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Amerykah (Badu) oggi

Nell’odierno marasma discografico trovo che la parola “capolavoro” sia spesso usata in modo un po’ affrettato. Tranne alcuni casi – per forza di cose rari – che si raccontano subito eclatanti, in un panorama così assurdamente frammentato e spezzettato viene da pensare che il sostantivo forse vada ridefinito. Mentre ci riflettiamo, vi dico che per me significa qualcosa che tasta il polso al qui e ora restando fresco nei decenni e fungendo da riferimento per le generazioni a venire. Ma siccome a volte le eccezioni confermano la regola, può darsi che, malgrado la bellezza e la genialità, un classico ci metta parecchio a rivelarsi influente oppure non faccia proseliti.

Tutt’altro che disprezzabile, comunque, la condizione di fascinoso solitario senza colpa, considerando quanti mediocri saltano sul carro del vincitore, e nel caso vi servisse un esempio, eccoci al punto: nel 2008 la (in tutti i sensi…) conturbante Erykah Badu pubblicava New Amerykah, Pt. 1: 4th World War. Un disco che lasciava perplessi per la manciata di ascolti necessari a trovare chiavi di accesso e di lettura e che poi cresceva in un climax di intelligenza e comunicativa fino a centrare i piani alti nella classifica di “Billboard”. Da quei giorni, in ogni caso, sembra caduto nel vuoto: vuoi perché il seguito New Amerykah, Pt. 2: Return Of The Ankhera buono ma un filo troppo astratto, vuoi perché la ragazza – si fa per dire: cinquantadue primavere il prossimo 26 febbraio – ha mantenuto un abituale basso profilo.

Anche qui nulla di male, a fronte dei bulimici che sputano un dischetto al mese, ma del resto Erykah sa il fatto suo. Eventuali scettici considerino l’esordiente salutata da nuova Billie Holiday in ragione di un album con il necessario per invaghirsi a vita: groove, voce languida e melanconicamente seducente, un’autrice di vaglia. Le classifiche premiarono adeguatamente Baduizm, stiloso tetto sotto il quale trovi il contrabbassista jazz Ron Carter e i Roots, così che la fanciulla di Dallas ha potuto prendersi tempo e agio per gestire una carriera inappuntabile. Dopo Mama’s Gun e il chilometrico E.P. Worldwide Underground, convincenti e usciti tra 2000 e 2003, seguiva un lustro di silenzio.

Un periodo speso a meditare sullo Stato dell’Unione, su guerre in paesi che la gran parte dei suoi concittadini non trova sul mappamondo, sull’uragano Katrina, sulla dipartita di quel gran genio dell’amico J Dilla. Ne derivava New Amerykah, Pt. 1: 4th World War, pamphlet critico e umanista di profonda passione e parole scagliate come sassi che tornano indietro riportando pezzi del bersaglio che hanno colpito. Parole di una nazione che dice “No!” come in un What’s Going On moderno e consapevole dell’evoluzione dei linguaggi cui è affidato. La Nuova Amerykah tratta argomenti pesanti ricorrendo a un’estetica personale che attinge dalla musica nera d’avanguardia sistemando Shafiq Husayn, Madlib e un Thundercat non ancora sulla cresta dell’onda accanto al team che sin dall’inizio accompagna la Badu.

Lo senti forte e chiaro già in una copertina smaccatamente funkadelica che stavolta l’aria è diversa. Da bravi afrofuturisti, si viaggia attraverso il tempo e lo spazio costruendo ipotesi di attualità con cascami del passato e non è forse la tradizione ricontestualizzata uno dei pilastri dell’hip-hop? Tutto quadra, in primis le urgenze espressive accoppiate all’ampiezza della visione, alla conoscenza della Storia, alle speranze e ai sogni di un popolo. Anche per questo tessiture complesse si snodano disinvolte dall’incipit Amerykahn Promise, che sbuca da Mothership Connection tra fiati tellurici, vocine satiriche e atmosfera sci-fi, fino al (quasi) conclusivo, struggente e atmosferico soul cosmico in jazz di Telephone, cioè lo Stevie Wonder dei ’70 accompagnato dai Portishead.

