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Ritorno a Murder Park: Auteurs

A volte gli altri si fanno un’idea sbagliata di noi. Può dipendere da svariati motivi: una corazza che abbiamo costruito per proteggerci da ferite passate, la frattura tra pensiero ed espressione della quale cantava Lou Reed, una condizione così particolare che la maggior parte della gente fatica a cogliere. Ecco: se l’uomo e l’artista in parte coincidono, per quel geniaccio di Luke Haines credo valga l’ultima ipotesi. Se in questi anni, oltre che averne la massima stima, sono riuscito nei limiti del possibile a capirlo, è nella categoria dei sognatori cinici che va inserito, accanto a gente come John Cale e Matt Johnson.

Se proprio bisogna incasellarlo, intendiamoci. La critica più attenta e una cerchia di fedelissimi ai suoi piedi, a Luke è mancato solo il successo. In piena onda Britpop gli Auteurs non erano secondi a nessuno ma rimasero schiacciati tra Blur, Oasis e Pulp; medesima sorte nel decennio precedente per i Servants nonostante uno scintillante guitar-pop alla Smiths. Forse, che accada per vocazione o destino, qualcuno non esce da un determinato ruolo. In ogni caso, Haines è troppo intelligente per i luoghi comuni ed ecco spiegato un prosieguo di carriera dipanato tra progetti di ottimo livello come Blackbox Recorder, Baader Meinhof e la collaborazione con Peter Buck, per tacer dei dischi solisti, dei volumi di memorie e di ricette…

Non ci si annoia mai con quest’individuo mercuriale e imprendibile e gli eventuali neofiti possono rimediare alla svelta, andando dritti al punto. Ovvero agli Auteurs, omaggiati lo scorso febbraio da Cherry Red con il corposo cofanetto People Round Here Don’t Like To Talk About It. Scopriranno un universo parallelo dove il glam non è mero revival per copisti ma, approfittando del distacco cronologico, si riallaccia contemporaneamente agli anni ‘60 e al post-punk. Scopriranno un songwriter di elevato rango e una discografia immacolata, che raggiunge l’apice nel momento in cui si bussa alla porta di Steve Albini.

Per chi scrive, nel ’95 After Murder Park fu una randellata simile all’incontro con una/o lei/lui che ti travolge come un treno e la successiva frequentazione racconta una vita più bella e piena. Fu un fiasco commerciale, certo, tuttavia si è incastrato nel cuore grazie a un’emotività spigolosa – quale emotività, in fondo, non lo è? – e a un’introspezione che alterna graffi e carezze, oscurità e lampi di chiarore. Un perfetto specchio dell’artefice, insomma, e del resto si trattava del “difficile” (nonché decisivo) terzo album. Prova superata in pieno sullo slancio dei predecessori New Wave e Now I’m A Cowboy, che offrivano personalità e belle canzoni a prescindere dal Britpop mentre il capobanda sterzava facendosi remixare da μ-Ziq e dichiarando che techno e house erano più interessanti della concorrenza.

Anche per questo colse in contropiede la scelta di affidarsi ad Albini per incidere materiale scritto per lo più su una sedia a rotelle, dopo che Luke si era fratturato le caviglie saltando (mai chiarito fino a che punto involontariamente…) giù da un muro. Fatto sta che da Abbey Road esce un capolavoro di culto che fonde gli estremi che lo compongono in qualcosa di superiore: accorata e ispida, armonica e abrasiva, una scaletta impeccabile poggia su arrangiamenti tanto elaborati quanto minimali e sul taglio che Albini conferisce a chitarre e batteria. Solido lo scheletro, archi e fiati rifiniscono, sottolineano e contrappuntano un gusto melodico che nasconde l’alone decadente dentro un’orgogliosa concretezza.

Musica per/da scenari urbani in bianco e nero, nei quali aggirarsi dapprima curiosi e poi sempre più esaltati ma senza abbassare la guardia, tra ipotesi di Go-Betweens che barattano la malinconia con il vigore (Everything You Say Will Destroy You), trasfigurazioni del romanticismo allucinato di Hunky Dory (Child Brides, Unsolved Child Murder, Fear Of Flying) e inni scontrosi che mescolano impeto, strappi emotivi e lustrini (Land Lovers, Married To A Lazy Lover). Se Light Aircraft On Fire e Tombstone accompagnano Peter Perrett dentro l’epoca del grunge, New Brat In Town, Buddha e Dead Sea Navigators si collocano a metà strada tra In Utero e Before Hollywood, laddove il brano omonimo chiude i giochi con grazia mai scontata e dolcezza che flette i muscoli. Una faccenda coraggiosa, After Murder Park, ma soprattutto preziosa. Il genere di disco che si conserva nel tempo e che solo un sognatore cinico può permettersi. Il genere di disco da amare senza “se” e senza “ma”.

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Acide introspezioni: Bill Wyman e The End

Ammettiamolo: ogni discografia che sia un minimo corposa – diciamo dai cinque album in su – contiene qualcosa di mediocre, brutto o addirittura indifendibile. Anche quella dei Grandi, certo. Esempio paradigmatico Their Satanic Majesties Request, zoppicante tentativo dei Rolling Stones di rincorrere uno stile “pepperiano” che non gli apparteneva. Involontariamente comica la copertina, serve parecchia benevolenza per assolvere un contenuto che spinge a domandarsi perché. Applaudito lo space rock 2000 Light Years From Home e soprattutto il luccichio acid-barocco She’s A Rainbow, tutto il resto è noia e imbarazzo. Tenendomi stretto un ingiustamente sminuito Between The Buttons, annoto che nel 1967 le Pietre erano stressate e stanche e per un po’ avrebbero fatto meglio a non rotolare. Forse anche per distrarsi, in quei giorni Bill Wyman si occupa di un prezioso manufatto psichedelico a nome The End, una band del Surrey da lui già incrociata nella precedente incarnazione, tali Innocents. Assieme ai Rolling Stones, il complessino beat aveva fatto da spalla a John Leyton e nel corso del tour Dave Brown (basso, voce) e Colin Giffin (chitarra, voce) avevano stretto amicizia con la sezione ritmica degli Stones.

