Fatto numero uno: Daniel Blumberg – classe 1990 da Londra – è un iperattivo, e in quanto tale dà un senso al suo passaggio nel mondo impegnandosi in progetti di diversa natura. Fatto numero due: come molti prima di lui, non per caso è abilissimo sia con le note che con le immagini e i colori. Fatto numero tre: è un esempio unico di (post) songwriter che pubblica soltanto quando ha cose rilevanti da dire. A proposito di arti figurative, provate a immaginare le annotazioni di cui sopra come delle linee un po’ irregolari intersecate tra loro, poi ampliate la prospettiva per mappare un territorio nel quale è bellissimo perdersi. Nel frattempo, urge riassumere di quanto ha preceduto il nuovo album GUT: appena maggiorenne, il ragazzo si cimenta con l’indie pop nei Cajun Dance Party, dandosi un triennio più tardi allo shoegaze tramite gli Yuck e dopo un primo LP al pianoforte dietro lo pseudonimo Oupa; altro giro, altro paravento: facendosi chiamare Hebronix, Daniel imbraccia la chitarra inseguendo Neil Young con la supervisione di Neil Michael Hagerty.
L’ennesima svolta conduce al londinese Cafe Oto e alla improv indagata con il violinista Billy Steiger, Tom Wheatley al contrabbasso e Jim White dei Dirty Three dietro la batteria. Aggiungete un’affermata carriera nel disegno e la collaborazione con il sassofonista Seymour Wright ed eccoci. Il compendio è utile per comprendere in pieno la maturità di chi, accasatosi alla Mute, nel 2018 infine decide di metterci faccia e nome, offrendo con gli amici dell’Oto il capolavoro cantautorale dello scorso decennio. Tirando le fila delle esperienze precedenti, Minus appoggia melodie in transito dal sofferto all’avvolgente e ritorno su strutture che, imitandole, lavorano con una distensione meditativa, con il rumore organizzato e con le possibili sfumature intermedie. Pensate a un Mark Hollis con in tasca il santino di On The Beach, che tiene conto dello slowcore, della lezione di Will Oldham, Bill Callahan, Mark Linkous e degli stessi Dirty Three, però infilando nel discorso richiami a Cave e a Cohen, carole folk-pop, estasi mascherate da tormenti e viceversa.

Splendore replicato nel 2020 da On&On, dove l’assenza dell’effetto sorpresa è bilanciata da un fresco classicismo, da un po’ di luce che riesce a filtrare dalle finestre e da una scrittura sempre appassionata. Lì la chiave di volta dell’universo di Daniel: mettersi in discussione e in mostra con disarmante franchezza. Quella di chi ha costruito il debutto da solista sui frantumi di un cuore e una mente da ricomporre; di chi vuole fortissimamente arrivare alle nostre anime racchiudendo lo spirito del passato in forme contemporanee. Conferma della statura artistica del Nostro, GUT vede ancora l’autobiografia in primo piano fin da un titolo (“viscere”) legato alla malattia che di recente lo ha afflitto e, mi piace credere, anche al coraggio che occorre a ognuno per affrontare la quotidianità.
Si spiegano così atmosfere e suoni asciugati all’osso di un unicum cui funge da parziale correlativo un video di Brady Corbet dove il mettersi a nudo è, oltre che emotivo, significativamente e letteralmente materico. Tornando alla musica, nella perfetta solitudine Daniel consegna un Music For A New Society come l’avrebbe concepito Scott Walker, poco più di mezz’ora intrisa di umori introspettivi che accentua il minimalismo e approda al field recording dello scavo di un’anima. A un ostico ma calibrato gioco di chiaroscuri, spigoli e astrattismo che porge rintocchi di tasti e lame d’armonica, sferzanti sprazzi melodici e scheletri dolenti, ombre inquiete ma soprattutto inquietanti e ipotesi post-industriali di folk. Applausi sinceri, ché se Minus e On&On rimangono ineguagliati, nessuno oggi vanta l’audacia, la chiarezza di idee e la profondità di un inclassificabile trenta-e-qualcosa che, con estrema e invidiabile abilità, gira intorno alla favolosa cifra stilistica che ha scolpito. Complimento migliore non esiste per un maestro di ciò che una volta chiamavamo canzone d’autore.