Nel mezzo, di tutto e di più: battute dopate al gusto dub (The Healer/Hip Hop) o piovute da remoti angoli dell’universo (Twinkle, My People), florilegi fiatistici e fraseggi vocali messi a nuovo (Master Teacher, Me), aggiornamenti di rhythm’n’blues (Soldier), cyberfunk sbilenco però orecchiabile con finale a cappella (The Cell). Ti imbatti in saggi di hip-hop progressista, trame ricche ma bilanciate, intarsi produttivi e perspicacia dell’insieme e, a ribadire il senso di accurata progettualità, un hip-soul di classe come Honey viene sistemato in coda a mo’ di arcobaleno dopo la tempesta. Ora come allora, l’anima latita nel soul odierno se non è di valenti revivalisti e vecchi leoni che parliamo. Qui, invece, il gioco ha un altro nome: un nome che appartiene al classico capolavoro che cresce negli anni. Black is beautiful, oggi più che mai.

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Lou Bond, un Tim Buckley nero

L’avrete fatto anche voi il giochino del “chissà”, vero? Chissà come avrebbero suonato i led Zeppelin con Terry Reid al posto di Robert Plant, chissà se Buddy Holly non fosse salito su quell’aeroplano e via immaginando. La chiave del what if sta nel fascino di infiniti mondi paralleli che possono aprirsi – purtroppo solo nella nostra fantasia – istigando le ipotesi più curiose e, sempre nella nostra testa, riparare i torti del destino. A volte anche nel nostro mondo si aprono dimensioni parallele, benché siano in pochi ad accorgersene. Se, per esempio, proviamo a fantasticare su un Tim Buckley d’ebano riceviamo in cambio un podio di soli vincitori: Terry Callier, Eugene McDaniels, Lou Bond. Avendo già riferito del secondo e in attesa di misurarmi con il primo, è di Bond che vado a raccontarvi per sommi capi.

Ricordo distintamente la sorpresa e lo stupore quando, una dozzina di anni fa, la Light In The Attic ristampò quell’album omonimo dalla copertina bella e significativa. Un uomo, la chitarra in spalla e un alone di fitto mistero. Uscito originariamente nel 1974, l’unico LP pubblicato da Lou era rimasto per trentasei anni materia di sampling e collezionismo. Perduto e sconosciuto, a farla breve. Eppure si tratta di un capolavoro dove sfilano sei gioielli di souledelia dilata e venata folk che profumano di eternità nel mentre restituiscono in pieno il disorientamento e il pessimismo di metà anni ‘70. Una meraviglia, perché l’artefice non volle decidere tra folk e soul, preferendo colmare gli spazi tra gli stili e le emozioni fondendo atmosfere agresti però urbane e tematiche sociopolitiche, archi lanciati verso un cielo pop, fiati che rammentano che laggiù c’è l’inferno. Troppo strano? Troppo bello, semmai.

Dura la vita di Lou – dal 1945, per l’anagrafe Ronald Edward Lewis – da quando i genitori si separano e lui, piccolissimo, viene affidato a una sequela di famiglie religiose. Conseguenza ne è che si formi sul gospel pur ascoltando parecchio country alla radio e, undicenne, convinca un operatore sociale a regalargli una chitarra. Impara a cavarci canzoni, se ne va a zonzo per l’America e, tra una peregrinazione e l’altra, entra nel business musicale grazie all’amico Bobby Miller. Nei medi Sessanta pubblica un paio di 45 giri che i fan di Northern soul custodiscono in cassaforte ed è autore per la Chess. Inquieto, fa la spola tra Chicago, New York e Cleveland tornando nella natia Memphis nel ‘71.