Varato un nuovo progetto con il tastierista Nick Graham, il sax di John Horton e Roger Groom (poi rimpiazzato da Hugh Atwooll) alla batteria, è naturale telefonare a Bill. Per le sue velleità di talent scout, il vibrante errebì da club dei ragazzi risulta perfetto: sistemato in bacheca un mazzetto di 45 giri e ottenuto un seguito in Spagna, l’ingresso del chitarrista Terry Taylor segna un aggiornamento stilistico. Nell’estate ’67 il gruppo incide Shades Of Orange, gioiellino del Wyman che sistema Charlie Watts alle tabla immaginando un Barrett allegro, indeciso tra schizzi di Spagna e bolero orientaleggiante. Come nel caso degli Skip Bifferty e dei Dantalian’s Chariot, conta molto un retaggio black che impedisce eccessi di svenevolezza: senso del groove, sapienti dinamiche strumentali e piglio robusto fanno dei The End una cerniera tra Brian Auger, ipotesi lisergiche dello Spencer Davis Group e futuri seguaci come Prisoners, James Taylor Quartet e Charlatans.

Già singolo del marzo 1968, Shades Of Orange torna sull’album Introspection, registrato in saltuarie session lungo nove mesi con la produzione di Bill e il missaggio curato da Glyn Johns. Comune il background, lavorano tutti serenamente cogliendo i brani in diretta e successivamente arricchendoli per conservare il “tiro”. Chitarre aguzze, Hammond sfrigolanti, intarsi fiatistici e armonie vocali restituiscono così lo spirito dell’epoca nell’esatto momento in cui se ne allontanano: la visionarietà, qui, appartiene più a paesaggi urbani che alle coeve fughe bucolico-favolistiche eccetto alcuni interludi parlati affidati al giardiniere di Bill. Mentre Glyn intasca l’intuizione per Odgen Nut’s Gone Flake sfilano una Dreamworld da Zombies muscolari, la filastrocca popedelica Under The Rainbow, i Traffic esuberanti di Cardboard Watch. Se la title-track gioca tra parentesi meditative e impennate allestendo uno scontro frontale tra I’m A Man e Taxman ripreso in chiusura, What Does It Feel Like e Don’t Take Me incalzano slanciate, la favolistica Sacred Loving – sempre Wyman l’autore – vanta l’harpsichord di Nicky Hopkins e la trasfigurazione di She Said Yeah vede i Beach Boys alle prese con music hall e jazz.

Avrebbe potuto essere un successo mica male, Introspection. Invece, per ragioni mai chiarite e probabilmente legate all’intricato stallo tra gli Stones e il manager Allen Klein, la Decca tiene tutto fermo per più di un anno. Nei favolosi Sessanta ciò equivale a un’era geologica e così, quando a fine 1969 il disco arriva nei negozi, Giffin e Attwooll non sono più della partita e la psichedelia è tramontata. L’album vende pochissimo, diventa un costoso oggetto di culto, il gruppo si separa e alcuni membri riaffiorano nei Tucky Buzzard. Tralasciando la pletorica produzione postuma, potete rimediare all’amaro “what if” procurandovi il CD ufficiale che tre lustri or sono metteva fine a una sfilza di edizioni pirata. Vale la pena, fidatevi.

Sull’altra riva del fiume con Terry Reid

Mi piace immaginare Terry Reid seduto sulla riva sbagliata ma in fondo giusta del suo fiume. L’ha condotto lì il destino mentre lui si assumeva delle responsabilità, dicendo “no” laddove poteva dire “sì”. Ecco. Sarà capitato anche a voi di prendere dei se e avrei dovuto e farne un falò purificatore per sentirsi meglio, perché il rimpianto è un chiodo rugginoso che dentro ti scava il freddo e il vuoto. Di rimpianti, “Superpolmoni” – come lo chiamano affettuosamente amici e fan – pare non ne abbia, e ciò fa onore a colui che replicò il “famoso” rifiuto opposto a Jimmy Page anche ai Deep Purple e a Spencer Davis.

Datemi del bestemmiatore, però vi dico: meglio così, ché altrimenti ci saremmo persi quel gioiello di River. E vi dico anche che il Bartleby melvillano qui non c’entra. Quest’uomo va fiero della propria vita e di aver contribuito ad accendere il motore del Dirigibile. Che diamine: nel 1969 aveva vent’anni e credeva in se stesso. Era stato in America di spalla a Cream e Stones e il futuro pareva così splendente da accecare. Cosa avremmo fatto al posto suo, noi sapientoni del senno di poi?

Terry Reid

Terry Reid nasce oggi settantuno anni fa nei pressi di Huntingdon, Cambridgeshire. Inizia prestissimo la carriera con i Jaywalkers, che sottraggono ai bittaroli liceali Redbeats un pischello che canta come chi non vuole la pelle nera perché già ha le corde vocali di quel colore. Nel ’66 aprono per Jagger & soci alla Royal Albert Hall, il diciassettenne si ingrazia Graham Nash degli Hollies e questi li porta alla EMI. Malgrado le buone vendite del soul-pop The Hand Don’t Fit The Glove, il gruppo si separa. Entra in scena Mickie Most e in coda ai Sessanta Bang Bang, You’re Terry Reid e un LP omonimo offrono un rock slanciato, misto di pop e soul ma propenso a impennate hard e oasi di folk acido. Guarda caso, in linea con protetti di Most come Jeff Beck Group e Donovan; guarda caso, anticipando un felice dualismo che i Led Zep renderanno stellare.

Talento Reid ne ha eccome: guida un trio inusuale (voce e chitarra, organo, batteria) lungo gli Stati Uniti raccogliendo elogi. Quando Page gli offre il ruolo di cantante dei New Yardbirds, deve onorare impegni importanti e risponde di contattare un tipo della Band Of Joy che di nome fa Robert Plant. Da gentleman consiglia anche il batterista, tale John Bonham. Il resto è storia. A fine 1969 il brillante percorso si arresta. Il mentore vuole un burattino da classifica e pubblica il secondo disco senza consultare l’artista, che serio e determinato com’è, sbatte la porta.

