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Brividi e mal di pancia in pillole, 7

Meg Baird – Furling (Drag City)

Dicono che l’apparenza inganni. Proverbio che calza a pennello per Meg Baird, in carniere tre album solisti scanditi lungo un quindicennio e nondimeno iperattiva e istintuale sin dai tempi dei magici Espers. Da allora, eccola alle prese con uno splendido hard rock folkedelico negli Heron Oblivion e collaborare con Mary Lattimore, Will Oldham, Steve Gunn e altri nomi importanti. Di conseguenza, nel turbine professionale di tempo per sé Meg ne ha poco ma lo spende benissimo. Non fa eccezione Furling, composto lavorando attorno alle passioni musicali e a ciò che si portano dietro e dentro. Soprattutto memorie, sogni a occhi aperti, una percezione della realtà dove il mistero e l’inspiegabile generano visioni.

L’artista è un mezzo per veicolarle e non si pone limiti, ché a temprare l’eclettismo contribuiscono l’armonia di chi balla da sola (quasi: c’è anche il compagno di vita e scorribande sonore Charlie Saufley), la sicurezza di mezzi, un folk-rock acidulo dalle atmosfere sognati non prive di stridori. Tutto secondo copione, non fosse la scrittura brillante da segnare uno scarto sui precedenti dischi della Baird: lo certificano i Mazzy Star che guardano ai Pink Floyd dei primi ’70 di Ashes, Ashes, un’accorata però lieve The Saddest Verses, la pianistica Wreathing Days, l’ombrosa e dolente Ship Captains, l’epidermica Will You Follow Me Home?, il Fred Neil reincarnatosi Shelagh McDonald di Twelve Saints. Non da meno il resto della scaletta, tra le mani abbiamo una raccolta di malinconiche polaroid perfette per l’inverno.

Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Che puoi fare quando scopri che la persona al tuo fianco da trentadue anni ha il cancro? Oltre a prendertene cura, se il tuo mestiere è il songwriter cerchi di esorcizzare la cosa attraverso le canzoni. E non fa nulla se in gran parte sono state scritte prima, perché il significato finisce per ricadere sul vissuto, che tu lo voglia o meno. Così è stato per Robert Forster, che apre il nuovo album celebrando chi ha lottato in una She’s A Fighter che, malinconica però pure speranzosa, riporta le lancette ai Go-Betweens di fine ‘80 sulle ali di una diversa maturità, artistica e umana. Ed è l’ultimo brano – questo sì, esplicito – composto per un disco che si spinge oltre la musica quanto a premesse, realizzazione ed esito.

Perché è stato registrato a Brisbane nei momenti in cui la moglie di Robert, Karin Bäumler, si trovava nelle condizioni di poter suonare e perché le session sono state un affare di famiglia e di amici. Questo spiega l’arredo minimalista e sottolinea i toni più che mai accorati e vibranti del pezzo di cui sopra, inciso da Forster, Karin e i figli seduti in cerchio, legati dal sangue. Lo stesso dicasi per l’intero lavoro, succinto quanto profondo saggio di scrittura elegante e intensa con ulteriori apici nei folk-rock modernisti Always e Tender Years, in una sublime The Roads, nella meditativa When I Was A Young Man, nella sfoglia elettroacustica There’s A Reason To Live. La fiamma, qui, non brucia nessuna candela, ma mantiene accesa la speranza e onora il valore inestimabile della vita.  

Nightshift – Made Of The Earth (Trouble In Mind)

Appena il tempo di annotare per l’ennesima volta che nel contemporaneo marasma di pubblicazioni ci stiamo di certo e comunque perdendo qualcosa di eccitante, che il podcast The Tuesday Tapes di Fabio De Luca mi svela l’esistenza dei Nightshift. Formatosi nel sottobosco indipendente di Glasgow durante l’estate 2019, il quartetto si definisce un “ensemble audio multidirezionale”, in bacheca ha altri due album e lo scorso novembre ha recapitato un ultimo dispaccio della sua prima incarnazione affiancando inediti e brani pescati qui e là in modo coeso. A tenerli insieme è loo spirito felicemente naif che affronta la materia post-punk schivando i cliché e le fotocopie, intrecciando suggestioni diverse e avvalendosi di una scrittura superiore alla media.

Alla fine, la mistura di new wave, indie rock, folk, funk e sperimentazione suggerisce svariati riferimenti pur sfociando sempre in qualcosa di – relativamente, dati i tempi – personale. Hologram e Horseshoe dipanano groove irresistibili tra organico e sintetico lungo panorami esotici, Flower declina folkedelia in chiave “C86”, Supermarket si sistema tra Slits e Au Pairs e la traccia omonima è un raga minimale. Mica finita, perché in Locked Out i Tunng credono di essere gli Young Marble Giants e le Raincoats li imitano con le ESG per Trousers, Souvenir catapulta Nico nel terzo millennio e The Painting You Live With immagina dei Sonic Youth malinconicamente folk. Un gioiellino, Made Of The Earth ha come unico difetto una disponibilità che prevede solo cassetta e formato liquido. O tempora

Yo La Tengo – This Stupid World (Matador)

Di tutte le leggende, quella legata alla fonte della giovinezza è tra le più solide. Il mito originale vuole che le sorgenti si trovino nel giardino dell’Eden, tuttavia, dopo che Colombo ha scoperto che oltre l’Atlantico c’era terra, a lungo si è creduto che fossero in Florida. A proposito di America e credenze pop(olari), quando pronunci “Yo La Tengo” nell’aria risuona una formula che evoca l’indie rock a stelle e strisce più prezioso. Quello che vanta infiniti tentativi di imitazione e nei decenni è assurto al rango di classico, com’è giusto per un artigianato all’insegna di passione e perfezione, di urgenza e autorità.