Adesso è un hippie nero visionario e flessuoso come una pantera, suona nei locali cittadini e si offre alla We Produce – marchio parallelo della Stax – ed ecco. Ecco una fusione di folk protestatario, soul orchestrale, stordimento stralunato e poetico. Ecco l’ugola lanciarsi in un caloroso raspare e in falsetti da pelle d’oca. Ecco la peculiarità imporsi nella Lucky Me di Jimmy Webb che accarezza il blues con gli archi alternando uggia e sorrisi, in un’autografa Why Must Our Eyes Always Be Turned Backwards che accusa con uno svagato tono Philly Sound, nell’elegia stranita un po’ alla Arthur Lee – ma farina del sacco di Bill Withers – di Let Me Into Your Life, in una That’s The Way I’ve Always Heard It Should Be che cava un avvolgente groove pop da Carly Simon. Ciò nonostante, è a suggello delle facciate che il navigatore di stelle osservate dal ghetto sistema gli apici: To The Establishment dipana una fluviale, agrodolce invettiva lungo tese galassie dell’anima approdando a ipotesi gospel di Starsailor; Come On Snob intreccia l’orchestrazione perfetta a corde vocali e d’acustica, come un Blue Afternoon in transito dal pastorale all’oltremondano.

Poi tutto va a rotoli. Nonostante le recensioni positive, la promozione è inadeguata e per problemi distributivi tra Stax e CBS il vinile nei negozi si trova a fatica. Il girovago si rimette per strada e una lunga lotta contro la depressione e dipendenze assortite lascia il segno su chi vive dove capita e in condizioni spesso precarie. A fine anni Ottanta, però, Lou Bond si ripulisce ed è di nuovo a Memphis che gira in bicicletta e si esibisce saltuariamente. Tre anni dopo la riedizione di cui sopra, ci lascia in un giorno di febbraio, splendido a sé che merita tutto l’affetto possibile. Anche se postuma, che sia fatta giustizia.  

Son House riporta tutto a casa

Prima di essere un genere musicale, il blues risiede nel profondo dell’anima. È una condizione che ereditiamo senza quasi rendercene conto finché non ci si para di fronte in tutta la sua ineluttabilità, e proprio per questo costituisce materia perfetta di/per mitologie ed epopee. Talvolta, anche di storie che piace raccontare perché sono belle e riconciliano con il mondo come quella che vi apprestate a leggere, un tassello scintillante del mosaico dove i visi pallidi si ricongiungono ai Maestri in una serie di scambi reciproci. Una vicenda molto simile alla sceneggiatura di un film che, se venisse girato, inizierebbe la sera del ventitré giugno 1964.

Un maggiolino Volkswagen rosso si ferma davanti a un condominio di Greig Street a Rochester, nello stato di New York. Dall’auto scendono tre esperti di blues al colmo dell’eccitazione. Possiamo capirli, dato che stanno per incontrare una leggenda e terminare la ricerca che dal sud li ha condotti nella contea di Monroe. A loro pare incredibile che l’uomo seduto sulle scale abbia incrociato la chitarra con Charlie Patton, e ancor più che nel ‘43 sia giunto sulle rive del lago Ontario per lavorare in fonderia, fare il cuoco e il portantino alla stazione. Adesso è lì: un pensionato quieto e distinto che li osserva, domandandosi cosa vogliano.

Si chiama Eddie James House Jr., lo conoscono come Son House ed è un gigante come i contemporanei Charley Patton e Robert Johnson, rispetto ai quali ha però avuto la fortuna di vivere dopo l’epoca d’oro del country blues prebellico. Il suo stile è un polveroso, scuro intreccio di amore e morte, di sofferenza e fede. Un lamento granuloso e ancestrale, un patrimonio culturale e umano racchiuso in canzoni che furono raccolte negli anni Trenta dalla Paramount e, un decennio e rotti più tardi, da Alan Lomax. Canzoni che potete – anzi: dovete – ascoltare e la maniera più semplice è procurarsi un CD del 2004 intitolato A Proper Introduction To Son House: Delta Blues.