Terry Reid Backstage

Per tre anni Terry non pubblica più nulla a causa delle grane legali derivanti dal litigio. Ciò nonostante, tira dritto. A Wight e Glastonbury incassa applausi, collabora con David Lindley, si vede estromettere Without Expression da Deja Vu per i capricci di Stills. Con il bassista Lee Miles, il batterista Alan White e Lindley lavora in madrepatria sul materiale accumulato nei cassetti, poi Alan molla per gli Yes e David per Jackson Browne e l’album è terminato a Los Angeles mentre Ahmet Ertegun spalanca le porte della Atlantic. La lotta contro i dardi dell’oltraggiosa fortuna infine paga. Dal 1973 possiamo gioire di River, splendore a lento rilascio incamminato con passo più terrigno sui sentieri di Astral Weeks. Duttile e superbo, il cantato di Reid fluisce come fosse uno strumento dentro il perfetto amalgamarsi fra blues, soul, folk, rock e un Brasile assimilato grazie all’amicizia con l’esule Gilberto Gil.

Lo sostengono l’unione tra groove corposi e ipnotici (la sezione ritmica di cui sopra, oppure la batteria di Conrad Isodore e le percussioni di Willie Bobo) e gli arazzi chitarristici di Lindley, così che anche la prima facciata – più movimentata e robusta – è avvolta nel sorridente torpore che rappresenta lo spirito dell’album. Sono canzoni sorprendenti e inafferrabili Dean e Things To Try, Avenue e Live Life, tuttavia l’autentico cuore di River risieda sul lato B. Trovate lì una title-track di svagata emotività (uno Stevie Wonder tropicalista e fumato?) e le malie acustiche Dream e Milestones, dove Nick Drake insegna la saudade a Tim Buckley ed entrambi spariscono in volute di aria solida.

river

La vicenda potrebbe chiudersi su una perfezione che pochi notano e che avrà una postilla nel 2016, allorché il vaglio delle registrazioni inutilizzate porta alla luce gli inediti e le versioni alternative di The Other Side Of The River. Invece, sbrigandomela in fretta, riferisco di ulteriori sfighe. Una perplessa Atlantic straccia il contratto: sollevato e con in tasca una liquidazione di tutto rispetto, Reid si chiude in una villa californiana, mette su famiglia e dal buen retiro comunica di rado. Nel ‘76 Seed Of Memory esce la settimana in cui l’etichetta che lo pubblica, ABC, dichiara bancarotta; tre anni e la Capitol non promuove Rogue Waves, che commercialmente da qualche parte forse sarebbe giunto. Gli Ottanta scivolano via tra cameo e lavoretti conto terzi. Nel 1991 Trevor Horn confeziona il trascurabile The Driver e il resto del decennio è speso negli States con Brian Auger e Mick Taylor. Arriva il nuovo secolo: Terry collabora con DJ Shadow e Alabama 3, River esce in CD e il culto si amplia.

Vi svelo un segreto. In testa ho diversi film che non saranno mai girati. Uno finisce così: un inglese sulla settantina si appresta a salire sul palco, fisico in forma e volto simpaticamente guascone col quale Crono ha avuto clemenza. Gli si avvicina un amico grossomodo della stessa età che conserva vistose tracce dello spezzacuori che fu in gioventù, capello lungo ormai argenteo e sguardo intenso da cavaliere di Rohan. Abbraccio fraterno. Il cavaliere dice: “Lo sai che avresti potuto vivere un’altra vita?”. L’altro sistema la Gretsch davanti al petto. L’accarezza. Gli occhi fissano un orizzonte lontano. “Sì, ma ho la mia. Questo conta, alla fine.” Sui loro sorrisi quasi impercettibilmente diversi partono i titoli di coda. Buon compleanno, Superpolmoni!

A sangue freddo: Johnny Thunders

Nella “nostra” musica pochi si sono votati all’autodistruzione come Johnny Thunders. Fa male scriverlo, perché detesto il falso mito del “bello e perdente” e non trovo davvero nulla di romantico in chi soccombe alle proprie debolezze. Prima che mi diate del moralista, sappiate che l’essenza del rock per me sta altrove, in primis nell’espandere gli orizzonti espressivi e nell’eternare un’epoca in una canzone. Che in tale impegno si possa morire, rientra nella (cazzo di) vita della quale ognuno dispone come crede e come può. Così che per i Keith Richards e Iggy Pop dalla scorza durissima esiste un John Anthony Genzale Jr. sopraffatto da intime fragilità e dall’eccesso di identificazione con il lato oscuro. Anche lui va ricordato per le illuminazioni sparse lungo il sentiero degli eccessi: i vizi, per favore, si accomodino fuori.

Con quel cognome, John non poteva che nascere (sessantotto anni fa oggi) nella Grande Mela. La dieta del ragazzino del Queens consiste in British Invasion e girl groups, errebì e blues, Bob Dylan e Rolling Stones. Conseguito il diploma, gli Actress sono il primo complesso serio in cui suona la chitarra: nel ‘71 adotta lo pseudonimo che sappiamo, mentre le “attrici” divengono New York Dolls con l’arrivo del cantante David Johansen e della sei corde di Sylvain Sylvain a fianco del bassista Arthur Kane e del batterista Billy Murcia. La pittoresca combriccola si rivelerà fondamentale nel servire da cerniera tra un oltraggioso glam da bassifondi e presagi di punk fusi in un impasto fragoroso e beffardo. Solido il seguito nel Lower East Side, incidono demo in seguito editi dalla ROIR in Lipstick Killers e sostituiscono Murcia (annegato nella vasca da bagno causa mix di droghe e alcolici) con Jerry Nolan.

JT playing

L’accordo con la Mercury arriva nel 1973. Prodotto da Todd Rundgren, a fine luglio il capolavoro New York Dolls sancisce il vero inizio dei Settanta in America. Il Nostro cofirma quattro brani e sforna un riff dietro l’altro, la critica recepisce il messaggio ma il pubblico è tiepido. Conseguenza ne è che il navigato George “Shadow” Morton supervisiona Too Much Too Soon: ancora scarse le vendite, il risultato è artisticamente inferiore e l’etichetta molla una formazione ormai preda di eccessi. Prendendo appunti per l’immediato futuro, Malcolm McLaren cerca di tramutarli in fenomeni situazionisti ricorrendo ad abiti in pelle rossa e bandiere comuniste sul palco. Non può funzionare. A metà decennio Thunders e Nolan (non più tra noi: idem Kane e Sylvain) sbattono la porta e la casa delle Bambole chiude fino alla patetica rimpatriata degli anni zero.

