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Da costa a costa, la febbre di David Wiffen

Passami la bottiglia. Dammela. Ci sono un sacco di ragioni per svuotarla. Lenire il dolore, forse persino uccidermi. Giù un altro, vai.” Nella sua fredda lucidità, è un ritratto impietoso che oscilla tra l’ammissione di colpa e la rassegnazione di quando non ne puoi più e l’unica cosa che vorresti dire è “basta”. Ti aspetti che chi ha scritto queste parole (sistemandole su una musica al contrario briosa) abbia alle spalle una vita di cadute. Invece, More Often Than Not David Wiffen l’ha pubblicata poco prima di compiere trent’anni. Si trova su un album omonimo – secondo in ordine di pubblicazione, primo a essere stato registrato in studio – che poggia mezz’oretta di country e folk su una penna raffinata, sonorità elaborate e il baritono di David. Cercatelo, se amate Lee Hazlewood e Fred Neil.

Fuori nel 1971, non va da nessuna parte e l’artefice resterà un culto nonostante le riletture di Tom Rush e Byrds, di Jerry Jeff Walker e Ian & Sylvia, di Eric Andersen e persino Harry Belafonte. Più recentemente Cowboy Junkies, Jayhawks e Rich Robinson hanno omaggiato un talento consegnatosi in un (mica tanto) piccolo capolavoro di quella che oggi chiamiamo Americana. Citato nel novero de songwriter canadesi, in realtà David è nato in Inghilterra nel 1942 e ha attraversato l’Atlantico a sedici anni, dopo alcuni traslochi che dalla fattoria della zia – dove cresce con la madre mentre il babbo ingegnere è al fronte – lo hanno portato a Claygate. A scuola milita in un gruppo skiffle e in Canada bazzica le caffetterie del folk revival, spostandosi con l’autostop a Toronto, Edmonton, Calgary.

Da costa a costa, debutta su disco a Vancouver nel 1965 in circostanze singolari: lo invitano a una compilation dal vivo, il giorno dell’incisione è l’unico a presentarsi ed ecco un David Wiffen At The Bunkhouse Coffeehouse, Vancouver BC del quale non si accorge nessuno. Cambiati i tempi, gioca la carta del gruppo: combinano poco i Pacers, ma tramite i Children diventa amico di Bruce Cockburn e Richard Patterson. Li rincontra nei Three’s a Crowd, che nel ’68 consegnano un passabile pastiche di acid-folk barocco e sunshine pop in Christophers Movie Matinee, poi attraversano una serie di vicissitudini e rimpasti fino allo scioglimento. Mentre lotta contro l’alcool, David continua a esibirsi e nel ‘71 spunta un contratto con la Fantasy. Il resto lo sapete.

Anzi, no: due anni dopo il Nostro cala l’asso Coast To Coast Fever anche grazie alla United Artists e al valore aggiunto di Cockburn, che produce e maneggia le chitarre. Sulla copertina delle successive ristampe del disco, David è mollemente adagiato su una sedia, come un cowboy che riposa dopo un lungo viaggio. Adeguatamente oppiacee e rilassate, le atmosfere mescolano country, folk e rock dentro l’alone di stordimento dei primi anni Settanta, allorché la controcultura si allontana dalla realtà mentre torna alla tradizione con il senno del poi. Oltre a ciò, Coast To Coast Fever brilla per il concept implicitamente autobiografico e arrangiamenti asciutti ma attenti al dettaglio. Soprattutto per le canzoni: svelte a imprimersi e preziose di un timbro da crooner in blue(s) che le avvolge di malinconia crepuscolare e allo stesso tempo terrigna, virile, pure un po’ svagata.

Non rinunci a nulla, qui: non a favolose ipotesi di un James Taylor rustico (White Lines, scritta da Willie P. Bennett; il florilegio acustico Climb The Stairs), non alla sognante Skybound Station dall’incedere torpidamente folk-rock che, tra corde e percussioni, apre una vena di gospel bianco, non al Lucifer’s Blues attraversato da un sax soul che sul finale osa un’impennata jazz. Altrove, il caracollare e la slide della Up On The Hillside offerta da Cockburn ricordano Beggars Banquet, episodi pianistici come la vibrante You Need A New Lover Now cortesia di Murray McLauchlan e il commiato Full Circle – qualcosa di David Ackles, nel suo dramma trattenuto – non sfigurerebbero sui primi lavori di Jackson Browne e nei solchi del coevo Closing Time, la raccolta amarezza di Smoke Rings e una meditativa We Have Had Some Good Times stendono un ponte tra l’autore di The Dolphins e il Terry Reid di River.