Vi ruberà subito il cuore chi nasceva nel 1902 in Mississippi da un musicista col vizio dell’alcolismo. I genitori si separano che “Son” ha otto anni e già canticchia: trasloca con la madre in Louisiana, a New Orleans sposa una donna più vecchia e sgobba nella fattoria del suocero fino al 1922. Il matrimonio in frantumi, diventa pastore episcopale ma lo cacciano presto perché donnaiolo e schiavo della bottiglia. In giro a bere, vede un tizio imbracciare la chitarra, resta folgorato e se ne procura una. Chissà che non stringa anche un patto con il diavolo, considerando che entro poche settimane è sufficientemente provetto da esibirsi nei juke joint.

Qui la faccenda prende una piega sul serio romanzesca: durante uno scontro a fuoco in un locale, Son fa secco chi lo ha ferito a una gamba. Dei quindici anni ingiunti a Parchman Farm ne sconta due, dopo di che finisce a Lula, in Mississippi, diventando amico di Charley Patton e suonando con lui. Nel 1930, la Paramount chiede a Charley altri 78 giri, ascolta House e cattura nove pezzi: tranne uno, vengono pubblicati con vendite modeste e tuttavia suscitano l’entusiasmo di Alan Lomax. Nel 1941, House (frattanto rimaritatosi) guida trattori nelle piantagioni, è contattato da Alan per un paio di memorabili sessioni, poi si sposta a Rochester e chiude con la musica. Rieccoci alla sera di inizio estate nella quale Nick Perls, Phil Spiro e Dick Waterman lo incontrano. Quest’ultimo propone di tornare sulle scene offrendosi nel ruolo di manager e House, incredulo e assolutamente ignaro del suo status, accetta. C’è però un problema: da decenni non tocca lo strumento e ha persino dimenticato il repertorio. Gli comprano una National nuova di zecca e Alan Wilson – futuro fondatore dei Canned Heat – lo aiuta a rimpadronirsi del passato con pazienza e dedizione.

Ve lo dicevo che è una bella storia, no? A fine anno Son tiene concerti, incide l’imperdibile Father Of The Folk Blues e appare su “Newsweek”. Nel circuito dei festival folk e delle università, uno che mai si era esibito per i bianchi (si) racconta e, senza saperlo, srotola un cordone ombelicale fino all’oggi. Fino a Forever On My Mind, disco che recupera una delle suddette esibizioni uscito lo scorso marzo su Easy Eye Sound, l’etichetta gestita da Dan Auerbach dei Black Keys. Siate grati a lui e a Waterman, che all’epoca metteva da parte i nastri dei concerti che ha infine deciso di rendere pubblici. Da ammiratore del bluesman, Auerbach ha svolto il compito con competenza, ripulendo le bobine di uno spettacolo tenuto in Indiana di fronte a una cinquantina di riverenti testimoni. Un pugno di classici assoluti in un’atmosfera intima e vibrante, provi i brividi di quando sei al cospetto della storia, dell’arte e del loro reciproco inseguirsi e svelarsi. Privo di qualsiasi filtro, è cinéma vérité sonoro da avere senza “se” e “ma”. Perché qui non troverete l’anima di un uomo, ma quella che appartiene a tutti noi. Troverete una voce vicina più presente che mai. E così sia.