E, nel caso specifico del nuovo album This Stupid World – prodotto dal gruppo, le basi incise per lo più in presa diretta – di un riassunto di carriera all’insegna di atmosfere sperimentali, ritrovato vigore e melodie avvolte in gusci di chitarre elettriche che scintillano ruggine come polvere d’oro. Qualcosa che possiede la grazia decisa delle ballerine di danza classica: muscoli tesi, nervi che scattano, movenze leggiadre ma risolute che sanno gestire ogni sfumatura. Gioielli come una sferragliante Fallout, la sfoglia emotiva alla Velvet Underground Aselestine, la favolosa psichedelia rumorista a passo motorik di Sinatra Drive Breakdown, una sinuosa Until It Happens e il vaporoso, dilatato post-shoegaze Miles Away li vorresti sentire da giovanotti all’esordio, tuttavia a offrirteli è un trio di sessanta-e-qualcosa. E se la fonte dell’eterna giovinezza si nascondesse nel New Jersey?

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2022: i sopravvissuti

Ebbene sì: sono giorni strani. Molto strani. Giorni bruttissimi, soprattutto, nei quali il mondo cade a pezzi mentre sta cercando di liberarsi del peggiore virus che lo abita. Come al solito, alla fine di un altro anno terribilis, tampono i timori ragionando sullo stato della musica. A proposito del quale, il cinico di professione trova pane per i suoi denti e attacca la solfa – in gran parte giustificata – che una volta tutto era meglio eccetera eccetera… Tuttavia, se la produzione discografica attuale resta di dimensioni quantitativamente insensate con le inevitabili ricadute sulla qualità, possiamo sempre trarre alcune indicazioni piuttosto stimolanti. Per esempio, l’evidenza che il rallentamento creativo non sia imputabile solo alla massa delle pubblicazioni, poiché in gioco entra anche un fattore legato alla dinamica “evolutiva”, in base al quale le forme d’arte progrediscono fino a un certo punto con passi da gigante e poi vanno avanti tra rallentamenti e stagnazioni. Nel caso di un linguaggio popolare, la linea di crescita è cronologicamente più breve e cinque anni pesano come mezzo secolo di altre discipline. Nonostante tutto, la “cosa” ancora si evolve, pur se di millimetri. Di conseguenza, alla faccia dei patetici sensazionalismi, non ha bisogno di essere salvata.

Talenti ne esistono tuttora e, come accade fin dal giorno uno, pescano idee e intuizioni dal passato infondendovi uno spirito attuale e intrecciandole in fisionomie il più possibile originali. Inoltre, bisogna considerare che Internet ha mutato la struttura elicoidale del tempo in favore di un orizzonte illimitato: dall’inizio del processo sono trascorsi vent’anni e ne avvertiamo le conseguenze in una compressione inversa dove il tempo medesimo accelera a dismisura, la nostra percezione si comprime e intanto la creatività si spezzetta in una serie di microuniversi paralleli. La fatica maggiore sta dunque nella selezione e nella ricerca, poiché – facciamocene una ragione – è matematicamente certo che da qualche parte sta accadendo qualcosa di interessante e ce lo stiamo perdendo. Per quanto mi riguarda, dal 2022 emergono dischi che poggiano sull’equilibrio tra presente e passato, irrobustiti da emozioni e passione. Lavori che spesso adottano una significativa cura per la canzone nel mentre indicano come ogni sfumatura dell’universo sonoro rappresenti ormai un canone. Il che non significa fossilizzazione. Semmai, di un’enorme banca dati dalla quale attingere per rigenerarsi. E da fan di Dr. Who, so che la rigenerazione è una gran bella cosa. Buon 2023, care lettrici e cari lettori.

Survival of the best

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You

Built To Spill –  When The Wind Forgets Your Name

Bill Callahan – Ytilaer           

Danger Mouse/Black Thought – Cheat Codes

Jake Xerxes Fussell – Good And Green Again    

Ghost Power – s/t

Michael Head & Red Elastic Band – Dear Scott  

King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me

Beth Orton – Weather Alive

Tomberlin – I Don’t Know Who Needs To Hear This…

Wilco – Cruel Country  

Yard Act –  The Overload

Premio della critica: Cowboy Junkies – Songs Of The Recollection

My country: Basement 3 – Naturalismo!

From the vaults

AA.VV. – Heavenly Remixes 3 & 4

Biff Bang Pow! – A Better Life: Complete Creations 1984-1991 

Dennis Bovell – The Dubmaster: The Essential Anthology

Broadcast – Maida Vale Sessions

Son House – Forever On My Mind

Movietone – Peel Sessions

Brividi e mal di pancia in pillole, 6

Built To Spill – When The Wind Forgets Your Name (Sub Pop)

Autunno di ritorni eccellenti e almeno sotto questo profilo il 2022 qualche buona notizia la riserva. Siccome la vita è breve però a volte bella, basta un nuovo LP dei Built To Spill per sentirsi rinfrancati, anche in virtù del passo più rallentato col quale da You In Reverse Doug Martsch pubblica dischi, simile alle visite di carissimi amici che incontri di rado ma senti ogni giorno. Sono quelli che meritano stima, fiducia e amore perché non sbagliano una mossa, che si tratti di reinventare il rock chitarristico classico tramite una chiave indie o maturare con canzoni colme di emozione. Una garanzia, l’uomo che a sette anni da Untethered Moon si ripresenta – per la prima volta su Sub Pop, accompagnato da due membri dei brasiliani Oruã – con materiale autografo avendo frattanto proposto pagine di Daniel Johnston.