E poi? Poi quella bellezza se la filano in quattro gatti. Wiffen si ritira guadagnandosi da vivere come autista e, vinta la battaglia contro l’alcolismo, nel 1999 ricompare con il discreto South Of Somewhere e nel 2015 recupera in Songs From The Lost And Found vecchi brani che credeva perduti. Da poco ha tagliato il traguardo degli ottant’anni e gli auguro tutto il bene possibile. Sappia che la sua febbre era buona e qualche cuore lo ha scaldato. Grazie infinite, amico.  

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Brividi e mal di pancia in pillole, 3

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You (4AD)

In un’epoca complicata come questa è fondamentale permettere a un gruppo di crescere senza caricarlo di ruoli che spesso finisce col rifiutare. Diciamolo: il rock non ha bisogno di salvatori e, come ogni altra forma d’arte, è vivo e vegeto anche se ha conosciuto giorni migliori. Ma del resto neppure noi stiamo una favola, dunque… Venendo al punto, se nel 2019 Two Hands segnava un notevole progresso per l’idea di Americana osservata con lenti post-indie della formazione guidata da Adrianne Lenker, adesso si coronano ambizioni e tragitto con un disco “importante”. Alla faccia dell’ascolta-e-getta, vi sfilano venti brani – su un totale di quarantacinque, registrati in diversi momenti e località degli Stati Uniti – per qualcosa che possiede i crismi della summa estetica.

Mi piace credere che il fervore creativo sia servito a impedire a un mondo prossimo al tracollo di intromettersi, perché la bellezza ci salverà. Forse. Di certo tiene viva la speranza e rende migliori i giorni. Cosa della quale i Big Thief sono consapevoli e lo stesso dicasi per le dinamiche umane che intrecciano al talento e per una maturazione da applaudire. Mai un momento fiacco o di routine in un lavoro compatto e allo stesso tempo policromo da centellinare con pazienza, così che la segnalazione di questo o quel brano è legata all’umore del momento. Oggi – domani chissà – scelgo le Throwing Muses alle prese con la ballata country in Change e una dolceamara Certainty, la robusta circolarità di Little Things e il moderno madrigale Heavy Bend, il nightmare pop di Blurred View e l’agreste Red Moon, la leggiadra No Reason e l’acusticheria Promise Is A Pendulum. Ora tocca a voi: spegnete tv, computer, telefono e fatevi accarezzare l’anima quanto più spesso potete. Ne vale davvero la pena.

Elvis Costello – The Boy Named If (EMI)

Elvis Costello è un Genio dall’inarrestabile logorrea e di questo suo piccolo difetto è al corrente, se in tempi ormai lontani – si era alla metà degli anni Ottanta – ammetteva pubblicamente di aver scritto troppe canzoni. Considerate che da allora Declan Patrick Aloysius Macmanus non se n’è stato con le mani in mano (anzi…) e traete le vostre conclusioni. In attesa che consegni un equivalente di Time Out Of Mind, quattro anni or sono mancava di pochissimo il bersaglio con il pop insieme solido e ricercato di Look Now. Stilisticamente più vario benché inferiore sotto il profilo compositivo, The Boy Named If si assesta comunque una tacca sopra quel Hey Clockface uscito nell’esatto mezzo, inscenando un sofisticato gioco di riferimenti a momenti specifici della carriera costelliana e della storia del rock.

Giusto per gettare sul piatto qualche nome, ecco gli Who e il Sir Douglas Quintet stabilire le coordinate per This Year’s Model, un Tom Waits ammorbidito presiedere alla policroma eccentricità di Spike, certi echi di soul dagli occhi blu rimandare a Punch The Clock, il pop barocco però minimale ricordarci che Imperial Bedroom è un capolavoro senza età. Tolte alcune lungaggini e l’inevitabile pizzico di mestiere, dalla girandola di (auto)citazioni emergono la malinconia della pianistica Paint The Red Rose Blue e del commiato Mr. Crescent, una title-track articolata e vigorosa, la marcetta tra New Orleans e la Londra del 1967 The Man You Love To Hate, l’orecchiabile tambureggiamento The Death Of Magic Thinking, una Penelope Halfpenny argutamente, sfacciatamente à la McCartney. Nonostante l’iperproduzione e gli esercizi di stile, il Signor McManus è uno che le canzoni sa scriverle eccome. Cosa buona e giusta tenerlo a mente.