Soul of a man: Syl Johnson

Non è colpa mia. Mica sono uno iettatore, che vi credete: “sfortuna” è solo un nome che usiamo per esorcizzare gli scherzi del destino. Però, sentite qui: alla fine dello scorso mese mi accingevo a programmare una nuova serie del blog dedicata alla musica nera, che ho chiamato “Soul Shots” prendendo in prestito il titolo di una collana di antologie tematiche edite dalla Rhino nei tardi Ottanta. Come primo pezzo (in realtà terzo, essendo gli altri “retroattivi”) avevo deciso di spendermi su un nome che non si cita molto spesso. Mentre buttavo giù appunti e riascoltavo dischi, Syl Johnson lasciava questa terra all’età di anni ottantacinque a breve distanza dal fratello maggiore Jimmy, bluesman di vaglia. Mi è tornato in mente il periodo in cui scrissi di Vic Chesnutt e Alex Chilton e loro morirono poco dopo. Ho ricordato le affettuose prese in giro del direttore Federico Guglielmi e dei colleghi di “Extra” e de “Il Mucchio”.  

Tuttavia la sfiga non esiste eccetera eccetera. È la vita che è così: un blues che componiamo ogni giorno, una nota alla volta, e lungo il percorso saltano fuori faccende che non sai spiegare. Venendo al punto, se l’universo black è per voi una passione, saprete chi è Syl Johnson. In caso contrario, per spiegarlo al volo basta la canzone che nel 1970 lo consegnava alla storia: Is It Because I’m Black? Scritta riflettendo su secoli di angherie dell’uomo bianco, è un manifesto di orgogliosa, profonda disperazione che a tratti apre un barlume di rivalsa e speranza; sette minuti e mezzo di soul immerso in cupe acque blues che afferrano il cuore e non lo mollano più, la ritmica di una fissità che ti avvolge, le chitarre che sferzano meste oppure scorticano l’anima, una voce che appartiene a ogni nero che soffre. Da sempre, ma non per sempre.

A un indimenticabile capolavoro riletto da Ken Boothe e campionato dal Wu-Tang Clan, Sylvester Thompson non arriva di punto in bianco. Nato nel 1938 (ma altre fonti dicono due anni prima) a Holly Springs, Mississippi, trasloca con la numerosa famiglia a Chicago, seguendo il padre che ha mollato i campi di cotone per la fabbrica. Siamo nel 1950: il vicino di casa è un tredicenne che passa le giornate in veranda suonando la chitarra, il suo nome è Sam Maghett e sarà noto come Magic Sam. Anche il nostro ragazzo suona la chitarra, entrando nel giro blues cittadino come Jimmy e un altro fratello bassista, Mack. Grazie a Shakey Jake Harris, zio del Magico Sam, dal ’55 è richiestissimo e appare al fianco di Junior Wells, Howlin’ Wolf, Jimmy Reed e molti altri.

Durante una session per la Vee-Jay gli offrono di incidere da solista. Syl torna a casa, scrive un paio di brani e confeziona un demo in una di quelle cabine per registrare la voce su vinile all’epoca ancora popolari. Quando è sull’autobus, per strada l’occhio gli cade sugli uffici della King. Qualcosa gli dice di scendere alla fermata più vicina e offrire il vinile a Ralph Bass. Questi lo ascolta e chiama il suo capo Syd Nathan a Cincinnati. Ragazzo, hai un contratto discografico, però devi cambiare nome e voilà. Nel triennio 1959-1962 incide quattordici facciate per la sussidiaria Federal, ma non si smuove granché fino al ’67 e all’approdo alla Twilight, che cambia nome in Twi-night tenendo a battesimo due LP e una manciata di singoli.

Il Syl Johnson imprescindibile – soulman di stampo sudista, eppure innegabilmente urbano – sta lì e più che altrove nella raccolta Charly del 1993 Is It Because I’m Black?. Sta ovviamente nel brano omonimo e nella pepita stile Stax della malandrina Dresses Too Short, nel James Brown relativamente rilassato di Different Strokes e nella travolgente hit Come On Sock It To Me, nel dilatato funk metropolitano Right On e in quello viceversa sinuoso e trapunto di ottoni Walk A Mile In My Shoes. Ci trovate un’esuberanza a mezza via tra Otis Redding e Mr. Dynamite (Going To The Shack, Get Ready, I Feel An Urge), seduzione ribalda con impresso sopra il marchio “made in Memphis” (Same Kind Of Thing), anticipazioni del miele di Philly (One Way Ticket To Nowhere, Kiss by Kiss, Thank You Baby), funk che non fa prigionieri (I’ll Take Care Of Homework), cartoline spedite a Curtis Mayfield (Concrete Reservation) e a Isaac Hayes (I’m Talkin’ ‘Bout Freedom). Un ben di dio, insomma.