Johnny e Jerry riemergono poco dopo negli Heartbreakers con il chitarrista Walter Lure (scomparso nell’agosto del maledetto 2020) e Richard Hell, lesto a lasciare il basso nelle mani di Billy Rath per la classica storia dei galli e del pollaio. A mezza via tra i Ramones e un deragliante aggiornamento delle Dolls, il quartetto spicca nella scena gravitante attorno al CBGB’s: già con l’agenzia MainMan che curava il Bowie versione Ziggy, nell’autunno ’76 Leee Childers li aggrega al famigerato “Anarchy Tour” con Sex Pistols, Clash, Damned. Ed è in Inghilterra che gli Spezzacuori registrano L.A.M.F., acronimo di un like a mother fucker che, profano vangelo secondo il Settantasette, inquadra alla perfezione un lavoro crudo e ruvido. Da ascrivere agli annali come minimo il “manifesto” Born To Lose, il torrido e tossico inno Chinese Rocks cortesia di Dee Dee Ramone, la beffarda I Wanna Be Loved e la martellante One Track Mind. A voi scegliere il fangoso originale oppure Revisited, che nell’84 migliorava il mix rivoluzionando la scaletta.

johnny

Sono proprio i contrasti sulla produzione e il mastering dell’LP a causare lo scioglimento della band, così che Thunders si ferma a Londra per giocare nel ’78 la carta solista So Alone. Il primo album a suo nome resterà anche il migliore grazie alla felice unione fra il punk e un rock urbano dalle robuste venature blues, gli ospiti prestigiosi (tra gli altri Steve Marriott, Phil Lynott, Chrissie Hynde) e una scaletta solida con apici nell’indimenticabile struggimento You Can’t Put Your Arms Around A Memory, in una Pipeline girata hard, nella trascinante London Boys e nel glam moderno alla Only Ones – ci suonano infatti sia Peter Perrett che Mike Kellie – Ask Me No Questions. Invece di capitalizzare, l’uomo trasloca con moglie e figli a Detroit sperperando l’occasione Gang War con l’ex MC5 Wayne Kramer, riformando più volte gli Heartbreakers e vendendo le chitarre per la roba.

Quando durante un tour viene arrestato, gli danno infine una ripulita. Gli anni Ottanta raccontano un reduce che in coda al decennio ha un’impennata d’orgoglio ed entra in riabilitazione. Vuole allontanarsi dalla matrigna New York e provare a rifarsi una vita, ma il destino dispone diversamente. Il ventitré aprile 1991 Thunders muore a New Orleans in circostanze mai chiarite. Trentasei ore prima aveva reinciso con i Die Toten Hosen il manifesto Born To Lose: poi dice che uno è segnato, che se le cerca. La verità è che siamo tutti barche contro la corrente, Johnny boy, e i ricordi sono importanti. Grazie di avermi insegnato senza volerlo ad abbracciarli.

Texas Instruments: radici nell’infinito

Non deve essere male vivere ad Austin. Capitale del Texas dal lontano 1839, riposa sulle rive del fiume Colorado tra laghi artificiali e colline rocciose vantando una vivace scena musicale. Caratteristica che mi permette di introdurre al volo un gruppo che prese il nome dall’omonima casa produttrice di calcolatori allorquando la new wave sfumava in una faccenda esaltante per comodità definita rock alternativo. David Woody (chitarra), Ron Marks (basso) e Steve Chapman (batteria) erano ragazzi che – similmente a tanti altri sparsi nella provincia statunitense – navigarono alla riscoperta di un passato e, nell’indifferenza del grande pubblico, seppero reinventarlo senza rendersene conto.

Folk e hard, slanci acidi e ipnosi post-punk, ammiccamenti ai Settanta e un ribollire ritmico parente dei Minutemen (omaggiati sul secondo LP rileggendo Life As A Reharsal) disegnavano i confini di un terreno spesso confinante con quello presidiato dai fratelli Kirkwood. Sarebbe tuttavia ingiusto ridurre i Texas Instruments a epigoni meno talentuosi dei Meat Puppets e/o dei Giant Sand: dai loro dischi migliori affiora un’interpretazione intrigante il giusto dell’ineffabile “estetica desertica” che trasformava miraggi in canzoni. Date loro una chance e garantisco che non vi deluderanno.

TI

Corre il 1983 quando il trio esce dalla cantina per lanciarsi a testa bassa nei locali di Austin. Ventiquattro mesi di serrata attività ripagano con la coesione e la robustezza sfoggiate dall’autarchico EP More Texas Instruments! La formazione predilige cadenze pacate e attende lo stesso lungo intervallo per esordire a 33 giri, dando nel frattempo una mano a Daniel Johnston per il nastro Continued Story. Ben ponderato, l’album omonimo (edito come il successore dalla Rabid Cat) può fondere muscoli e cervello giocando disinvolto tra impatto e raffinatezza. In un programma privo di cadute spiccano Call And Response, Prussian Blue, No Wonder I’m Confused e Girl Like You, mentre le travolgenti cover di Do Re Mi (Woody Guthrie) e A Hard Rain’s A-Gonna Fall sistemate in chiusura paiono eseguite da un Fogerty punkettaro.

Le promesse di grandezza trovano pieno compimento nell’oppiaceo, policromo Sun Tunnels, forte nel 1988 di una scanzonata You Ain’t Going Nowhere sottratta ancora a Dylan, del pigro folk Little Black Sunrise, del boogie‘n’roll modernista A Seascape Scapegoat, di una The Daily Image che strapazza il sixties pop britannico. Facce complementari della medesima, splendida moneta sono il citato tributo ai Minutemen e le scintillanti ipotesi di Hüsker Dü sotto LSD The Thing In Apartment B e Some Kinda Surprise, l’ondeggiare flessuoso di Floating Off To Greenland e una title-track che alterna estasi a impennate. Capolavoro cult? E sia.

sun tunnels

L’anno seguente il chitarrista Clay Daniel si aggiunge alla line-up mentre fervono i lavori al terzo LP. L’etichetta però fa bancarotta e Crammed Into Infinity esce su Rockville solo nell’autunno 1991, restando giocoforza schiacciato dai “pesi massimi” di una vendemmiata irripetibile. Un vero peccato perché atmosfere un poco più roots sfociano negli incantevoli folk-rock alla R.E.M. prima maniera del brano omonimo e di Hanging By A Thread, in un’articolata World’s Gotten Smaller, negli aromi blues di Big White Horse, in una She’s Not Free indirizzata sulla malinconica traiettoria che conduce da The Band agli Wilco. Altri due calendari e un passaggio alla Doctor Dream nel mezzo, Magnetic Home accusa il colpo in termini di brillantezza e scrittura, laddove il dignitoso Speed Of Sound segna la resa a metà dei Novanta.

