Archivi categoria: Retronow

Scavando(si) nell’anima: Daniel Blumberg

Fatto numero uno: Daniel Blumberg – classe 1990 da Londra – è un iperattivo, e in quanto tale dà un senso al suo passaggio nel mondo impegnandosi in progetti di diversa natura. Fatto numero due: come molti prima di lui, non per caso è abilissimo sia con le note che con le immagini e i colori. Fatto numero tre: è un esempio unico di (post) songwriter che pubblica soltanto quando ha cose rilevanti da dire. A proposito di arti figurative, provate a immaginare le annotazioni di cui sopra come delle linee un po’ irregolari intersecate tra loro, poi ampliate la prospettiva per mappare un territorio nel quale è bellissimo perdersi. Nel frattempo, urge riassumere di quanto ha preceduto il nuovo album GUT: appena maggiorenne, il ragazzo si cimenta con l’indie pop nei Cajun Dance Party, dandosi un triennio più tardi allo shoegaze tramite gli Yuck e dopo un primo LP al pianoforte dietro lo pseudonimo Oupa; altro giro, altro paravento: facendosi chiamare Hebronix, Daniel imbraccia la chitarra inseguendo Neil Young con la supervisione di Neil Michael Hagerty.

L’ennesima svolta conduce al londinese Cafe Oto e alla improv indagata con il violinista Billy Steiger, Tom Wheatley al contrabbasso e Jim White dei Dirty Three dietro la batteria. Aggiungete un’affermata carriera nel disegno e la collaborazione con il sassofonista Seymour Wright ed eccoci. Il compendio è utile per comprendere in pieno la maturità di chi, accasatosi alla Mute, nel 2018 infine decide di metterci faccia e nome, offrendo con gli amici dell’Oto il capolavoro cantautorale dello scorso decennio. Tirando le fila delle esperienze precedenti, Minus appoggia melodie in transito dal sofferto all’avvolgente e ritorno su strutture che, imitandole, lavorano con una distensione meditativa, con il rumore organizzato e con le possibili sfumature intermedie. Pensate a un Mark Hollis con in tasca il santino di On The Beach, che tiene conto dello slowcore, della lezione di Will Oldham, Bill Callahan, Mark Linkous e degli stessi Dirty Three, però infilando nel discorso richiami a Cave e a Cohen, carole folk-pop, estasi mascherate da tormenti e viceversa.

Splendore replicato nel 2020 da On&On, dove l’assenza dell’effetto sorpresa è bilanciata da un fresco classicismo, da un po’ di luce che riesce a filtrare dalle finestre e da una scrittura sempre appassionata. Lì la chiave di volta dell’universo di Daniel: mettersi in discussione e in mostra con disarmante franchezza. Quella di chi ha costruito il debutto da solista sui frantumi di un cuore e una mente da ricomporre; di chi vuole fortissimamente arrivare alle nostre anime racchiudendo lo spirito del passato in forme contemporanee. Conferma della statura artistica del Nostro, GUT vede ancora l’autobiografia in primo piano fin da un titolo (“viscere”) legato alla malattia che di recente lo ha afflitto e, mi piace credere, anche al coraggio che occorre a ognuno per affrontare la quotidianità.

Si spiegano così atmosfere e suoni asciugati all’osso di un unicum cui funge da parziale correlativo un video di Brady Corbet dove il mettersi a nudo è, oltre che emotivo, significativamente e letteralmente materico. Tornando alla musica, nella perfetta solitudine Daniel consegna un Music For A New Society come l’avrebbe concepito Scott Walker, poco più di mezz’ora intrisa di umori introspettivi che accentua il minimalismo e approda al field recording dello scavo di un’anima. A un ostico ma calibrato gioco di chiaroscuri, spigoli e astrattismo che porge rintocchi di tasti e lame d’armonica, sferzanti sprazzi melodici e scheletri dolenti, ombre inquiete ma soprattutto inquietanti e ipotesi post-industriali di folk. Applausi sinceri, ché se Minus e On&On rimangono ineguagliati, nessuno oggi vanta l’audacia, la chiarezza di idee e la profondità di un inclassificabile trenta-e-qualcosa che, con estrema e invidiabile abilità, gira intorno alla favolosa cifra stilistica che ha scolpito. Complimento migliore non esiste per un maestro di ciò che una volta chiamavamo canzone d’autore.  