Nel frattempo ha preso corpo un rapporto di amicizia e collaborazione con Willie Mitchell, che occasionalmente ha spedito Syl in studio con la house band che ascolteremo nei dischi di Al Green. Naturale che nel ’71 l’artista si accasi alla Hi, centrando di lì a quattro anni un bel successo con Take Me To the River, straclassico vergato da un Green in bilico tra sacralità e sensualità assieme a Mabon Hodges. Di quel periodo costituisce un buon compendio l’esplicativa The A Sides, laddove negli anni Ottanta Johnson pubblica per il suo marchio Shama, apre una catena di ristoranti e la nazione hip-hop campiona a più riprese Different Strokes. Nel 1992 Syl viene a saperlo, intenta e vince cause per i diritti d’autore, torna a incidere. Quieti anni, gli ultimi sono illuminati dal box antologico The Complete Mythology e dal documentario Syl Johnson: Any Way the Wind Blows e il resto è cronaca. A contare, in ogni caso, è la storia dell’anima di un uomo. Perché se l’anima di qualsiasi uomo ha un colore, quello è il blu. Altrimenti, qualcosa di più scuro.

L’apocalisse secondo Eugene McDaniels

Negli Stati Uniti, il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta porta con sé un senso di sconfitta più profondo che altrove. L’establishment ha spazzato via i sogni di una generazione, “Tricky Dicky” Nixon siede alla Casa Bianca e la controcultura è in ritirata. Se i bianchi si rifugiano nel privato, i Fratelli oppongono una ricerca di identità che mescola mitologia, storia, utopia e cinismo. La musica si adegua, passando da un soul progressivamente inaciditosi al funk metropolitano. Sly Stone informa che una rivolta è in corso e un altro Maestro che l’America divora la propria gioventù. Tempi tribolati finiscono per produrre Arte suprema, siccome Classici del calibro di Shaft, Curtis e Cosmic Slop rappresentano solo la punta di un iceberg d’ebano sotto il quale trovi tanti altri dischi strepitosi e vicende che sono romanzi. Vicende che raccontano il popolo – concedetemi un’ultima citazione – più scuro del blu(es).

Sentite qui: addirittura Spiro Agnew in persona telefonò all’Atlantic per imporre il ritiro di Headless Heroes Of The Apocalypse dai negozi a causa dei testi. Presumendo che nell’intelligence lavorasse gente assai “hip”, sarebbe divertente avere una foto del vicepresidente americano intento ad ascoltare Eugene McDaniels… Ovvio che tutto ciò affossava un LP divenuto di culto e una fonte di sampling per la nazione hip-hop, così che i vinili d’epoca girano a cento euro e rotti. Tranquilli: la ristampa digitale è reperibile senza problemi. E vi dico anche che a questa gemma in tutti i sensi oscura non potete rinunciare se amate Curtis Mayfield, Funkadelic, Jimi Hendrix e… Tim Buckley.

gene

Non sbucava dal nulla, Eugene, e la sua parabola artistica segue in buona parte l’evoluzione della black music. Nato a Kansas City nel 1935, cresce a Omaha (Nebraska) cantando in chiesa e imparando sax e tromba. Da adolescente, “Gene” mette su un gruppo vocale e frequenta il conservatorio, ma a un certo punto va con i Mississippi Piney Woods Singers in California e decide di stabilirsi colà. Assieme al Les McCann Trio frequenta i jazz club, firma per la Liberty e due singoli e un album cadono nel vuoto. La svolta giunge a inizio ’61 grazie al produttore Snuff Garrett: ispirata a Jackie Wilson, A Hundred Pounds Of Clay raggiunge il terzo posto di “Billboard”. Un bel colpo, tuttavia le uscite seguenti pagano pegno eccetto Tower Of Strength, scritta con Burt Bacharach e planata alla quinta piazza.

