gli eventuali neofiti possono rimediare alla svelta, andando dritti al punto. Ovvero agli Auteurs, omaggiati lo scorso febbraio da Cherry Red con il corposo cofanetto People Round Here Don’t Like To Talk About It. Scopriranno un universo parallelo dove il glam non è mero revival per copisti ma, approfittando del distacco cronologico, si riallaccia contemporaneamente agli anni ‘60 e al post-punk. Scopriranno un songwriter di elevato rango e una discografia immacolata, che raggiunge l’apice nel momento in cui si bussa alla porta di Steve Albini.
Per chi scrive, nel ’95 After Murder Park fu una randellata simile all’incontro con una/o lei/lui che ti travolge come un treno e la successiva frequentazione racconta una vita più bella e piena. Fu un fiasco commerciale, certo, tuttavia si è incastrato nel cuore grazie a un’emotività spigolosa – quale emotività, in fondo, non lo è? – e a un’introspezione che alterna graffi e carezze, oscurità e lampi di chiarore. Un perfetto specchio dell’artefice, insomma, e del resto si trattava del “difficile” (nonché decisivo) terzo album. Prova superata in pieno sullo slancio dei predecessori New Wave e Now I’m A Cowboy, che offrivano personalità e belle canzoni a prescindere dal Britpop mentre il capobanda sterzava facendosi remixare da μ-Ziq e dichiarando che techno e house erano più interessanti della concorrenza.

Anche per questo colse in contropiede la scelta di affidarsi ad Albini per incidere materiale scritto per lo più su una sedia a rotelle, dopo che Luke si era fratturato le caviglie saltando (mai chiarito fino a che punto involontariamente…) giù da un muro. Fatto sta che da Abbey Road esce un capolavoro di culto che fonde gli estremi che lo compongono in qualcosa di superiore: accorata e ispida, armonica e abrasiva, una scaletta impeccabile poggia su arrangiamenti tanto elaborati quanto minimali e sul taglio che Albini conferisce a chitarre e batteria. Solido lo scheletro, archi e fiati rifiniscono, sottolineano e contrappuntano un gusto melodico che nasconde l’alone decadente dentro un’orgogliosa concretezza.
Musica per/da scenari urbani in bianco e nero, nei quali aggirarsi dapprima curiosi e poi sempre più esaltati ma senza abbassare la guardia, tra ipotesi di Go-Betweens che barattano la malinconia con il vigore (Everything You Say Will Destroy You), trasfigurazioni del romanticismo allucinato di Hunky Dory (Child Brides, Unsolved Child Murder, Fear Of Flying) e inni scontrosi che mescolano impeto, strappi emotivi e lustrini (Land Lovers, Married To A Lazy Lover). Se Light Aircraft On Fire e Tombstone accompagnano Peter Perrett dentro l’epoca del grunge, New Brat In Town, Buddha e Dead Sea Navigators si collocano a metà strada tra In Utero e Before Hollywood, laddove il brano omonimo chiude i giochi con grazia mai scontata e dolcezza che flette i muscoli. Una faccenda coraggiosa, After Murder Park, ma soprattutto preziosa. Il genere di disco che si conserva nel tempo e che solo un sognatore cinico può permettersi. Il genere di disco da amare senza “se” e senza “ma”.