Pubblicità

I sogni a occhi aperti di Lael Neale

Esistono casi in cui possiamo riconoscere il bagaglio estetico di un artista indagando i luoghi dai quali proviene. Questione di omaggio dichiarato e di ammiccamenti nascosti, di trasfigurazione e di intrecci da districare che, per ovvi motivi, si ingarbugliano con il vissuto. Prendete una come Lael Neale: arrivata a Los Angeles dalla Virginia rurale con il physique du rôle e una manciata di belle speranze, ha faticato a scrollarsi di dosso l’aria da “ragazza di campagna”. La moda del country versione indie-pop non le appartiene e nel 2015 l’esordio I’ll Be Your Man pagava lo scotto di sonorità in tutti i sensi discrete ma dalla scarsa personalità. Lezione imparata e messa a frutto, poiché due interi LP rimanevano nel cassetto essendo la Nostra non persuasa dagli arrangiamenti.

Così ci piacciono le cantautrici: risolute, piene di idee e pervase dal desiderio di mettere anima e vita nell’arte. Già più riuscito, di lì a sei anni Acquainted With Night ostentava il prestigioso marchio Sub Pop, la volontà di crescere con proprie regole e la svolta verso una chiave minimalista lo-fi, trafficando con un Omnichord Suzuki intorno a brani composti dopo il ritorno a casa. Da moderna Emily Dickinson, nella sua cameretta Lael osservava il mondo e se stessa in perfetta solitudine e consegnava un lavoro promettente, dove un’omogeneità che a tratti lambiva la monotonia era riscattata da un ossimoro realizzato di leggerezza profonda e meravigliata.

Quello il terreno di coltura anche del terzo e risolutivo album Star Eaters Delight, un “luogo” sonoro più rigoglioso dove comunque trovate molto altro. Tanto per cominciare, la messa a fuoco di un talento e non è poco coi tempi che corrono. Poi l’evidenza che, in alcune fasi della vita, dobbiamo guardare le cose da lontano per cercarne l’intimo significato e, magari, ricavarne epifanie, scelte felici, direzioni che porteranno altrove. Infine, un disco che con la regia/collaborazione di Guy Blakeslee studia la metropoli alla giusta distanza, insiste sulla comunicatività e sfrutta la sua apparente ritrosia per infilare un gioiello dietro l’altro. Tra efficaci arrangiamenti all’insegna del “meno è più” e un’espressività che conquista emergono canzoni che, scritte con passione e abbigliate con gusto ed equilibrio, vanno ascoltate in modo attento e si prendono il tempo per crescere.

Canzoni come una I Am The River a metà strada tra Suicide e Velvet Underground, come il folk albionico girato new wave Faster Than The Medicine, come una sensazionale In Verona da Spacemen 3 che danzano con Laurie Anderson citando Shakespeare per parlare di altro. Saggi di estro e bravura pescati da una scaletta che scintilla in toto, dalla Nico che si accasa alla Creation per darsi all’elettro-pop della deliziosa Must Be Tears al retrogusto Fifties di una No Holds Barred che vale le cose migliori di Paula Frazer, passando per l’iridescente carola If I Had No Wings, la meditativa Return To Me Now e l’atmosferico commiato Lead Me Blind. Ascolto, riascolto e accantono la cautela che nei confronti dei contemporanei impone giudizi moderati e verifiche sul lungo termine. Preso il cuore in mano, ad alta voce dico che nel cielo è apparsa una nuova stella. Possa brillare a lungo, ché lo merita eccome.

Ipotesi di psichedelia mutante: Index For Working Musik

Potessi ricevere un biglietto da dieci per tutte le volte che l’ho scritto e detto, prenderei in seria considerazione la pensione anticipata: prima che un genere, la psichedelia è uno stato mentale. Un’attitudine applicata all’arte rock, se preferite, il che ne spiega il continuo ricorrere nella storia e, soprattutto, una condizione di mutaforma che si adatta allo scorrere del tempo restando indenne alle mode. Potete declinarla con le chitarre, con l’elettronica o con un misto di entrambe; potete smarrirvi felici e beati lungo spirali soniche oppure danzare fino oltre l’alba. La differenza è di natura formale, poiché lo spirito di totale liberazione dionisiaca scorre in voi e in ciò che state ascoltando.