McDaniels inanella altri hit minori finché a metà decennio il suo stile vocale inizia a essere superato; inefficace un passaggio alla Columbia, in seguito all’assassinio di Martin Luther King si stabilisce in Scandinavia. Scrive, matura una coscienza civile e rientra in madrepatria a fine anni ’60. Nel fosco quadro di cui sopra, l’artista che ora si fa chiamare “The Left Rev. Mc D” spunta un contratto con la Atlantic e nel febbraio 1970 Outlaw porge un soul-rock a bagno in funk e jazz, in country e stramberie che è buona prova tecnica di capolavoro. Entro dodici mesi Headless Heroes Of The Apocalypse (non) consegna l’uomo agli annali, perfezionando la commistione tra generi e insistendo su una critica sociale lucida ma pure poetica, umoristica.

apocalypse

Una copertina inquietante e la dedica all’amica Roberta Flack sono facce complementari di questo genio bizzarro, attorniato da strumentisti di rango – sensazionale la ritmica Miroslav Vitous/Alphonse Mouzon, cortesia dei Weather Report – e abile nel tramutare palesi riferimenti in qualcosa di inclassificabile. Lungo una quarantina scarsa di minuti sfilano The Lord Is Back, gioiello indeciso tra Curtis Mayfield e Jimi Hendrix, il sinuoso post-gospel Jagger The Dagger cosa sola di Dr. John e George Clinton, le Lovin’ Man e Headless Heroes che asciugano Isaac Hayes all’osso conservando swing e sensualità. Susan Jane apre una benvenuta oasi folk in (acid) jazz che la felpata però tesa Freedom Death Dance spedisce dalle parti di Fred Neil e Buckley padre; Supermarket Blues ipotizza un nervoso Bob Dylan alle prese col funk e The Parasite (For Buffy) chiude con una fluviale ballata dalla coda free.

Non resta molto altro da dire, tranne che il diktat governativo – ehi, Spike Lee, hai mai pensato di girarci un film? – segna il defilarsi di Eugene. Il quale scrive e produce conto terzi, è campionato da Beastie Boys, A Tribe Called Quest e Organized Konfusion e nell’estate 2011 si spegne sereno, circondato dall’affetto della terza moglie e di sei figli nel buen retiro del Maine. Sia gloria a chi con largo anticipo disegnò l’apocalisse oggi tra noi.

La predicatrice Lyn Collins

Quasi un anno di blog e con stupore mi accorgo di non aver ancora scritto di black. Materia per la quale nutro un amore sempiterno che si spinge oltre la sublime bellezza della musica, siccome i dischi e l’esistenza si intrecciano qui più profondamente che altrove, rappresentando la colonna sonora di gioie e dolori, di redenzioni e cadute, di lacrime e risate che appartengono a un intero popolo. I fatti, sovente, finiscono per diventare tasselli di un romanzo fiume, di una mitografia che in realtà è desiderio di fuga da una vita grama. Magari da ingiustizie perpetrate da un Fato che ti strappa dal mondo quando iniziavano a giungere i dovuti riconoscimenti. Amen.

Domanda da “Rock Trivia”: cos’hanno in comune Bruce Springsteen e Ludacris? Faraonici conti in banca esclusi, entrambi si sono avvalsi di un campionamento di Lyn Collins. Di chi? Tranquilli, l’avete ascoltata di sicuro. Chiedete ai Twenty 4 Seven da dove hanno pescato il campionamento del tormentone trash I Can’t Stand It, oppure su cosa Rob Base e DJ E-Z Rock hanno costruito It Takes Two. Fate anche un paio di domandine a Snoop Dogg, LL Cool J, EPMD, Eric B. & Rakim, Big Daddy Kane, Jay Z, Nas, Public Enemy… Per caso, è la vostra mascella quella che tonfa sul pavimento? Pronti a vederla cadere altre volte?