Jake Xerxes Fussell – Good And Green Again (Paradise Of Bachelors)

Sempre un momento importante quello in cui decidi di camminare con le tue gambe. Un frangente dove trovi chi agisce d’istinto, chi soppesa e chi sente che è ora. Esempio recente Jake Xerxes Fussell: tre gli album prima di concedere una parca manciata di brani autografi, perché come accade nella pittura giapponese anche qui si diventa artisti dopo un processo di imitazione. In realtà, si tratta di una rispettosa e approfondita indagine di modelli, che vengono studiati con passione onde afferrarne i segreti e l’essenza. Per questo il chitarrista – e da oggi anche songwriter – del North Carolina ha affrontato le radici sul campo andando dritto alla fonte. Da bravo figlio di musicologi, ha seguito le orme dei genitori ma anche dell’enciclopedia vivente Ry Cooder, perché nella musica popolare non vi è inchiostro che non derivi dalla mescolanza di altri che lo hanno preceduto.

Di conseguenza, in Good And Green Again l’antiquariato sonoro finisce allorché si soffia via la polvere da manufatti preziosi per raccontare l’attualità: il passato non serve da semplice paravento, ma viene intrecciato con abilità stando alla giusta distanza cronologica. Parlano chiaro una splendida The Golden Willow Tree che si riallaccia alla tradizione albionica, la pacatezza vocale con qualcosa di Jim O’Rourke nel tono che canta storie e dipana emozioni, le atmosfere in prevalenza avvolgenti, gli intrecci elettroacustici, le misurate decorazioni degli arrangiamenti. Tutto classico però mai scontato o banale in una scaletta scintillante, che si impone alla distanza vantando altri apici nel delicato traditional Carriebelle e nel favoloso commiato Washington. Musica perfetta per attraversare l’inverno e, magari, spingersi già verso le classifiche di fine anno. Grazie, brother Jake.

John (Hammond) canta Tom (Waits)

I dischi preferiti di ognuno sono indiscutibili come i piaceri personali. Vanno al di là dell’oggettività perché sono pezzi di anima, amici arrivati in un momento particolare che da allora tengono compagnia, esaltano, commuovono, fanno incazzare. Ognuno ha il proprio club, e sai che belle sorprese quando leggi le liste altrui, ché nella musica – come nella vita – c’è sempre da imparare. Nel mio circolo, dal 2001 tengo sempre lucida la poltrona di Wicked Grin, perché possiede una magia che di Tom Waits preleva lo spirito e adatta le (de)forme con l’abilità del sarto alle prese con stoffe pregiatissime. In Wicked Grin John Hammond rischia grosso, poiché rilegge canzoni pescate dal repertorio Island e dintorni, ovvero da un’epocale scavo tra le ossa del blues per incastrarci polka, tango, Kurt Weill, Captain Beefheart, rose e polvere da sparo. Fedele alla propria vocazione di interprete, come già con i padri delle dodici battute cava dai jeans qualcosa che schiva e schifa le maniere laccate e le mezze misure.

Giusto così, ché l’uomo sa il fatto suo. Nato il tredici novembre del 1942 a New York, è figlio dell’omonimo talent scout della Columbia col quale non crebbe, essendosi i genitori separati che lui era piccolo. Questione di DNA l’orecchio fino, si innamora della chitarra slide alle superiori e l’illuminazione definitiva arriva durante un concerto di Jimmy Reed. Un annetto di college in Ohio e addio libri, torna in città a suonare fino a notte fonda. In pieno folk revival, il ventenne è un nome di tutto rispetto che incide per la Vanguard, nel ’66 funge da intermediario tra uno sconosciuto Jimi Hendrix e Chas Chandler e infine abbraccia l’elettricità registrando con The Band, Duane Allman, Dr. John e Michael Bloomfield.