Di conseguenza, mi accosto con curiosità a chi si cimenta intelligentemente con stili che puntano a espandere la mente, o magari a farla implodere come i britannici Index For Working Musik, allestiti nel 2019 da membri di Toy, DRIFT e Proper Ornaments. Ragioni sulle parole “Inghilterra” e “psichedelia” e subito pensi ad atmosfere da favola lisergica e/o da paese dei balocchi disturbato: scordatevi tutto questo, ché Max Oscarnold, Nathalia Bruno, Bobby Voltaire, E. Smith e J. Loftus preferiscono affidarsi a un torpore che ricorda i Pavement e Beck, immaginare versioni alternative di Swell Maps e Television Personalities e imbottire i Clinic e Marc Bolan di sedativi. Interessante, eh?

In realtà il progetto risulta difficile da catalogare con precisione per il modo sottile con il quale congiunge i suddetti riferimenti a certe pagine stralunate del guitar-pop “C86” e all’inevitabile eco dei Velvet Underground e del post-punk, pur senza fermarsi lì. Con la giusta dose di estro e personalità, la band getta nel calderone un’indolenza sospesa tra sogno e incubo, registrazioni sul campo ed elettronica appropriatamente caliginosa. Ne deriva una ricetta minimalista però curata all’insegna di una pigrizia allucinogena che avvolge dentro le sue spire tramite un cantato dal fascino ambiguo che ricorda non poco Paul Roland, corde ruvide e tintinnanti, schegge di violoncello e circolarità, stratificazioni e ronzii…

Volendo a ogni costo escogitare una definizione, post-psichedelia impressionista potrebbe quasi avere senso, benché l’alone di mistero che circonda la mezz’ora e spicci di Dragging The Needlework For The Kids At Uphole scompigli di continuo le carte. Basta poco per scoprirsi dipendenti da una torpida Wagner dove Syd Barrett si crede Lou Reed, dal blues alla codeina Railroad Bulls e da una Athletes Of Exile di romanticismo splendido e malaticcio. Faccende favolose al pari di Isis Beatles (la Beta Band in uno scantinato), di Palangana (gli Air che ospitano Bolan), della filastrocca Ambiguous Fauna, delle 1871 e Chains che avrebbero fatto un figurone in Wowee Zowee e dell’acid-folk Habanita, che scivola via dalle pieghe di Mellow Gold. Tralasciando un paio di bozzetti che fungono da raccordo, ho citato la scaletta per intero ed è sempre un buonissimo segno. Vedi alla voce: dischi dell’anno e dove trovarli.

La musica del caso: Waeve

A un certo punto del proprio percorso può capitare di avvertire il bisogno di voltare pagina. Insegna David Bowie che i ch-ch-ch-changes sono il sale della vita, a maggior ragione se gran parte del pubblico – ma anche certa critica rigida, quando non dotata di paraocchi – ti ricorda per un fenomeno bruciatosi in un biennio. Importante, chi lo nega, ma di certo la tua identità artistica non finisce né inizia con le risibili rivalità con gli Oasis o con lo spirito celebrativo del Brit-pop. Da vero signore, Graham Coxon preferisce aggirare faccende del genere con sorridente benevolenza e anche per questo merita un applauso. Poi – prima, in realtà – ne ottiene un copioso scroscio per aver aiutato le cose ad accadere in maniera spontanea.

Questi a farla breve i presupposti del progetto The Waeve (da pronunciare wave) allestito nel dicembre 2020 con Rose Elinor Dougall. In un momentaccio nel quale stava affrontando gli strascichi della pandemia, un matrimonio in frantumi e il ritorno a Londra, Graham si imbatteva nell’ex componente delle Pipettes, da qualche tempo attiva in veste solista, una parola tirava l’altra e nasceva l’idea di scrivere insieme per vedere che effetto avrebbe fatto. Il dialogo iniziava dallo scambio reciproco di canzoni altrui e delle rispettive esistenze mentre i Nostri scoprivano di volersi parecchio bene. Una bella storia, insomma, e non è per caso che la creatività abbia preso a fluire rapida, sfociando in un album che rappresenta la cosa migliore offerta da Coxon fuori dai Blur. Da par suo, Rose – impegnata a microfono e tastiere – contribuisce eccome a qualcosa che, per i motivi sopra esposti, va oltre la somma dei singoli elementi.

In realtà, The Waeve coglie impreparati se dei Blur si considera soltanto l’aspetto pop, scordandosi l’anima sperimentale e la curiosità che stanno a monte di meraviglie come l’album omonimo e 13. Mai come in questo caso fermarsi lì significa sminuire la voglia di mettersi costantemente in discussione che ha reso grande il quartetto e che emerge cristallina anche in questo frangente. Non avendo nulla da perdere né da dimostrare, la coppia impasta un pop d’autore “trasversale” con il dopo punk e i suoi predecessori glam e progressisti, con il folk e l’elettronica e il post-rock, fino a ottenere un’ossatura di riferimenti sulla quale gioca di mescolanza e tensione, razionalità e istinto, passato e presente.