Chiamatela suggestione, eppure la tenera svagatezza di Daniel sembra trapelare da filastrocche favolosamente appiccicose e tristallegre che impastano Pavement, Dinosaur Jr., Flaming Lips e Neil Young come Gonna Lose, Understood, Spiderweb e Never Alright, dall’esuberante roots-rock che si trasforma in sarabanda psichedelica della conclusiva Comes A Day, da una Rock Steady che sorprende con groove morbido e coda dub, dall’acidula ballata Fool’s Gold e dall’alveo melodico delle riflessive Elements e Alright. Tanto per cambiare, tutte canzoni imperdibili. Tanto per cambiare, un modo di intendere e praticare la musica che va scomparendo e che l’eroico Doug mantiene vivo con una fede commovente. Favoloso.

Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

Anche soltanto per il modo in cui scandisce le uscite discografiche, a Beth Orton non si può non voler bene. Ancor più dopo averci fatto attendere sei anni per un album di toni tenui e seppiati che rappresenta un’oasi di pace in un’epoca triste e buia. Un’epoca nella quale la speranza deve comunque rimanere viva e aiutarci a reagire nel modo più sicuro che conosciamo. Nello specifico di una cantautrice, sedersi a un vecchio pianoforte comprato da un robivecchi per scrivere via dalla pazza folla, al riparo nel capanno del giardino. Ed è così che, a un certo punto, quando credi di aver scandagliato certe profondità per te stessa, comprendi che la faccenda sta diversamente. Che quelle canzoni – Brian Eno docet –onorano il tuo “errore” come un’intenzione nascosta.

Ecco: Weather Alive sorge dall’intimità di chi lo ha composto e, coraggiosamente, si porge da unicum che richiede impegno e dedizione. In punta di piedi, un folk di chiaroscuri dall’anima jazz – riletto alla luce di un minimalismo che profuma di modernità classica – avvolge l’ascoltatore dentro tepori di piccole ma in fondo grandi gioie quotidiane. Per questo non puoi fare a meno di una title-track da Nick Drake che si crede Mark Hollis, della sottile pacatezza di Unwritten e Arms Around A Memory, della crepuscolare Friday Night e della languida Forever Young, della Lonely dolente come a Cat Power non riesce più e della Joni Mitchell che ringiovanisce in Fractals e Haunted Satellite. Ci sei mancata, Beth, e parecchio.

Laura Veirs – Found Light (Bella Union)

Anche se sul momento non te ne rendi conto, nella fine di qualcosa si nasconde pur sempre un inizio. Quando ti separi da qualcuno che hai amato, è naturale ripensare a sé e all’accaduto prima di ripartire da capo. Magari, come nel caso di Laura Veirs, ciò avviene attraverso una catarsi spontanea e un lavoro che si inserisce nella tradizione dei dischi scivolati fuori da un cuore spezzato, dai giorni in cui l’amore fa male però bene. Giorni dove alla fine rinasci, anche se è il percorso che conta davvero. Nello specifico, Found Light rappresenta una reazione al divorzio con Tucker Martine, apprezzato produttore per Decemberists, Jayhawks e la stessa Laura.

Ragion per cui, qui, tira per lo più un’aria diversa: per forza di cose più meditativa benché mai cupa, consegnata con l’aiuto dell’abile Shahzad Ismaily a un tessuto sonoro essenziale ma pure assai curato. Soprattutto, è perfetto per come pone in risalto l’emotività di folk traslucidi in vena di jazz come Autumn Song, Naked Hymn e My Lantern, della Ring Song che sgocciola un pianoforte circolare, dell’avvolgente bruma elettronica Signal, della scarna meditazione Sword Song. Per tacer di una New Arms insieme corale ed eterea, del violino che serpeggia in coda a Time Will Show You, dell’amara filastrocca T&O. In inglese, il titolo del disco può significare sia “luce trovata” che “Laura Veirs ha trovato la luce”. Date le premesse, mi pare assolutamente azzeccato.

Brividi e mal di pancia in pillole, 5

Thomas Dollbaum – Wellswood (Big Legal Mess)

Cocci del sogno americano: soprattutto di questo tratta la ruvida, scarna poesia di Thomas Dollbaum, cresciuto in Florida e domiciliatosi a New Orleans sette anni or sono. Ottenuto un master in letteratura, si guadagna il pane costruendo case nel frattempo scrive canzoni e, durante il blocco forzato della pandemia, inizia a fissarne alcune su nastro con l’amico Matthew Seferian. Calmatesi quel poco le acque, un pugno di sodali si unisce alle registrazioni in un hotel della Big Easy e ne risultano otto fotografie seppiate di quotidianità allo sbando, di personaggi che si arrangiano con il mestiere di stare al mondo. Collocate le storie da qualche parte tra Raymond Carver e Hubert Selby Jr., la musica commenta e sostiene con un taglio indie roots che fonde un giovane Springsteen a Richard Buckner e David Berman, mentre un timbro vocale profondo – però sommesso e seppellito nel mix – svela un osservatore delle esistenze altrui. Il moderno songwriter umanista lavora infatti sul contrasto tra delicatezza sonora e scabrosità del racconto lasciando aperto uno spiraglio di speranza. Sta esattamente lì una parte del fascino, laddove il resto ce lo mettono passione, arrangiamenti rigorosi ma curati, una calligrafia per nulla banale con apici nell’amarognola Work Hard, in una God’s Country insieme squadrata, sinuosa e acidula, nel mesto e traslucido inno Strange, nella meditativa Break Your Bones. Benvenuto, ragazzo.