Troppo obliqui sia per il grunge che per il movimento “No Depression”, i nostri spossati eroi si separano anche perché la multinazionale di cui sopra ha intentato causa, vinto e piantato l’ultimo chiodo nella bara. Non siamo in molti a ricordarci di loro, tuttavia (ri)scoprire i Texas Instruments è d’obbligo qualora la “tradizione reinterpretata” sia il vostro pane quotidiano. Da una sognante e tranquilla dimensione parallela, il bagliore traslucido di Floating Off To Greenland e Hanging By A Thread ribadiscono quanto la vecchia scuola indie americana costituisca un esempio di intelligenza, stile e creatività indenne allo scorrere del tempo. Avercene di gente così, oggi.

Jim Carroll: Rimbaud nel campo da basket

Faccenda spinosa e annosa, la “poesia rock”. Se è decenni di ciarlatanerie ci hanno reso diffidenti, a saper cercare ci si imbatte in qualche illuminazione non dappoco. Leggete qui, parte prima: “Voglio l’angelo dagli occhi folli che prende ciò che do e non ciò che dico/ Voglio l’angelo che non sceglie mai e non torna indietro ogni volta che perde/ soprattutto, voglio l’angelo che non perde mai.“ Ora immaginatevi queste parole cantate da un maudit che sfida il mondo. Ovverosia da Jim Carroll, che ha attraversato in fretta la nostra musica da ragazzo di vita e di strada, da innocente a modo suo che, tra eccessi e brutture, carica la decadenza metropolitana di valori universali con un lirismo oggettivo degno di Lou Reed.

Proprio per questo ho sempre trovato irritante “Ritorno dal nulla”, la pellicola che quasi un quarto di secolo fa non restituì del suo libro “The Basketball Diaries” (da noi “Jim entra nel campo di basket”: Minimum Fax lo ristampa il prossimo ottobre)  la profondità drammatica né, soprattutto, l’intensità lirica. Per raccontare un’età adulta ottenuta in modo precoce e sofferto servirebbero Martin Scorsese o Gus Van Sant, il quale ci andò vicino all’epoca di “Belli e dannati”. Pazienza: il film possiamo girarlo noi, partendo dalle pagine e dai dischi che l’uomo ha lasciato in dote. Perché è roba che fa male ma bene, quella. Perché è davvero poesia, cazzo.

jim carroll

James Dennis Carroll nasce il primo agosto 1949 in una famiglia di origine irlandese del Lower East Side e a scuola si fa notare per i voti alti e l’abilità a centrare il canestro. Folgorato da “Sulla strada”, inizia a redigere dodicenne un diario incamminato lungo inferni di dipendenza da eroina e relative abiezioni, crimini, dolore sovente autoinflitto. La doppia vita non impedisce però a Jim di apprezzare Phil Ochs e Bob Dylan come Rilke e quell’Allen Ginsberg con cui diviene amico mentre, tra ’67 e ’72, pubblica versi apprezzati da Kerouac e Burroughs, divide un appartamento con Patti Smith e Robert Mapplethorpe e regge il microfono che cattura il velvetiano Live At Max’s Kansas City.

Dopo i volumi “Living At The Movies” e “The Basketball Diaries”, la metà del decennio lo vede in California a cercare di levarsi di dosso la scimmia. Quando nel ’78 Patti è sulla costa ovest a promuovere Easter, lui le fa da cicerone. A San Diego il gruppo spalla si rifiuta di suonare, l’amica spinge Jim in scena presentandolo come chi le ha insegnato a scrivere poesie: seguono un torrente verbale accompagnato da Lenny Kaye e soci e una platea in visibilio. Assoldato un solido quartetto locale, la Jim Carroll Band mette mano a un demo.

bd bantam

Di nuovo in quel di New York, alla Atco basta un ascolto del nastro per ingaggiare la formazione e spedirla in studio. Dal 1980 Catholic Boy offre polaroid di vita vissuta a ritmo di un rock urbano favolosamente ruvido che si porge serrato nel classico People Who Died, cinematico in una City Drops Into The Night preziosa del sax di Bobby Keys e delle tastiere di Allen Lanier, epicamente triste in Day And Night; un rock che conosce il punk e spara proiettili addosso all’Iggy Pop solista (Wicked Gravity, It’s Too Late) e a un’ipotesi di Modern Lovers irrobustiti (Crow, I Want The Angel) centrando ogni volta il bersaglio.

Il problema è che, nonostante l’entusiasmo dalla critica, il successo commerciale si nega e seguiterà a negarsi. Anche a Dry Dreams, che nell’82 ribadisce la formula wave-rock tramite le epidermiche Jody, Still Life e Work Not Play, una fremente Barricades, la confessione Rooms e la dolorosa Lorraine. Desterà invece qualche preoccupazione un biennio più tardi I Write Your Name per il capobanda sinistramente smunto in copertina e l’esito inferiore ai predecessori. La svolta è dietro l’angolo.

catholic boy

Onorato il contratto, Carroll ricade preda del vizio o almeno così pare, poiché nel resto del decennio comunicherà solo attraverso i tomi “The Book Of Nods” e “Forced Entries: The Downtown Diaries 1971-1973” (in Italia “Jim ha cambiato strada”), liriche per Blue Öyster Cult e Boz Scaggs, apparizioni negli LP parlati di John Giorno. Parlato sarà nel 1991 Praying Mantis, parziale compendio della fitta attività di chi, qualche anno dopo, incanta con la struggente 8 Fragments For Kurt Cobain. Scommetto che sul fondo del cuore il poeta stesse parlando anche di/a se stesso: se non mi credete, beh, leggete qui, parte seconda: “Non importa che ti sia sentito tradito/ questo è il prezzo/ della spietata passione di un giovane artista/ che comincia con un bacio/ e finisce in una maledizione.