Se vi pare poco, passate pure oltre. Sappiate tuttavia che, così facendo, vi perderete gioielli della caratura di Over And Over e Alone And Free (un giovane Brian Eno tra i solchi del White Album?), Can I Call You (kraut-wave finemente cesellata che parte meditativa per accendersi all’improvviso), Drowning e Undine (grossomodo: Scott Walker che produce Laetitia Sadier). Se Someone Up There e Kill Me Again filtrano alla luce della maturità quel fantastico frullato di tre decenni abbondanti di inglesità – e non solo… – in musica, All Along scardina una ballata con stridori e indolenza, la vetrosa Sleepwalking maneggia melodie oblique e arguzia strutturale tra Roxy Music e Stereolab e You’re All I Want To Know srotola un soul bianco à la Lennon che non disdegna le ombre. Splendore che ci auguriamo non rimanga isolato, The Waeve prenota con autorevolezza un posto tra i dischi dell’anno. Di nuovo, applausi.

Volare tra i colori con i Breathless

Una presenza ricorrente su questo blog, i Breathless. Presenza che mi auguro risulti gradita a lettrici e lettori quanto lo è a me, che con cadenze irregolari ho l’onore di ospitarli. Ogni volta c’è un motivo valido e a questo giro il più valido in assoluto, dal momento che dopo dieci anni dal bellissimo Green To Blue la formazione britannica si ripresenta con See Those Colours Fly, un disco nuovo di zecca foriero di novità. Tanto per cominciare, il mitico produttore americano Kramer si è occupato del missaggio; poi, la bassista Ari Neufeld si è fatta carico anche delle ritmiche per via di un grave incidente stradale che ha coinvolto il batterista Tristram Latimer Sayer.

La buona notizia numero uno è che Tristram si sta gradualmente riprendendo. La due: davanti a una situazione drammatica, il gruppo ha risposto a testa alta e, pensando che il modo migliore per sostenere l’amico fosse continuare a lavorare all’album, con calma – di mezzo, ovviamente, ci si è messo anche il lockdown – ha provato a uscire dalla propria aurea confort zone. Eccoci infine alla terza buona notizia: la missione è stata compiuta recapitando un disco che offre una versione viepiù onirica di uno stile ampiamente collaudato – a farla breve: splendida sintesi di post-punk e psichedelia – che, tra molte altre cose, rappresenta l’invenzione dello shoegaze. Senza perdere di vista l’anima eterea ma allo stesso tempo saldamente ancorata a terra, qui i Breathless si porgono in una chiave marcatamente minimale, dilatata e ambientale.

cover art: Jay Cloth

L’economia di mezzi e arrangiamenti sottolinea un’inalterata forza evocativa, sostenendo una scrittura sempre di alto livello attraverso stratificazioni strumentali, drone, ritmi e trame che coniugano organico e sintetico con spontanea efficacia. Sono canzoni che respirano e posseggono spazialità, quelle costruite come d’abitudine su intrecci di corde e tastiere e impreziosite dall’inconfondibile, magnifica voce di Dominic Appleton. Da parte sua, Kramer (in curriculum altri pezzi da novanta come Galaxie 500 e Low) cesella dettagli e concorre con misura a una musica immaginifica come poche altre. E, quel che più importa, a composizioni come la sognante Looking For The Words e una sospesa My Heart And I, come l’ambient wave tra romantico e gotico The City Never Sleeps e il capolavoro assoluto – Nico che si aggira tra i panorami di Meddle? – della visionaria e policroma I Watch You Sleep.

Non vale meno il resto di un programma con l’aspetto di un film da seguire con gli occhi della mente, dalla mestizia riflessiva squarciata da timidi raggi di luce di The Party’s Not Over e Let Me Down Gently a una più movimentata We Should Go Driving per la quale i Beach House farebbero carte false, passando per la Somewhere Out Of Reach che trasporta gli ultimi Joy Division in una dimensione priva di tragedia e le architetture sinuose, leggiadre e conturbanti di So Far From Love. Sempre al di sopra dei tanti epigoni, i Breathless regalano un ennesimo balsamo per l’anima. In tempi tribolati e tristi, See Those Colours Fly è da tenere a portata di orecchio, ma soprattutto stretto al cuore.