Dream Syndicate – Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions (Fire)

Argomento spinoso, le reunion. Mentre Wire e Feelies dispensano classe, nella maggioranza dei casi assistiamo a baracconate patetiche o almeno così è per me. Ma proprio perché al mondo c’è posto per tutti, mi tengo stretto chi annoda il passato e, guardando oltre, maneggia l’equilibrio sul quale poggia l’arte rock. Per i Dream Syndicate del nuovo secolo la questione era che fare dopo lo splendido The Universe: proseguire con la sperimentazione o ritornare alle canzoni? Siccome tertium non datur, la seconda opzione prevale in un album che negli episodi migliori offre cose belle e policrome come il classico mid tempo alla Wynn avvolto in echi ipnotici Where I’ll Stand, come una Beyond Control dal groove krauto e le atmosfere crepuscolari, come il Lou Reed di inizio ’70 modernizzato di The Chronicles Of You e tramutato in Neil Young nella ballata urbana Hard To Say Goodbye. Un’abbondante tacca sotto il resto, dal pop-rock Damian che cita Tom Petty faticando a decollare allo stiloso garage Straight Lines, passando per le routinarie When You Come Around e Trying To Get Over, una My Lazy Mind adeguatamente pigra e sudista, i Roxy Music di Stranded che si affacciano in Lesson Number One. A conti fatti, Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions non si muove né avanti né indietro, ma di lato: a voi stabilire sia un pregio o un difetto. Argomento spinoso, le reunion…

Nina Nastasia – Riderless Horse (Temporary Residence)

La vita spesso gioca dei gran brutti tiri. Ne sa più che qualcosa la cantautrice americana Nina Nastasia, di ritorno sulle scene dopo quasi tre lustri con Riderless Horse, un album che alle spalle ha una storia drammatica responsabile sia del suo intimo significato che della prolungata pausa. Il disco porta con sé il peso della morte del marito Kennan Gudjonsson, suicidatosi dopo che la loro relazione era andata in frantumi. Cose che non dovrebbero mai succedere, ma alle quali cerchi di dare un senso meglio che puoi: ad esempio, esorcizzando la tragedia con la musica, che in questo modo finisce per essere il porto sicuro dove rientrare dopo una navigazione in mari di sofferenza. Per questo motivo affronti ciò che è stato e ciò che è con amici fidati – Steve Albini, Greg Norman – e una manciata di canzoni all’insegna della purezza nuda e confessionale. Canzoni nelle quali il senso di colpa si accompagna alla consapevolezza che bisogna comunque andare avanti. Canzoni da ascoltare d’un fiato, come fossero una lettera intessuta di lacrime e sorrisi. Ciò nonostante, risaltano la filastrocca Just Stay In Bed, una Nature prossima a Kristin Hersh, la dolce tensione di Ask Me e Go Away, una cristallina The Two Of Us, il rabbrividente lamento Trust. Tra ricordi, rimpianti e rinascita, una voce amarognola di disarmante leggiadria e arpeggi acustici si/ci tagliuzzano il cuore per farne coriandoli. E chissà che presto il cielo non si schiarisca.

Tomberlin – I Don’t Know Who Needs To Hear This… (Saddle Creek)

La bolla social talvolta regala qualche bella sorpresa. Spulciando le liste di ascolto degli amici puoi imbatterti in nomi che non conoscevi e provare la gioia di quando setacciavi le recensioni sulla tua rivista preferita, con il vantaggio di non dover attendere settimane per toccare con orecchio ed ecco che quest’epoca avvilente qualche merito lo ha. Lo stesso vale per la (relativamente) recente ondata di cantautrici, un panorama assai interessante e composito quanto a stili ed età dove Sarah Beth Tomberlin – per comodità Tomberlin: classe 1996 domiciliata a Louisville, Kentucky, in tempi lontani tra gli epicentri del post-rock – non incarna un’altra Angel Olsen o la nuova Sharon Van Etten. È di più e di meglio, la ragazza, che arriva al secondo album in quattro anni mostrando una personalità significativa e trafficando con scheletri folk attuali sui quali innesta inquieta ambient urbana (Easy), elettronica umanista (Memory), spezie jazz (Unsaid, Collect Caller) e favolose ballate dal retrogusto acido (Stoned). Questi gli assi calati da un album che si mantiene su livelli altrettanto elevati nella delicatezza mai scontata di Born Again Runner, Tap e Sunstruck, in una Happy Accident malinconicamente muscolare, nella laconica Possessed e nella dolce ma svagata Idkwnth. Per quanto mi riguarda, Sarah Beth, sei una rivelazione. E ti dico che abbiamo tutti bisogno di ascoltare questo disco incantevole.