Forse si era rivisto nelle pozze di malanima che erano gli occhi di Kurt e gli era tornata voglia di musica. Prova ne sia che nel ’95 collabora con Rancid e Truly e nel ’97 ringrazia Jack Kerouac sul tributo Kicks Joy Darkness, (ri)uscendo allo scoperto a fine millennio con il più che discreto Pools Of Mercury. Impressi sul viso i solchi scavati da una cruenta lotta contro l’esistenza, il ragazzo cattolico seguita a scrivere finché un infarto non lo coglie alla scrivania in un “nine eleven” del 2009. Voglio credere che in quell’istante si sia finalmente pacificato con i suoi demoni.

Amichevolmente vostri, Charlatans

Nel rock aiuta moltissimo ragionare in retrospettiva, perché il distacco cronologico permette di rileggere serenamente i fenomeni e (ri)contestualizzare mode e tendenze. Prendiamo il “Madchester sound”: cosa resta, trent’anni dopo? L’esempio di crossover assoluto e l’attitudine sono impresse forti e chiare, certo, ma se parliamo di album, il cesto non è esattamente colmo. Vero che fu un momento ‘pop’ e quindi fulmineo, basato più su singoli e 12”, comunque… Ecco a voi Screamadelica, Capolavoro assoluto nell’ultimo anno dei Capolavori assoluti. Poi Pills ‘n’ Thrills And Bellyaches degli Happy Mondays, altro passaggio obbligato che portò in classifica l’accidia e il cinismo dei poeti di borgata.

L’esordio degli Stone Roses? Splendido oltre ogni dire, ma con la pista da ballo e l’ecstasy c’entrava giusto di striscio, essendo in realtà uno degli ultimi Capolavori del pop chitarristico indie anni Ottanta e perciò una cerniera tra epoche. L’elettronica policroma degli 808 State, beh, anch’essa una grandiosa faccenda parallela. Vengo al punto aggiungendo un 33 giri che all’epoca la stampa britannica esaltò e che oggi mi colpisce per come osserva da una nicchia dorata ciò che lo ha seguito.

charlatans

Tranne i primi EP, se chiedete a me nessun altro lavoro dei Charlatans vale l’esordio del 1990, quel Some Friendly che cattura l’attimo di cui sopra sottolineando come spesso il più fulgido pop d’oltremanica derivi dalla commistione con la black music. Le radici dello stile sensuale e comunque dotato di un piglio sostenuto della formazione del West Midlands (il cantante Tim Burgess, carismatico e dall’adeguato physique du role; le tastiere di Rob Collins e la chitarra di Jon Baker; la ritmica con Martin Blunt al basso e Jon Brookes, batterista morto di tumore al cervello nel 2013) stavano in antesignani come Brian Auger, Graham Bond Organization, Spencer Davis Group. E nei Prisoners, cult-band dalla quale proveniva un altro coevo sdoganatore dell’organo Hammond, James Taylor.

Parlano chiaro lo strumento padroneggiato da Rob Collins – scomparso pure lui: nel ’96, in un incidente automobilistico – e lo scintillante singolone The Only One I Know, recuperato all’epoca sulla versione CD. Tuttavia i ragazzi non erano dei meri revivalisti: il loro errebì ad alta seduzione era sintonizzato sulla contemporaneità e più che altrove negli echi di jingle-jangle da R.E.M. maturi dell’inno Sproston Green, nella moderna pelle nera di Believe You Me e Polar Bear (ai Charlatans la house di Chicago piaceva assai: anni dopo, Burgess canterà con i Chemical Brothers e costoro sforneranno un eccellente remix di Patrol) e nei ‘60 ricordati con garbo e acume in White Shirt.

some friendly

I Ciarlatani insomma furono baggy poco e bene, nondimeno freschezza e personalità ci guadagnarono comunque. Alla deboscia il quintetto preferiva rattristarsi (Then), lanciarsi tra le pieghe di una morbida neo-psichedelia squisitamente albionica (You’re Not Very Well, Sonic) e trovare un groove cautamente danzabile mentre erano in “viaggio” e viceversa. In Some Friendly l’alchimia funziona dall’inizio alla fine e sarà l’unica volta, poiché subito ci saranno defezioni, sfighe e casini vari che vi risparmio.

La vicenda arriva sino all’attualità attraverso vicissitudini, ma soprattutto tramite una sequela di album piuttosto carini, quale più e quale meno impreziositi da occasionali zampate e buoni spunti. Detto ciò, non mi sento di definirli imperdibili. Consiglio invece di investire tempo e denaro su Same Language, Different Worlds del 2016, dove Tim Burgess e Peter Gordon collaborano omaggiando intelligentemente il Bowie berlinese e quel gran Genio di Arthur Russell. Volete un tris? Procuratevi Melting Pot, eccellente raccolta datata ‘98 dall’ottima scelta di brani e siate felici. Il crogiolo dei Charlatans sarà stato talvolta un pochino confuso, ma al suo meglio era brillante assai. E lo resta tuttora.

Fiori sotto la casa dei Public Image Limited

La vita è strana. Beato chi ci vede un percorso coerente e uno straccio di senso. Come direbbe Julian Cope, è un caos elegante. Per questo a volte è meglio lanciare sassi dentro lo stagno e vedere che succede: contare i cerchi, oppure guardarli finché non diventano sempre più sottili fino a sparire dalla vista. John Lydon non ne poteva più del punk e del pupazzaro McLaren: secondo pel di carota, quella rivoluzione doveva far nascere cento nuove musiche e non cento copie dei Sex Pistols. Strappati i fili con cui Malcom, povero illuso, credeva di poterlo controllare, se ne andò ad allestire un suo progetto che mostra come John Non-più-marcio già avesse nella testa il post-rock.

Per forma, attitudine e spirito, siccome battezzò la nuova avventura Public Image Limited giocando con la percezione di noi che hanno gli altri e l’idea che un gruppo musicale potesse essere concepito e gestito come un’azienda. Prima di perdersi e poi ritrovarsi, infilerà il Capolavoro Metal Box tra altri due LP sensazionali che tuttora lasciano a bocca aperta, il terzo in ordine cronologico ancor più del primo.