Il futuro dietro l’angolo: Fontaines D.C.

Uno dei mali peggiori del giornalismo musicale è il vizio di affibbiare etichette come “i nuovi Tizi” o “il nuovo Caio” e, in parallelo, di eleggere salvatori di un rock spacciato come defunto da trent’anni abbondanti ma in continua rigenerazione. La cosa ha complicato non poco la carriera – quando addirittura non ha tarpato le ali – a diversi artisti, caricandoli di eccessive attese e/o di un ruolo del quale non andavano in cerca. Un malcostume, lo si dica. E si dica che la tendenza a scovare hype a ripetizione si è acuita nell’era di internet, allorché tutto viene bruciato in pochi giorni quando non in poche ore. Per coloro ai quali interessa approfondire, il tempo e la familiarità aiutano invece a modellare la prospettiva, a ragionare e ponderare i giudizi. Insomma: i dischi vanno ascoltati e sentiti più volte, anche solo per rispetto verso chi li fa. Se siete frequentatori di questo blog, sapete che qui è così che funziona.

Venendo al punto, mi sono accostato libero da preconcetti al disco “del momento”, ovvero Skinty Fia dei Fontaines D.C. Fatto numero uno: il quintetto dublinese possiede talento in misura più che bastante a farsi notare. Fatto numero due: in anni di riciclo a oltranza, omologazione sfrenata e attenzione fin troppo rivolta soltanto al suono, i ragazzi scrivono canzoni che possono durare. Se sei tutto chiacchiere e velleità, nel giro di un paio di album diventi una macchietta tipo gli Oasis, ma non pare sia il caso dei Fontaines D.C. Tuttavia i Gallagher tornano utili per chiamare in causa lo spirito che aleggia su Skinty Fia, cioè il nume tutelare condiviso rappresentato dai La’s di Lee Mavers.

Il cantato di Grian Chatten poggia infatti su quella tonalità insieme emotiva e indolente, aspra però melodica, sempre sul rasoio di una stonatura che non arriva mai; da par suo, la penna contiene inchiostri che profumano di fine anni Ottanta, di quando i Sixties rappresentavano un patrimonio da cui attingere senza timori reverenziali e da “correggere” con il post-punk. Se proprio volete un altro punto cardinale, gli House Of Love calzano a pennello e chi ha una certa età non avrà bisogno di ulteriori spiegazioni.

Al netto di ogni riferimento, Skinty Fia possiede spessore compositivo, sicurezza e personalità tali da segnare un vertice per la formazione. In tal modo sigilla un cerchio, poiché tre dischi in altrettante stagioni comprimono su una nota alta un preciso decennio di storia del pop come solo nella nostra epoca è dato. E per il futuro, si vedrà. Intanto è il presente che conta e sistema i vertici nel memorabile indie wave gregoriano In Ár gCroíthe Go Deo e in una fragorosa ma cupa Nabokov.

Nel mezzo, una scaletta di impeto ragionato, rigore formale e standard quasi altrettanto elevato: I Love You porta con sé l’ipnosi stordente di Bossanova, i DNA di Mavers e Guy Chadwick sono tutt’uno nel gioiellino Jackie Down The Line e nella malinconia tesa di How Cold Love Is, lungo la sensualità cristallina di Roman Holiday cogli qualcosa di Echo & The Bunnymen. Se Big Shot e Bloomsday ipotizzano gli Stone Roses in vesti shoegaze, The Couple Across The Way è un folk crepuscolare e stranito e la title-track incede danzereccia ricordando i Campag Velocet ma pure i tardi Cure. La netta impressione è che, nel mentre diventano grandi, gli irlandesi possano presto sedersi tra i Grandi. Consideratelo un augurio.    

Yard Act: art-pop in opposition

Nella rutilante giostra d’oltremanica c’è un momento in cui una band emerge sulle altre, trascende i meccanismi del mercato e, trasformandosi in comunicatore sociale, porta con sé il respiro dei tempi mentre se ne colloca al di fuori. È il fatidico attimo in cui l’attualità sfocia nell’universale e si congela nell’anello di una catena prestigiosa che dai Kinks alla Brexit si rigenera attraverso Jam e Specials, XTC e Blur, Art Brut e Arctic Monkeys, Fat White Family e Shame. E poiché epoche complesse comportano scelte severe, oggi Albione graffia, scalcia e si getta in cerebrali riscritture post rock, ma soprattutto convince quando conserva la perfezione del meccanismo pop a orologeria che ti esplode in faccia rivitalizzando le sinapsi.