Brividi e mal di pancia in pillole, 4

Basement 3 – Naturalismo! (autoproduzione)

Gruppi italiani interessanti e dove trovarli… Per esempio a pochi chilometri da casa, nella pianura dove la pianura bresciana sfuma nel cremonese. Un contesto provinciale nell’accezione più felice possibile, cioè quella di luoghi che sorprendono con il senso di rivalsa verso la metropoli e la distanza critica. Pensate a Bristol o alle scene decentrate del rock americano alternativo come Chapel Hill e Olympia ed ecco: nei Basement 3 non trovate concessioni alle mode, sbiadite fotocopie di modelli esteri o vacuo dilettantismo un tanto al chilo. Il trio ha le idee chiare, suona senza batteria intrecciando con gusto e inventiva chitarre acustiche ed elettriche, basso ipnotico ed elettronica vintage.

Artigiani sul serio indipendenti, i Basement 3 trafficano con la psichedelia da prospettive post aperte alla contaminazione e in questo secondo album si allontanano senza strappi dal già pregevole esordio Permafrost Walkers del 2019 per approdare a una forma canzone personale e non classificabile in categorie troppo precise. Riconoscibili gli ingredienti, il sapore della ricetta è ogni volta intrigante: Tabula Rasa sono Kevin Ayers e Captain Beefheart che si incontrano in una bolla a gravità intermittente, Johnny Ray e Buy A House deliziano con folk-pop immediati e colmi di emozioni, l’articolata I Have No Mouth è una pagina luccicante vicina a Snakefinger – punto di riferimento inatteso e benvenuto che torna altrove – e Labord’s Chameleon Short Lifespan un gioiellino di estatica wavedelia. Se in Humphrey Bogart i Suicide esagerano con le anfetamine e si credono i Devo, Terminal 2 cita i Velvet Underground con uno space rock barocco però pure minimale. Eccentrico, Naturalismo!, ma con i piedi piantati in terra. Proprio come la provincia e i suoi talenti.

King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (City Slang)

A volte le aspettative generate dai luoghi comuni possono spiazzare. Prendete Hannah Merrick e Craig Whittle, alias King Hannah: vengono da Liverpool ma non offrono pop chitarristico o new wave immersa nella psichedelia. In ogni caso, occorre fare dei distinguo poiché la Merrick ha origini gallesi e quantunque nei King Hannah latiti l’influenza di Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes, è altresì innegabile che la visionarietà sia per loro un elemento fondamentale. È psichedelia anche la loro, poggiata su un torpore oppiaceo da qualche parte tra vivissimi ricordi dello slowcore (Ants Crawling On An Apple Stork, Berenson) e gli incantesimi di Opal e Mazzy Star (All Being Fine, Go-Kart Kid) e tuttavia non finisce lì. Perché il duo mescola abilmente le carte ispirandosi al desolato Neil Young di metà anni Settanta (il capolavoro The Moods That I Get In), all’eremita Jesse Sykes (la title-track, Big Big Baby), ai Portishead (Foolius Caesar), al cantautorato di P. J. Harvey (A Well-Made Woman) e Anna Calvi (It’s Me And You, Kid).

Tutti insieme appassionatamente, sono i riferimenti di una bellezza che si svela con gli ascolti e che al tratto marcato preferisce i ricami. Una bellezza minimale ma robusta che sistema chitarre traslucide su groove secchi, ipnotici e colmi di dolceamaro intontimento acid-blues, così che le canzoni paiono sempre sul punto di esplodere e invece avvolgono nella coda di una cometa. Nel suo esperanto neo-psichedelico intessuto di atmosfere insieme coinvolte e distanti, I’m Not Sorry, I Was Just Being Me non ha paura di mostrare le influenze che si cuce addosso con personalità e affidandosi a una scrittura di alto livello. Soprattutto, sparge attorno a sé un romanticismo obliquo e meravigliato al quale presto scopri di non poter più rinunciare. In una parola: splendido.

Ree-vo – Dial ‘R’ For Ree-Vo (Dell’Orso)

La regola del “dimmi da dove vieni e ti dirò che musica fai” è viceversa assai utile per inquadrare T-Relly e Andy “Spaceland” Jenks. L’ascoltatore non faticherà a cogliere l’origine del duo attivo dietro la sigla Ree-vo grazie alla tagliente caligine che avviluppa i suoni e al tono colloso e rauco con cui si sgranano rime. Naturale, se provieni da Bristol e ti dai da fare con trip e hip hop: in fin dei conti, non c’è assolutamente nulla di sbagliato nell’avere dei modelli se li tratti come punti di partenza per approdi originali. Cosa che accade con i Ree-Vo, che vantano curriculum di tutto rispetto: T-Relly è un rapper stimato attivo socialmente e Andy è in giro dagli anni ’90, nei quali i suoi Alpha pubblicavano per l’etichetta dei Massive Attack e lui era tra i DJ che costoro si portavano in tour.

Da allora si è cimentato in collaborazioni e uscite discografiche di ampissime vedute, spaziando da nomi underground a un gigante come Mark Stewart. Di conseguenza, nella mezz’ora dell’e.p. Dial ‘R’ for Ree-Vo non vi è traccia di revival e, tra un remix e un originale, si chiude il cerchio che dai Dälek conduce a Pole. Pastoso e aggressivo ma dotato di umanità lo stile di Relly, le musiche vi si sposano nel migliore dei modi: parla chiaro in tal senso Protein, riletta da Kevin Martin alias The Bug in electro-hop scalciante ma sinuoso e da Rob Smith (metà dei concittadini Smith And Mighty) avvolgendo aromi giamaicani in nervosismi latenti. E se Groove With It avanza inesorabile su una fanfara maniacale, Monitoring The Attack Of The Tamarisk Munching Beetles è dub ipnotico e i minacciosi hip-hop mutanti Fires e Combat (Surgeon Remix) sbatacchiano per la collottola. Qui si smantella la tradizione per ricomporla con lo spirito di oggi, signore e signori. Restate sintonizzati.