Flowers Of Romance

Più che l’ingresso nei Top Twenty britannici seguito alla pubblicazione nella primavera 1981, di Flowers Of Romance stupiscono l’attualità e la forza con le quali risponde a un momento difficile. Perso un membro fondatore e un fondamento del suono con l’abbandono del bassista Jah Wobble, non senza un certo cinismo Lydon e il chitarrista Keith Levene serrano le fila e cambiano pelle un’altra volta con Martin Atkins, batterista presente solo in tre brani. Gettate un paio di settimane in tossici cazzeggi allo studio The Manor, assieme all’ingegnere del suono Nick Launay (poi convocato da Phil Collins grazie alla sapienza con la quale qui registra la batteria) si torna a Londra a sperimentare.

Tenendosi stretta la forma canzone tranne che nel conclusivo e sfocato delirio Francis Massacre, Flowers Of Romance sposta l’asse sulla ritmica. Resa irriconoscibile una chitarra comunque defilata e sistemato in un angolino il basso, tamburi e percussioni salgono al proscenio mescolandosi a echi mediorientali, sintetizzatori Prophet, orologi da polso amplificati, registrazioni televisive e molto altro. Da trame stratificate però minimali si libera una bestia che all’inizio non capisci cosa sia né cosa voglia. Qualcosa che – al massimo e vagamente – può ricordare una versione parecchio velenosa del Peter Gabriel di Intruder.

PIL

Poi quell’animale ti parla. Flowers Of Romance si conficca nel cervello con inesorabile calma, perché è allo stesso tempo subliminale e concreto. Qui piomba addosso come un mattone e là accarezza con rasoi di velluto, persuadendo che il genio autentico decolla dai propri limiti con pochi mezzi ma un’infinità di idee. Idee che dal krautrock e da Captain Beefheart si/ci spingono dritte nella contemporaneità di fan dichiarati come i Liars. E che scintillano nei martellamenti da muezzin in paranoia di Four Enclosed Walls e Under The House, nel groove sbilencamente efficace di Track 8, in una Phenagen ondeggiante tra teatro della crudeltà e trasfigurazioni etniche.

Laddove la title-track, nenia mista di gotico e gitano che vide la luce anche su singolo, è la faccenda con maggior parvenza di normalità e Hymie’s Him tratteggia una ambient brumosa parecchio inquieta(nte), Banging The Door gonfia i Can di sarcasmo e vetriolo e Go Back gira come una rugginosa, ipnotica giostra. Pionieristico, selvatico e visionario, Flowers Of Romance risulta perfetto nella sua (lievissima) imperfezione. Mi ricorda certi variopinti pesci tropicali che ti osservano dalla vasca, mentre per un attimo pensi che forse il vero prigioniero sei tu. Ma no, dai. Deve essere un’allucinazione. Oppure un’altra Immagine Pubblica.

Unsane: nel marcio della grande mela

Ci sono gruppi che incarnano i luoghi di origine al punto da risultarne inscindibili. Non so voi, però fatico a immaginare i Sonic Youth a Los Angeles o i Meat Puppets in quel di Chicago. Allo stesso modo, il metallurgico garage-blues zuppo di folate noise, tossicità punk e granito hard degli Unsane poteva essere figlio solo di New York. Più paranoici dei Jesus Lizard e più cattivi dei Surgery, questi eredi dei Flipper si aggiravano tra i bassifondi della Grande Mela all’epoca dei sindaci Dinkins e Koch, quando la mela (prima di Rudy Giuliani, della tolleranza zero, degli yuppies che invaderanno Downtown) era marcia non per modo di dire.

Forse proprio per questo il loro furore arty era autentico ed è giunto sino a oggi: se infatti una formula può smarrire senso e smalto quando troppo insistita, con cavalli di razza – perfetti ma non troppo in quanto autenticamente umani – non si può mai dire. Sia dunque lode agli Unsane, che trentuno anni fa iniziarono a trasporre in suoni la paranoia e la violenza associate alla madre di tutte le metropoli. A Manhattan, Chris Spencer, cantante e chitarrista originario della North Carolina, stanava una sezione ritmica in Pete Shore (basso) e Charlie Ondras (batteria) chiudendosi in una sala prove condivisa con Pussy Galore e Cop Shoot Cop (della serie dimmi con chi vai…) per uscirne solo nel 1990.

unsane

Mentre la banda affronta il pubblico a testa bassa, un’urticante manciata di 45 giri per diversi marchi indica una progressiva focalizzazione. La svolta giunge una sera del 1991 al CBGB’s: un’esibizione con i Sonic Youth si protrae fino a notte fonda e il moderno power trio esplode in faccia a cinque persone. Una di queste è Gerard Cosloy, capo della Matador che assolda i ragazzi seduta stante. Primo frutto un LP omonimo dalla copertina eloquente – un altro loro marchio di fabbrica, la truculenza vera e lontana dal risibile splatter metallaro – che raffigura un uomo decapitato sui binari del treno. Del tutto in linea, il contenuto assembla distorsioni chitarristiche, basso da cazzotto nello stomaco, batteria che tutto raccorda.

Conferite ulteriori solidità e potenza al chirurgico frastuono, la lezione rumorista innerva un hard-blues di accordi in minore e una voce grondante alienazione e rabbia. Il problema di questi infuriati Travis Bickle resta mantenere la giusta distanza tra rappresentazione della realtà e identificazione nella stessa. Non vi riesce Ondras, stroncato nel 1992 da un’overdose. Lo rimpiazza Vinny Signorelli, ex Swans e Foetus che sottolinea così la funzione di cerniera esercitata dagli Unsane tra scene limitrofe che sino ad allora si erano frequentate poco.

Scattered etc.

Mentre l’etichetta inganna l’attesa recuperando i succitati 7” in Singles: 89-92 – l’artwork mostra una vasca e una doccia insanguinate – e un mini di sessioni per John Peel, l’attività concertistica acuisce l’intesa che nel ‘94 sfocia nel plumbeo Total Destruction. Imbrattati cofano e abitacolo di un’auto, Spencer e soci passano alla Amphetamine Reptile per Scattered, Smothered And Covered (indovinato? sangue su un letto) che sancisce l’uscita di Chris da problemi di droga, saluta il nuovo bassista Dave Curran e segna un apice dove sonorità affilate ed energiche si sommano a una penna fattasi quel tanto più epidermica. Essendo anni folli in cui i Ministry finiscono nei Top 40 e gli Helmet si accasano presso una major, il video super economico di Scrape finisce su MTV procurando date di spalla agli Slayer.