Arguzia e frusta: chi vi sovviene tra i nomi che ancora non ho chiamato in causa? Bravissimi, proprio la malanima Mark E. Smith, vivo più che mai da quando ha per forza di cose traslocato in un’altra dimensione. Il suo spirito ricorre tra le nuove leve britanniche, e non potrebbe essere altrimenti con la dura realtà dalla quale attingere: meno male che per qualcuno rappresenta un punto di partenza e non un paravento per mascherare la scarsa ispirazione.

Caso esemplare gli Yard Act, ragazzi di Leeds che si autodefiniscono minimalist rock group attesissimi al varco dell’album d’esordio in virtù di un hype creatosi piuttosto in fretta e pienamente giustificato, ché in due annetti si è avuto modo di apprezzare l’E.P. Dark Days e un vigoroso cazzotto sui denti sotto forma di vis polemica e di sonorità debitrici alla new wave e tuttavia sintonizzate su quanto accaduto nel frattempo e sull’attualità. Se proprio volete una definizione, questo è avant-pop di protesta conscio che la Parklife è terminata da un pezzo, che il neoliberismo infame merita solo le lame, che da William Hogarth ai Fall è il mezzo che cambia, mai il fine. Questioni che James (cantante della formazione completata dal bassista Ryan Needham, dal chitarrista Sam Shjipstone, da Jay Russell alla batteria) conosce a menadito.

Di certo, sa anche che condividere il cognome con quel mancuniano illustre può sembrare un segno del destino, finanche una benedizione. Staremo a vedere. Per adesso basta – avanza persino – un intrigante frullato di spigoli orecchiabili, cinismo umoristico e vetriolo umanista da intellettuale proletario tongue-in-cheek che racconta la vita. Per apprezzarne in pieno la forza espressiva, The Overload va infatti ascoltato prestando attenzione alle parole, perché qui il surrealismo racconta la realtà e rende viepiù preziose canzoni beffarde e appiccicose.

Canzoni come una title track che apre i giochi mescolando rap da pub, ritornello scippato al giovane Andy Partridge e chitarre spatolate però rifinite; come gli Happy Mondays che in Land Of The Blind preferiscono le pinte di scura all’ecstasy; come Payday, che mescola il funk candeggiato dei Gang Of Four con rivisitazioni di Madchester. Riferito della cura per arrangiamenti e dettagli che tiene lontano qualsiasi rischio di ripetitività, piacciono parecchio una sbilenca Rich che incede lungo memorie di P.I.L. e Liquid Liquid, gli Orange Juice incattiviti cresciuti con l’hip-hop di Dead Horse, una sardonica e arabeggiante Quarantine The Sticks che riassume John Lydon e un’articolata Tall Poppies che la imita avendo come oggetto giustappunto i Fall.

Cosa resta ancora? La scheggia alla Wire di Witness (Can I Get A?), i Franz Ferdinand in gita al manicomio in The Incident, gli LCD Soundsystem euforicamente ruvidi di Pour Another e 100% Endurance, sinuoso commiato un filo malinconico che grida “remix” a squarciagola. Diceva Totò che la somma fa il totale. Ecco, appunto. I miei omaggi, hip priests.

Tra cinismo e umanità: Springtime

Nella storia della nostra musica, una regola non scritta – nondimeno piuttosto ricorrente – stabilisce che non tutti i supergruppi escono col buco. Che spesso la coabitazione di talenti è una faccenda complessa da gestire e può non avere esiti significativi. I contrasti di ego, un eccessivo senso di sicurezza, la comodità di offrire ciò che la gente si aspetta e cavarsela con il blasone stanno in costante agguato. Come ben sappiamo, basta poco per sprecare un’occasione, ma nulla di tutto ciò accade nell’omonimo album degli Springtime, pubblicato un paio di settimane or sono dall’americana Joyful Noise.

È infatti modernissimo il power trio “made in Oceania” in cui militano Gareth Liddiard (ex Drones, oggi in Tropical Fuck Storm), Jim White – già batterista nei sublimi pittori di malinconie Dirty Three – e il pianista Chris Abrahams dei maestri avant-garde The Necks. Tutta gente che ha costruito una carriera disdegnando le opzioni semplici e i cliché, sono artisti autentici che piacciono perché non stanno mai fermi, badano al sodo e offrono musica che dura nel tempo. Musica che nel caso specifico scava buchi nell’anima con cinismo e passione, istinto e razionalità: questi i pilastri “emotivi” che sorreggono Springtime e le sue canzoni in pellegrinaggio tra cadute nella cupezza e salvifici bagliori.