Avanti veloce all’inizio del nuovo secolo: reduce da un tris vincente di LP su Point Blank, ha un’idea meravigliosa. Prende una dozzina di gemme dal catalogo waitsiano, aggiunge il traditional gospel I Know I’ve Been Changed, chiama qualche amico – Augie Meyers, tastierista di Doug Sahm; il mago dell’armonica Charlie Musselwhite; Stephen Hodges e Larry Taylor, fidata sezione ritmica di Sua Stramberia – e poi sistema l’autore in regia. In realtà, lo lascia libero di gironzolare come un cane pastore affettuoso ma curioso che annusa, zompa e abbaia. Il bello della faccenda è che Hammond non rimane schiacciato sotto il peso di tanto ben del demonio, ma se ne appropria intrecciando una coperta ruvida e calda. Ti porta davanti a una palude che mostra quanto sia antico lo scheletro dei brani e poi ti invita a nuotarci dentro.

Fuor di metafora, è una geniale reinvenzione di invenzioni che getta sul piatto note di copertina scritte da T-Bone Burnett e l’amaro romanticismo dell’inedita Fannin’ Street, smussa le asperità vocali e schiarisce i toni senza che la profondità ci rimetta. Hammond sente ciò che canta e suona, che si tratti del John Lee Hooker sfrigolante evocato in Heartattack And Vine, ‘Til the Money Runs Out e Big Black Mariah o di cartoline scivolate dal cassetto di Walker Evans come Clap Hands, Buzz Fledderjohh e Get Behind The Mule. Nel mazzo di assi spuntano anche la flessuosa 2:19, una caracollante 16 Shells From A Thirty-Ought Six, il notturno latino Shore Leave, la spigliata Jockey Full Of Bourbon e una splendida Murder In The Red Barn, che traduce l’umore ispido di Bone Machine nel jazz noir appartenuto a Blue Valentine. Una scommessa vinta a mani basse, Wicked Grin. Un disco del cuore che pulsa come un cuore. Non serve aggiungere altro.

Brividi e mal di pancia in pillole, 2

Ryan Adams – Wednesdays (Pax-AM)

Lo so: Wednesdays era stato reso di pubblico dominio alla fine del 2020 in forma “liquida”, ma siccome per certe cose sono all’antica considero ancora valida la pubblicazione fisica, che nello specifico risale allo scorso marzo. So anche che di Ryan Adams si è disquisito parecchio in ragione di pessime vicende legate ad abusi e molestie che lo segneranno a vita con tutto quel che ne consegue sul prosieguo della sua carriera. E sono al corrente che nel frattempo Adams ha pubblicato un altro disco meno riuscito, che rappresenta il pannello centrale di una trittico rimaneggiato per i problemi di cui sopra. Annotato ciò, senza dimenticare che l’essere umano può non viaggiare alle medesime altezze dell’artista e bisogna farsene una ragione, a me è il secondo che interessa. Mi interessa dire che considero Wednesdays tra i vertici della sua vasta produzione e uno dei migliori dischi dell’anno in ambito “Americana” e dintorni. Uno dei più intensi, anche: raccolto, malinconico e tuttavia generoso di melodie e delicatezza anche quando flette i muscoli, scorre privo di cedimenti dall’iniziale I’m Sorry And I Love You dove Neil Young si crede John Lennon al suggello di morbida circolarità Dreaming You Backwards. Anche se il resto non vale meno, menzione d’obbligo anche per la Band sudista di Birmingham, il folk struggente di Mamma, la crepuscolare I’m Sorry And I Love You. Per me, basta e avanza. Soprattutto, questo è ciò che conta.

John Murry – The Stars Are God’s Bullet Holes (Submarine Cat)