Brividi e mal di pancia in pillole, 3

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You (4AD)

In un’epoca complicata come questa è fondamentale permettere a un gruppo di crescere senza caricarlo di ruoli che spesso finisce col rifiutare. Diciamolo: il rock non ha bisogno di salvatori e, come ogni altra forma d’arte, è vivo e vegeto anche se ha conosciuto giorni migliori. Ma del resto neppure noi stiamo una favola, dunque… Venendo al punto, se nel 2019 Two Hands segnava un notevole progresso per l’idea di Americana osservata con lenti post-indie della formazione guidata da Adrianne Lenker, adesso si coronano ambizioni e tragitto con un disco “importante”. Alla faccia dell’ascolta-e-getta, vi sfilano venti brani – su un totale di quarantacinque, registrati in diversi momenti e località degli Stati Uniti – per qualcosa che possiede i crismi della summa estetica.

Mi piace credere che il fervore creativo sia servito a impedire a un mondo prossimo al tracollo di intromettersi, perché la bellezza ci salverà. Forse. Di certo tiene viva la speranza e rende migliori i giorni. Cosa della quale i Big Thief sono consapevoli e lo stesso dicasi per le dinamiche umane che intrecciano al talento e per una maturazione da applaudire. Mai un momento fiacco o di routine in un lavoro compatto e allo stesso tempo policromo da centellinare con pazienza, così che la segnalazione di questo o quel brano è legata all’umore del momento. Oggi – domani chissà – scelgo le Throwing Muses alle prese con la ballata country in Change e una dolceamara Certainty, la robusta circolarità di Little Things e il moderno madrigale Heavy Bend, il nightmare pop di Blurred View e l’agreste Red Moon, la leggiadra No Reason e l’acusticheria Promise Is A Pendulum. Ora tocca a voi: spegnete tv, computer, telefono e fatevi accarezzare l’anima quanto più spesso potete. Ne vale davvero la pena.

Elvis Costello – The Boy Named If (EMI)

Elvis Costello è un Genio dall’inarrestabile logorrea e di questo suo piccolo difetto è al corrente, se in tempi ormai lontani – si era alla metà degli anni Ottanta – ammetteva pubblicamente di aver scritto troppe canzoni. Considerate che da allora Declan Patrick Aloysius Macmanus non se n’è stato con le mani in mano (anzi…) e traete le vostre conclusioni. In attesa che consegni un equivalente di Time Out Of Mind, quattro anni or sono mancava di pochissimo il bersaglio con il pop insieme solido e ricercato di Look Now. Stilisticamente più vario benché inferiore sotto il profilo compositivo, The Boy Named If si assesta comunque una tacca sopra quel Hey Clockface uscito nell’esatto mezzo, inscenando un sofisticato gioco di riferimenti a momenti specifici della carriera costelliana e della storia del rock.

Giusto per gettare sul piatto qualche nome, ecco gli Who e il Sir Douglas Quintet stabilire le coordinate per This Year’s Model, un Tom Waits ammorbidito presiedere alla policroma eccentricità di Spike, certi echi di soul dagli occhi blu rimandare a Punch The Clock, il pop barocco però minimale ricordarci che Imperial Bedroom è un capolavoro senza età. Tolte alcune lungaggini e l’inevitabile pizzico di mestiere, dalla girandola di (auto)citazioni emergono la malinconia della pianistica Paint The Red Rose Blue e del commiato Mr. Crescent, una title-track articolata e vigorosa, la marcetta tra New Orleans e la Londra del 1967 The Man You Love To Hate, l’orecchiabile tambureggiamento The Death Of Magic Thinking, una Penelope Halfpenny argutamente, sfacciatamente à la McCartney. Nonostante l’iperproduzione e gli esercizi di stile, il Signor McManus è uno che le canzoni sa scriverle eccome. Cosa buona e giusta tenerlo a mente.

Jake Xerxes Fussell – Good And Green Again (Paradise Of Bachelors)

Sempre un momento importante quello in cui decidi di camminare con le tue gambe. Un frangente dove trovi chi agisce d’istinto, chi soppesa e chi sente che è ora. Esempio recente Jake Xerxes Fussell: tre gli album prima di concedere una parca manciata di brani autografi, perché come accade nella pittura giapponese anche qui si diventa artisti dopo un processo di imitazione. In realtà, si tratta di una rispettosa e approfondita indagine di modelli, che vengono studiati con passione onde afferrarne i segreti e l’essenza. Per questo il chitarrista – e da oggi anche songwriter – del North Carolina ha affrontato le radici sul campo andando dritto alla fonte. Da bravo figlio di musicologi, ha seguito le orme dei genitori ma anche dell’enciclopedia vivente Ry Cooder, perché nella musica popolare non vi è inchiostro che non derivi dalla mescolanza di altri che lo hanno preceduto.