Sono canzoni che di primo acchito potrebbero risultare scontrose, per il modo in cui omaggiano le radici maltrattandole e per come camminano sul filo del rasoio fermandosi un passo prima dell’ipotetico sfascio. Ma date loro retta, e presto vi spiegheranno che esiste una zona intermedia dove le lucide riflessioni e il delirio immaginifico finiscono col confondersi. Su quella via lastricata di cocci e ruggine troverete martellanti richiami al Re Inkiostro dell’epoca d’oro (l’ipnotica, possente Will To Power), saggi di mestizia tremolante come un fantasma cordiale (la gemma Viaduct Love Suicide, vicina ai Black Heart Procession), folk trasfigurato a testa alta partendo dai classici (una splendida rilettura di She Moved Through The Fair).

Laddove la prolungata apnea jazz Jeanie In A Bottle si tuffa dove l’acqua è più scura, The Island alterna stasi, nevrosi e rumorismo, la cover di West Palm Beach omaggia Will Oldham con equilibrio e The Killing Of The Village Idiot chiude riassumendo l’estetica dell’intero progetto. Che altro aggiungere, se non che coraggio e talento vanno premiati sempre, e di questi tempi più che mai? Traete le vostre conclusioni mentre chiamo al banco dei testimoni la cartella stampa, che riporta commenti di un altro bel genio dello sconvolgimento come David Yow dei Jesus Lizard. Ne estraggo parole che racchiudono l’essenza e il valore di Springtime: “Potreste chiamarlo jazz, ma sarebbe una parola comunque poco adatta. La loro musica è sincera. È una cosa importante.” Verità di sofferto, laicissimo Vangelo che vi invito a toccare con orecchio.

I Breathless tra felicità e dolori del cuore

Dicono che alla fine ci si abitui anche alla Bellezza. Non ne sono così sicuro, a dirla tutta. Se a un certo punto l’incanto svanisce, le possibilità sono due: non era bellezza autentica, ma soltanto un abbaglio; altrimenti, le ho voltato le spalle e prima o poi me ne pentirò. Sono trascorsi più di trent’anni dal primo incontro con la musica dei Breathless, eppure ogni volta trova lei la via dell’anima e vi sistema il suo bagaglio di incanto ed emozione. E non avete idea della gioia, quando quasi nove anni fa mi trovai a intervistarli: da allora, non passa natale senza un biglietto d’auguri e un omaggio di uscita discografica. Quando si dice la signorilità…

Tutto quadra: più che dischi, questi sono tasselli di un mosaico del cuore che vanno posandosi dalla metà degli Eighties. Dei primi passi del quartetto britannico già vi ho riferito e idem delle loro imprese di fine millennio, ma torno nuovamente sull’argomento per riferire che a metà luglio la Tenor Vossa pubblicherà la ristampa del trentennale di Between Happiness And Heartache. Con l’usuale cura infusa in tali operazioni, il vinile (rosa) è ricavato dai master originali, vanta una grafica rimessa a nuovo, fotografie inedite di Kevin Westenberg e la possibilità di scaricare i brani in digitale con l’aggiunta del bonus Everything I See, ombroso dream pop che flette i muscoli come un David Sylvian più terreno. Ecco: la chiave interpretativa dell’album sta in due parole che diventeranno assai popolari in futuro.

Nel rigoglioso 1991, infatti, si parlava ancora di shoegaze, del quale i Breathless avevano in largo anticipo costruito le fondamenta mescolando post-punk e psichedelia in canzoni evocative che un magico equilibrio impedisce di risultare leziose o ridondanti. Con alla regia Drostan John Madden invece di John Fryer, il quarto LP Between Happiness And Heartache si affida a un approccio relativamente più grezzo senza perdere in ricercatezza. Vicino a un impatto “da live”, il suono racconta un’evoluzione che sterza dal morbido predecessore Chasing Promises superandolo di slancio. Scrittura, esecuzione e atmosfere dispiegano un pop raffinato e acuto pur restando sognanti lungo otto incantesimi dove le chitarre spiccano più del solito.