Tre mani di carte e nessuna sconfitta per chi nel 2013 consegnava con The Graceless Age uno fra i dischi più struggenti del decennio. Anche all’altezza del difficile terzo album – baciato da un titolo magnifico come “le stelle sono i fori di proiettile di dio” – un quarantunenne infine sereno continua a scavare in una personale idea di cantautorato. Tuttavia non si sottrae alla regola secondo la quale l’artista felice centra il bersaglio con meno precisione: supervisionato da John Parish – misurato, il suo “tocco, ma avvertibile – il rock d’autore di Murry qui lascia entrare un po’ di luce però convince solo in parte. Ad esempio, nelle Oscar Wilde (Came Here To Make Fun Of You) e Ones + Zeros da American Music Club rilassati, nel Greg Dulli maturo evocato da Perfume & Decay, nei Lambchop dei bei tempi con coda ambient noise del gioiellino Die Kreutser Sonata, nell’alveo elettro-rock che avvolge Yer Little Black Book, nel glam da Beck sotto codeina di You Don’t Miss Me. Canzoni di buon peso che portano via metà di una scaletta completata con un breve siparietto strumentale, una discreta cover di Ordinary World e un pugno di episodi sotto l’elevata media cui siamo stati finora abituati. Ne deriva una transizione in tutti i sensi onesta per un cavallo di razza con meno lividi sull’anima ma pur sempre capace della zampata di classe. Anche se The Graceless Age era un’altra e ben più memorabile faccenda, si merita sette più e una pacca sulla spalla.

St. Vincent – Daddy’s Home (Loma Vista)

Con i dovuti distinguo, St. Vincent è diventata una versione “concreta” di Bjork. Nel senso che, senza (s)cadere nella fredda autoreferenzialità, possiede l’abilità di sorprendere restando riconoscibile e di trafficare con il pop sullo spartiacque tra innovazione e immediatezza. Lo fa con la disinvoltura di chi sette anni or sono entrava con un favoloso album omonimo – lei assisa sul trono: legittimamente – in una maturità. Una, non “la”. Perché con i camaleonti si hanno sempre delle sorprese e infatti Daddy’s Home, dichiaratamente ispirato ai primi anni Settanta, sterza verso sonorità più “organiche”. Stavolta la ragazza sorprende fingendosi convenzionale, sistemando a monte del gesto una sofferta scintilla autobiografica e tenendosi stretta la convinzione che costruirsi una personalità significa anche cucire tra loro diversi passati. Tuttavia, mentre guarda dentro e attorno a sé, per qualche motivo inciampa in episodi piuttosto opachi sotto il profilo compositivo o che hanno una certa aria da esercizio di stile. Non succede nel funk alla Bowie sotto botta colombiana di Pay Your Way In Pain, nel groove sinuoso di Down, nel gospel urbano e acidulo The Melting Of The Sun e in una manciata di apprezzabili slalom tra Prince, Beck e P.J. Harvey. Materiale sufficiente a tamponare le incertezze e confermare un talento imprendibile e imprevedibile. Un talento per il quale il futuro è sempre un ipotesi fino al prossimo ch-ch-ch-change.

Teenage Fanclub – Endless Arcade (Pema)

Quando scrive che il tempo è un bastardo, Jennifer Egan ha assolutamente ragione. Incurante di tutto, lui dà ma più che altro prende – anzi: strappa – senza chiedere il permesso. Amici, giorni, ricordi… Ecco: anni fa, ai gruppi rock non era concesso di invecchiare e loro stessi lo facevano con scarsa grazia. Nondimeno, a un certo punto i “vecchi” hanno iniziato a dare giri di pista alle nuove generazioni, per lo più incapaci di infondere vita nei loro esercizi di stile. Questi i confini entro cui si muove l’undicesimo album dei Teenage Fanclub, il primo senza il bassista Gerard Love. In quella che da sempre era una democrazia, dal punto di vista compositivo l’assenza del pilastro si palesa in toni ancor più malinconici e meditati, sui quali ha influito in buona misura anche il recente divorzio di Norman Blake. Abbassato il volume e ridimensionati i distorsori, il gusto melodico ispirato alle “quattro grandi B” – Byrds, Badfinger, Beatles, Big Star – veste un folk-rock urbano cucito da quelle armonie vocali e contrappuntato dalle tastiere del nuovo arrivato Euros Childs, già nei favolosi Gorky’s Zygotic Mynci. Forme ed esecuzione sono perfette per atmosfere crepuscolari e dolceamare che dispiegano la maturità autoriale con fare discreto e si impongono con gli ascolti. Come fossero discorsi di vecchi amici attorno al fuoco, si incamminano sulla via che porta al club dei cuori infranti. Bastardo o meno, c’è un tempo per ogni cosa.