Di conseguenza, in Good And Green Again l’antiquariato sonoro finisce allorché si soffia via la polvere da manufatti preziosi per raccontare l’attualità: il passato non serve da semplice paravento, ma viene intrecciato con abilità stando alla giusta distanza cronologica. Parlano chiaro una splendida The Golden Willow Tree che si riallaccia alla tradizione albionica, la pacatezza vocale con qualcosa di Jim O’Rourke nel tono che canta storie e dipana emozioni, le atmosfere in prevalenza avvolgenti, gli intrecci elettroacustici, le misurate decorazioni degli arrangiamenti. Tutto classico però mai scontato o banale in una scaletta scintillante, che si impone alla distanza vantando altri apici nel delicato traditional Carriebelle e nel favoloso commiato Washington. Musica perfetta per attraversare l’inverno e, magari, spingersi già verso le classifiche di fine anno. Grazie, brother Jake.

L’orizzonte che abbiamo perduto. Una lista per il 2021

Finché possiamo dire: “quest’è il peggio”, vuol dir che il peggio ancora può venire.” (Re Lear; atto IV, scena I).

Hai voglia a consolarti con l’evidenza che di fronte a un bivio prevale quasi sempre il disastro. Lo stesso dicasi per accettare il fatto che delle scelte sbagliate ci accorgiamo per lo più a cose fatte. Lottare contro eventi fuori dal controllo è un impegno faticoso e prostrante che ci sbatte in faccia la nostra impotenza: eppure, proprio perché la dignità umana va onorata, dobbiamo proseguire il cammino, scansare i colpi, leccarci le ferite e provare a costruire oasi di pace e bellezza.

Non so voi, ma certe volte mi sento sfinito da un mondo trasformatosi in un incubo. Tiro il fiato, mi affido a qualcosa che sparga attorno un po’ di luce, e benedico la decisione presa circa un lustro fa di rallentare e voltare le spalle alla smania di ascoltare/leggere/vedere l’impossibile “tutto”. Parlo della bulimia che spinge la gente a ingurgitare dischi e liquidarli dopo tre ascolti per poi vomitare sentenze. No, grazie. Dalle passioni desidero profondità e impegno, perché questo è ciò che offro. Di conseguenza, qui avete sinora trovato – e troverete sempre e comunque – liste di fine anno succinte però essenziali.

Tornando alla stretta attualità, il “tempo sospeso” della pandemia che ho trascorso a modificare il quotidiano in una lotta di resistenza mi ha anche aiutato a riportare il senso dell’umano davanti a ogni cosa. L’arte, intanto, lo sostiene come può. Forse è anche per questo che dalle uscite targate 2021 ho scremato musica ancor più del solito lontana dall’autocompiacimento e dall’effimero. C’è inoltre un filo rosso – astratto ma non troppo – che lega tra loro i dischi: una “ghostalgia 2.0” dove il senso di malinconia deriva dall’assenza materiale (chi non c’è più: troppi) però anche percettiva, figlia della difficoltà a concepire un presente e un domani sereni.

La dozzina qui sotto è pervasa da questo umore, tuttavia colma un po’ di vuoto e tampona qualche fragilità. Come già detto, ho ricambiato questi titoli (più alcuni altri rimasti esclusi) con attenzione, dedizione, ascolti frequenti. Come è giusto che sia. Come facevamo quando i soldi erano pochi, le ore infinite e i dischi segnavano momenti e spazi di ogni giorni. Le cose non sono cambiate, tranne che per l’irripetibile stupore che età ed esperienza hanno in parte attenuato ma per lo più modificato. A lui resto grato, come sono infinitamente grato a tutte/i voi per il sostegno al blog. Buon anno nuovo.

My dirty dozen

Ryan Adams – Wednesdays

Beautify Junkyards – Cosmorama

Clairo – Sling

Eleventh Dream Day – Since Grazed

GY!BEG_d’s Pee AT STATE’S END!

Low – Hey What

Madlib – Sound Ancestors

Mega Bog – Life, And Another

Notwist – Vertigo Days

Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp – We’re OK. But We’re Lost Anyway

Springtime – Springtime

Suuns – The Witness

Oldies but goldies

Can – Live In Stuttgart 1975  

Bob Dylan – Springtime In New York: The Bootleg Series, Vol. 16, 1980-1985

Rogér Fakhr – Fine Anyway

Jazz Butcher – Dr Cholmondley Repents: A-Sides, B-Sides And Seasides

Stereolab – Electrically Possessed: Switched On Volume 4

Italians do it better: Amerigo Verardi – Un sogno di Maila

Premio della critica: Chris Eckman, James McMurtry

Brividi e mal di pancia in pillole, 2

Ryan Adams – Wednesdays (Pax-AM)

Lo so: Wednesdays era stato reso di pubblico dominio alla fine del 2020 in forma “liquida”, ma siccome per certe cose sono all’antica considero ancora valida la pubblicazione fisica, che nello specifico risale allo scorso marzo. So anche che di Ryan Adams si è disquisito parecchio in ragione di pessime vicende legate ad abusi e molestie che lo segneranno a vita con tutto quel che ne consegue sul prosieguo della sua carriera. E sono al corrente che nel frattempo Adams ha pubblicato un altro disco meno riuscito, che rappresenta il pannello centrale di una trittico rimaneggiato per i problemi di cui sopra. Annotato ciò, senza dimenticare che l’essere umano può non viaggiare alle medesime altezze dell’artista e bisogna farsene una ragione, a me è il secondo che interessa. Mi interessa dire che considero Wednesdays tra i vertici della sua vasta produzione e uno dei migliori dischi dell’anno in ambito “Americana” e dintorni. Uno dei più intensi, anche: raccolto, malinconico e tuttavia generoso di melodie e delicatezza anche quando flette i muscoli, scorre privo di cedimenti dall’iniziale I’m Sorry And I Love You dove Neil Young si crede John Lennon al suggello di morbida circolarità Dreaming You Backwards. Anche se il resto non vale meno, menzione d’obbligo anche per la Band sudista di Birmingham, il folk struggente di Mamma, la crepuscolare I’m Sorry And I Love You. Per me, basta e avanza. Soprattutto, questo è ciò che conta.