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Gloria Lavern Collins nasce in Texas nel giugno 1948 e inizia la carriera a quattordici anni. Non è granché più vecchia quando sposa un promoter locale che nel ’68 spedisce un demo a James Brown, ricevendo in risposta l’invito a sostituire la dimissionaria Marva Whitney nella sua live band. L’abilità nel cogliere l’attimo fa il resto: rientrata Vicki Anderson a corte, Lyn è spedita in Georgia a registrare qualcosa. Dei cinque brani messi su nastro a febbraio ‘71, una Wheel Of Life robustamente degna di Aretha Franklin e il post doo-wop Just Won’t Do Right appaiono su un 45 giri della People, marchio voluto da James con la distribuzione Polydor. Frattanto anche Vicki lascia e sul palco si libera il posto di favorita. Degli anni colà trascorsi, Madame Collins dirà: “Avrei preferito gridare meno e cantare di più.” Metto su Think (About It) in un vinile planatomi in casa intonso dal 1972 e vi dico che per me quel tempo fu speso benissimo.

La voce di gola piena da chiesa traslocata nei vicoli che le valse il soprannome “female preacher” è travolgente, perfettamente saldata alle trame stese dai J.B.’s comandati a bacchetta dal Padrino Soul, infaticabile che stampa l’album, siede in regia e qui e là canticchia. In apertura la title-track ostenta la propria statura di classico, scheletrico – però possente, elegantissimo – funk “femminista” arrampicatosi alla nona piazza della classifica errebì di “Billboard”. Non da meno il resto, dal recupero integrale del succitato singolo all’emozionante ed emozionato slow Women’s Lib, da una bacharachiana Reach Out For Me morbida il giusto a riletture di Ain’t No Sunshine (suprema l’intensità della performance vocale) e Never Gonna Give You Up e una serrata Things Got To Get Better. Dopo la chiusa irruenta ma al contempo stilosa di Fly Me To The Moon, a mo’ di ipotetico bonus piazzo il 7” coevo dove Me And My Baby Got A Good Thing Going e I’ll Never Let You Break My Heart Again dispensano brio e groove.

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Oltre la ferrea disciplina e l’appropriarsi di brani non composti da lui, il Signor Dinamite suole anche stipendiare l’entourage con (belle, per l’epoca) cifre fisse. La ragazza vede pochi frutti del successo ma resta comunque in squadra, risplendendo a fianco del boss nella Mama Feelgood custodita in Black Caesar e nel duetto What My Baby Needs Now Is A Little More Loving. Nel ’75 l’ottimo Come Check Me Out If You Don’t Know Me By Now replica tra soul sudista e “made in Philly”, ballate e sexy funk.

Poi basta. Lyn si stabilisce a Los Angeles, tira su due figli e presta la voce a Dionne Warwick, Rod Stewart, Al Green. Negli Ottanta canta per la televisione e il cinema finché, in chiusura al decennio, l’etichetta belga ARS la riporta davanti a un microfono per la danzabile Shout. Quando Rob Base e E-Z Rock colgono il successone di cui sopra, si scatena il sampling: la Predicatrice diventa la donna più campionata dell’hip-hop e nel ’93 è ospite della stellina dancehall Patra nella cover di Think (About It). Il nuovo millennio porta prestigiosi palcoscenici europei e pensi che infine sia ora della gloria. Poiché nulla è così cinicamente, sommamente figlio di troia come il destino, un’aritmia cardiaca stronca la Collins nel marzo del 2005. Aveva cinquantasei anni.