Del Fuegos, a band of brothers

Essere consanguinei aiuta, specie se appartieni al composito universo che passa sotto il nome di “Americana”. Scorro lo scaffale e dai Felice Brothers – che come gli antesignani Everly e Louvin esplicitarono i natali comuni nella ragione sociale – risalgo ai fratelli Alvin, spina dorsale dei magnifici Blasters, e più indietro ancora ai capostipiti Fogerty. La famiglia possiede spesso una marcia in più, perché il genio è anche questione di DNA e idem la propensione a tramutarlo in armonia. A tal proposito, completo l’elenco con i Del Fuegos capitanati da Don e Warren Zanes, stelle loro malgrado mancate negli anni ‘80 fugacemente riunitisi un decennio fa con un gesto che, tra le altre cose, sapeva di sberleffo verso un successo a malapena sfiorato dal secondo album, classico di genere che incassò il plauso del Boss e dell’autore di Proud Mary.

Non per caso, siccome i ragazzi si muovevano nel solco tracciato da quei Giganti, dove pochi accordi e uno sbuffo di virile romanticismo infondono vita alla poesia del quotidiano. Singolare fino a un certo punto, quindi, che facessero base a Boston, città musicalmente ricchissima ma di norma ricordata per altro. Semmai, conferma quanto lo stile e l’attitudine blue collar siano radicati ovunque, da espressione genuina e per nulla ingenua dell’orgoglio proletario di una nazione cresciuta sull’etica del lavoro. Anche per questo il loro tradizionalismo era nuovo e benvenuto. Lo resta eccome.

Corre il 1980 quando il diciannovenne cantante/chitarrista Dan Zanes saluta la provincia del New Hampshire con il bassista Tom Lloyd e il batterista Steve Morrell. A Boston si costruiscono una reputazione e presto si rafforzano con l’altra sei corde di Warren, lo Zanes più giovane fresco di diploma. Stipati in un furgone, battono la costa occidentale, pubblicano un acerbo e autarchico 7” e rimpiazzano Morrell con Brent Giessmann. I tempi non sono favorevoli per scalare le classifiche, tuttavia permettono di mescolare le fatidiche radici in un calderone composito: Creedence e Stones, Springsteen e Petty, approccio garagista e venature rhythm’n’blues e country. Perfettamente calati in un’atmosfera urbana, i Del Fuegos scrivono quadretti di provincia appassionati come gli spettacoli live che convincono la Slash, nel catalogo della quale non sfigura affatto The Longest Day, esordio che riscalda l’autunno 1984 tramite le epidermiche Nervous And Shakey e I Should Be The One, la ribalda Backseat Nothing, una tesa Mary Don’t Change e una slanciata title track.

La produzione è nelle mani del debuttante Mitchell Froom, bravo a conservare “tiro” mentre aggiunge pennellate di tastiere e pone in risalto l’ugola roca di Dan nel Bo Diddley apocrifo di Out For A Ride, nel soul bianco Anything You Want e in quello rurale Have You Forgotten. L’esito spinge “Rolling Stone” a incensare un quartetto che tiene i piedi per terra pensando ad acquisire il pizzico di sicurezza che ancora manca. Basta poco, ché nel volgere di un anno, Boston, Mass entra dritto nel cuore e negli annali: il confermato Froom lucida con misura una scaletta immacolata dall’esplicativa Don’t Run Wild alla concitata It’s Alright passando per il fascino di Coup De Ville e le incalzanti Shame e Hand In Hand. Se Hold Us Down e Fade To Blue insieme commuovono ed esaltano, Night On The Town sistema John Mellencamp tra le pieghe di Damn The Torpedoes e i fianchi sinuosi di I Still Want You lambiscono i Top 100.

Parrebbe l’inizio dell’ascesa, anche in virtù dello spot televisivo per una nota marca di birra e il ruolo di spalla in un tour di Tom Petty. Ciò nonostante, grandi poteri e grandi responsabilità non sempre vanno d’accordo: ventiquattro mesi e Stand Up soffoca sotto arrangiamenti strabordanti e stanchezza compositiva un approfondimento del versante black sulla carta stuzzicante. Seguono la cacciata dalla Slash, il forfait di Woody e Warren e un rimpasto. Nell’89 la RCA pubblica Smoking In The Fields, calligrafia rinsavita – esemplari Move With Me Sister, Dreams Of You, No No Never – e ambienti di nuovo asciutti. Il baricentro passa dalla città alla campagna tra archi e ottoni calibrati, le Headlights e Lost Weekend in cui piano e armonica sono cortesia di Seth Justman e Magic Dick della J. Geils Band, una Stand By You che ospita Rick Danko. Non un passaggio di consegne, giacché pochi apprezzano, il decennio finisce e con esso l’avventura. Dopo lo scioglimento Dan ha proposto cose discrete con l’omonimo trio e un progetto di musica per bambini commercialmente fortunato, Warren ha messo in bacheca dischi passabili, un dottorato in arti visive e la biografia di Petty, Lloyd si è laureato in scienze ambientali e Giessmann ha fondato la Right Turn, organizzazione che combatte la dipendenza da droga e alcool.