John Murry – The Stars Are God’s Bullet Holes (Submarine Cat)

Tre mani di carte e nessuna sconfitta per chi nel 2013 consegnava con The Graceless Age uno fra i dischi più struggenti del decennio. Anche all’altezza del difficile terzo album – baciato da un titolo magnifico come “le stelle sono i fori di proiettile di dio” – un quarantunenne infine sereno continua a scavare in una personale idea di cantautorato. Tuttavia non si sottrae alla regola secondo la quale l’artista felice centra il bersaglio con meno precisione: supervisionato da John Parish – misurato, il suo “tocco, ma avvertibile – il rock d’autore di Murry qui lascia entrare un po’ di luce però convince solo in parte. Ad esempio, nelle Oscar Wilde (Came Here To Make Fun Of You) e Ones + Zeros da American Music Club rilassati, nel Greg Dulli maturo evocato da Perfume & Decay, nei Lambchop dei bei tempi con coda ambient noise del gioiellino Die Kreutser Sonata, nell’alveo elettro-rock che avvolge Yer Little Black Book, nel glam da Beck sotto codeina di You Don’t Miss Me. Canzoni di buon peso che portano via metà di una scaletta completata con un breve siparietto strumentale, una discreta cover di Ordinary World e un pugno di episodi sotto l’elevata media cui siamo stati finora abituati. Ne deriva una transizione in tutti i sensi onesta per un cavallo di razza con meno lividi sull’anima ma pur sempre capace della zampata di classe. Anche se The Graceless Age era un’altra e ben più memorabile faccenda, si merita sette più e una pacca sulla spalla.

St. Vincent – Daddy’s Home (Loma Vista)

Con i dovuti distinguo, St. Vincent è diventata una versione “concreta” di Bjork. Nel senso che, senza (s)cadere nella fredda autoreferenzialità, possiede l’abilità di sorprendere restando riconoscibile e di trafficare con il pop sullo spartiacque tra innovazione e immediatezza. Lo fa con la disinvoltura di chi sette anni or sono entrava con un favoloso album omonimo – lei assisa sul trono: legittimamente – in una maturità. Una, non “la”. Perché con i camaleonti si hanno sempre delle sorprese e infatti Daddy’s Home, dichiaratamente ispirato ai primi anni Settanta, sterza verso sonorità più “organiche”. Stavolta la ragazza sorprende fingendosi convenzionale, sistemando a monte del gesto una sofferta scintilla autobiografica e tenendosi stretta la convinzione che costruirsi una personalità significa anche cucire tra loro diversi passati. Tuttavia, mentre guarda dentro e attorno a sé, per qualche motivo inciampa in episodi piuttosto opachi sotto il profilo compositivo o che hanno una certa aria da esercizio di stile. Non succede nel funk alla Bowie sotto botta colombiana di Pay Your Way In Pain, nel groove sinuoso di Down, nel gospel urbano e acidulo The Melting Of The Sun e in una manciata di apprezzabili slalom tra Prince, Beck e P.J. Harvey. Materiale sufficiente a tamponare le incertezze e confermare un talento imprendibile e imprevedibile. Un talento per il quale il futuro è sempre un ipotesi fino al prossimo ch-ch-ch-change.

Teenage Fanclub – Endless Arcade (Pema)

Quando scrive che il tempo è un bastardo, Jennifer Egan ha assolutamente ragione. Incurante di tutto, lui dà ma più che altro prende – anzi: strappa – senza chiedere il permesso. Amici, giorni, ricordi… Ecco: anni fa, ai gruppi rock non era concesso di invecchiare e loro stessi lo facevano con scarsa grazia. Nondimeno, a un certo punto i “vecchi” hanno iniziato a dare giri di pista alle nuove generazioni, per lo più incapaci di infondere vita nei loro esercizi di stile. Questi i confini entro cui si muove l’undicesimo album dei Teenage Fanclub, il primo senza il bassista Gerard Love. In quella che da sempre era una democrazia, dal punto di vista compositivo l’assenza del pilastro si palesa in toni ancor più malinconici e meditati, sui quali ha influito in buona misura anche il recente divorzio di Norman Blake. Abbassato il volume e ridimensionati i distorsori, il gusto melodico ispirato alle “quattro grandi B” – Byrds, Badfinger, Beatles, Big Star – veste un folk-rock urbano cucito da quelle armonie vocali e contrappuntato dalle tastiere del nuovo arrivato Euros Childs, già nei favolosi Gorky’s Zygotic Mynci. Forme ed esecuzione sono perfette per atmosfere crepuscolari e dolceamare che dispiegano la maturità autoriale con fare discreto e si impongono con gli ascolti. Come fossero discorsi di vecchi amici attorno al fuoco, si incamminano sulla via che porta al club dei cuori infranti. Bastardo o meno, c’è un tempo per ogni cosa.