Tra ipotesi di Smiths che escono indenni dagli anni ’80 omaggiando i Joy Division con un cantante assai più espressivo (I Never Know Where You Are, You Can Call It Yours, Clearer Than Daylight) e i Galaxie 500 trasportati nella brughiera – questione di genitori comuni e affinità elettive – di Over And Over, la visionaria robustezza di Wave After Wave e All That Matters Now consegna sapienti variazioni della post-psichedelia tipica del gruppo. A sigillare un cerchio appena chiuso, la favolosa rilettura di Flowers Die degli Only Ones con ospite John Perry e un crescendo che sul serio lascia senza fiato. Sulla sua eco, le magistrali sferzate malinconiche di Help Me Get Over It scrivono la fine di un primo capitolo. Fino al 1999 i Breathless tacciono, poi tornano sulle scene a insegnare un paio di cose ai portabandiera del post e del drone-rock. Da allora, comunicano di rado e con invidiabile sicurezza. La stessa che li conserva in forma smagliante. Felicità, dolori del cuore e tutto quello che vi è in mezzo.

Madlib(itum)

I critici musicali preferiti sono un po’ come gli amici: piace averli attorno e non ti abbandonano nel momento del bisogno. Se il rapporto è di quelli che vanno avanti da anni, con loro ti confronti e ti scontri civilmente e a volte vai pure a Canossa. Con altri, a un certo punto, il dialogo invece si interrompe e addio. Quello che conta, alla fine, è essere aperti mentalmente, imparare il più possibile da chi ne sa e ragionare con la propria testa. Arrivando quasi al punto, come per chiunque altro, di Simon Reynolds non faccio un santino pur condividendone gran parte della visione. Specie quando a proposito della musica “made in UK” – ma il ragionamento vale per tutta la cultura, popolare e non – afferma che il meglio sta dove “bianco” e “nero” si mescolano.

Ecco: assieme al sentore di grandezza, questa è stata la prima reazione a Sound Ancestors. La seconda: scoprirsi subito in luoghi stranieri però familiari. Soprattutto, in luoghi che non conoscono confini. Poco da stupirsi, considerando che Otis Jackson Junior cammina un passo avanti al plotone con la disinvoltura di chi lavora costantemente attorno al talento, qui sbozzando e là levigando. Consapevole che il tempo scorre veloce portandosi via compagni, abitudini e pratiche, non è tipo da ripiegare sugli allori. Preferisce respirare l’epoca che sta attraversando, reagire e modellarla e se ciò comporta pubblicare decine di album con diverse ragioni sociali, nessun problema. Lo stesso per una collaborazione a distanza con Kieran Hebden A/K/A Four Tet, fan eccellente che ha chiesto una tonnellata di beat e bits cui mettere una cornice.

Con cura, Kieran ha indossato i panni del moderno Teo Macero trafficando con una materia prima piuttosto definita, sebbene bisognosa di briglie e contesto. Accordandosi alla lunghezza d’onda di Madlib – tutta scarti e deviazioni, discese e risalite – ha lasciato fluire la propria idea e ne è scaturito Sound Ancestors, un fantastico mutante che dallo scorso gennaio per comodità rubrichiamo alla voce “hip-hop”. In realtà, questa quarantina di minuti si fa beffe di ogni definizione: è grande musica, stop. È un caleidoscopio di suggestioni diverse baciato in fronte da un senso di unità che scaturisce dalla fusione stilistica e metodologica di cui parla Reynolds. Trasversale e storto, anche negli episodi più astrusi conserva la stringatezza, la forza comunicativa e il groove che permettono una The Call da Can del Duemila, i Portishead in overdose di melanina di Road Of The Lonely Ones, l’afrodub mentale Loose Goose, l’elettro-ipnosi The New Normal e un omonimo post-jazz così primitivo da risultare futuristico.

Bianco e nero che sfumano uno nell’altro… Eloquente al riguardo il campionamento degli Young Marble Giants che sorregge Dirtknock, ma ancor più i panorami e lo “spirito” di una scaletta composta da sole gemme. Menzione d’obbligo (oggi: domani chissà) per la There Is No Time (Prelude) sottratta a “Blade Runner” e l’esplicito omaggio del funk con anima bristoliana Two for 2 – For Dilla, per la black dadaista di One For Quartabê/Right Now e la ricostruzione etnica – i Can, ancora! – Duumbiyay, per una Theme De Crabtree che immagina Lee “Scratch” Perry alle prese con il trip-hop e la Hopprock che guarda perspicace a My Life In The Bush Of Ghosts. Roba sensazionale da ascoltare cento volte restando a bocca aperta, stupiti e ammirati. Roba con la quale i fuoriclasse confezionano i capolavori. Giustappunto.