Gli Unsane potrebbero capitalizzare la stabilità conferita dal passaggio alla Relapse per Occupational Hazard, tuttavia il destino ha in serbo una beffa: in quello stesso 1998 Chris viene aggredito a Vienna. Lo salvano un’operazione di chirurgia e una sosta al principio del nuovo millennio. Il ritorno datato 2005 offrirà quattro apprezzabili dischi – tra i quali spicca il penultimo, Wreck, che chiude il cerchio rileggendo per l’appunto i Flipper – finché nel 2019 il Nostro coglierà tutti di sorpresa, dichiarando alla webzine “Equilibrio Precario” che non suonerà più con gli Unsane.  Tranquilli, ragazzi, perché nel frattempo Spencer messo in pista gli Human Impact e qualcosa mi dice che ne sentiremo ancora delle belle. Dura la vita, nondimeno c’è chi è più duro di lei.

Tim Rose, a long time man

Se vi state domandando chi sia Tim Rose, suggerisco un esperimento. Estraete dallo scaffale Your Funeral, My Trial, puntate Long Time Man e ascoltate più volte. Infine, cercate in rete l’originale e, toh, avrete la radice primeva del Re Inchiostro che intinge nella pece una favolosa murder ballad apocrifa. Nel pittoresco bestiario del rock, Tim è qualcosa di poco noto e singolare: non si rovinò come Hardin, non sparì come Fred Neil, non esplose a contatto con la realtà come Buckley. Dotato di una penna con lampi di vaglia, fu per lo più un terrigno e carnale interprete – nell’epoca in cui l’autore si imponeva: forse questo spiega il persistente oblio – che impastò folk, rock, blues e soul da viso pallido con l‘ugola ne(g)ra. Però di veramente bello gli riuscì un solo disco. Però patì l’assenza di Lee Hazlewood o un Phil Spector, che l’avrebbero aiutato a ottenere gloria, onori e altre meraviglie. Però ci sono un pugno di canzoni da conoscere e custodire e una vicenda che è una storia americana. Nel bene e nel male.

Classe 1940, Timothy Alan Patrick Rose cresce in Virginia ereditando l’amore per la musica dalla nonna, pianista nei cinema del muto, e da una zia cantante d’opera. Influenze utili allorché, chitarra e banjo in spalla, entra nel mondo dello spettacolo dopo un picaresco percorso che lo ha condotto in seminario, in banca, nell’aviazione militare e nella marina mercantile. Venti-e-qualcosa, in svariate formazioni incrocia colleghi di belle speranze: John Phillips, Scott McKenzie, Jake Holmes. La prima faccenda seria sono i Big Three con quella Cass Elliot e John Brown (poi James Hendricks): tra ’62 e ’63, pubblicano due album folk di buon successo prima di sciogliersi per divergenze artistiche. Tim si ritrova solo sui palchi newyorchesi e nell’autunno 1966 è adocchiato da David Rubinson, firma con la CBS e il primo 45 cade nel vuoto. Senza scomporsi, David manda in studio Jay Berliner, Felix Pappalardi e Bernard Purdie a sgobbare su un intero LP seguendo gli arrangiamenti del Nostro.

smilin' Tim

Il singolo che lo traina è una Hey Joe che dalle sprintate letture di Leaves, Love e Byrds si trasforma in epica moviola. Tesa e collerica, così aderisce perfetta al testo e l’esempio verrà raccolto subito da Jimi Hendrix e, anni dopo, di nuovo dal fan Nick Cave. Introduzione fenomenale a un Tim Rose che dal ‘67 brilla per vigore, compattezza, varietà: I’m Gonna Be Strong gira Kurt Weill in bolero soul e la delizia barocca You’re Slipping Away From Me immagina una Nancy Sinatra maschia; King Lonely The Blue imbocca l’autostrada 61 parcheggiando sotto al Brill Building mentre I Gotta Do Things My Way e Where Was I?, Fare Thee Well I Got A Loneliness spargono rhythm’n’blues vibrante, robusto e strapazzato con gli arnesi del rock. La seduzione senza scampo di Long Time Man è contrappuntata da Come Away Melinda e da una voce che spegne il pathos in un vuoto apocalittico. Morning Dew è letteralmente strappata all’autrice Bonnie Dobson con strofe leggiadre, sferzare di ritornello, canto inerpicato su un cielo di pause teatrali e rimbombi “wall of sound”. Speziato il tutto con un po’ di melodramma pop, il gioco (non) è fatto.

Tim Rose album

Il visibilio di Albione è infatti intenso ma breve. Un tour con la Aynsley Dunbar Retaliation stupisce le platee mentre il malinconico folk Long Haired Boy è già l’ultimo centro. Qualcosa si rompe, subito. In coda ai ’60, per produrre il rock screziato d’ebano di Through Rose Colored Glasses si interessa George Harrison ma poi rinuncia. Il discreto risultato non lascia tracce e idem Love: A Kind of Hate Story. Tim rientra in patria, alternando i concerti alla guida di voli charter finché rimedia un contratto con – da non credersi! – l’etichetta di “Playboy”. La quarta fatica è ancora omonima e un altro fiasco: Hugh Heffner capisce di tette & culi però zero di dischi e in Europa non distribuisce. Nel 1974 un uomo prostrato riattraversa l’oceano per una tournee con lo sfattone Hardin e vedere Joe Cocker raccogliere consensi e danari con le sue intuizioni.

Quattro anni di mediocrità e frustrazioni dopo, alza bandiera bianca. A New York si sposa, fa il muratore, canta jingle pubblicitari; conseguita la laurea in storia, diventa broker di Wall Street e poco per volta abbandona musica e borsa, bottiglia e matrimonio. Avanti veloce al 1996. Il devoto Cave gli scrive per esprimere gratitudine ed ecco un documentario, tour e i vecchi album che riappaiono nei negozi accanto a materiale nuovo. Il destino tuttavia srotola fili amari. Sedici anni fa Tim Rose festeggiava il compleanno in ospedale per un’operazione all’intestino. Il cuore lo tradiva il dì seguente e da allora riposa a Brompton. Il giaciglio, sobrio, porta scritto “american troubadour”. Sottoscrivo. Per me il “terzo Tim” resterà per sempre l’adorabile smargiasso che, sigaro in bocca, si pensa per un attimo in vetta al mondo.