In una bella storia in tutto e per tutto americana, sarà la miccia che accende la breve reunion: non puoi negarti a un compare per una giusta causa, ragion per cui nel giugno 2011 i Del Fuegos presenziano ai benefit bostoniani organizzati da Brent. Va così bene che visitano altre dieci città scelte per i bei ricordi, concludono il giro nella natia Concord e registrano il discreto EP di inediti Silver Star. Poi spariscono di nuovo nella vita di tutti i giorni, lasciando dietro di sé lo spirito che li ha sempre guidati e che rende indenni al tempo canzoni come non se ne scrivono quasi più. Canzoni che flettono i muscoli e accarezzano l’anima, attuali nel 1984 come nel 2012 o nel 2021 perché figlie di un’entusiastica urgenza che fonde musica e vita. Sta lì il segreto, oltre che negli affari di famiglia

Kevin Morby: a soul on the road

Come scrissi a proposito del rock’n’roll romantico Elliott Murphy, nei primi anni Settanta la caccia ai “nuovi” Dylan causò più danni della grandine. Altresì vero che il rock abbonda di gente schiacciata dai propri modelli, talvolta immeritatamente e per prevenzione di chi ascolta ma nella maggioranza dei casi per mera mediocrità. La popular music in sostanza è un’arena dove chiunque inizia “facendo come” qualcun altro e, per selezione naturale, i migliori a un certo punto fanno come se stessi. Ecco: Kevin Morby sta un po’ nel mezzo, tuttavia pare indirizzato sulla strada giusta.

Talento di provincia ispirato dal nomadismo insito nella cultura statunitense, è uno sradicato (il padre lavorava per la General Motors, portandosi dietro la famiglia nei tanti spostamenti) che ha imparato presto a contare su di sé, sviluppando l’introspezione che a un cantautore torna sempre utile. Quasi fosse segnato dal destino, nasceva in quella Lubbock trentuno anni fa e, dopo un lungo vagare per il Midwest, approdava a Kansas City; diciottenne, si trasferiva a Brooklyn e quattro calendari dopo imbracciava il basso per i Woods e fondava i Babies con Cassie Ramone delle Vivian Girls.

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Tutte prove tecniche per il salto col quale nel 2013 lasciava anche la Grande Mela per L.A. tuffandosi nel frattempo anche dentro il pozzo della tradizione. Quando usciva allo scoperto con Harlem River, l’omaggio alla metropoli d’adozione parlava la lingua di un songwriting confessionale ampiamente storicizzato. Nulla di male, siccome mantenendosi lontano da stilemi e fotocopie, Kevin regalava belle promesse e una gemma come la dilatata title-track. Successivamente Still Life, Singing Saw e City Music hanno sottolineato la qualità della sua Americana sospesa tra urbano e bucolico, tenebre e luci, acustico ed elettrico.

Dallo scorso aprile, in tale contesto Oh My God segna un altro passo disinvolto e sicuro. Di esso non respingono la natura di esplicito concept incentrato sulla religione – in realtà si tratta di un senso di spiritualità interiore – né una copertina un po’ così. A svelarne la natura contribuisce la scintilla a monte: nel gennaio 2017, il sodale Sam Cohen suggeriva a Morby sonorità policrome però più del solito minimali. Raccolta la sfida, il disco veniva terminato entro altri dodici mesi.

KM

Il rimettersi in gioco e la calma si sono di conseguenza saldate alla maturità in un lavoro che maneggia il suono americano – ma non solo… – con la conoscenza della storia e un’acuta contaminazione. Del tipo che svecchia la classicità quel tanto che basta per cancellare gli eccessi di conservatorismo e mescolare le carte. Da qui una Seven Devils di melanconia epica prossima al Bill Fay di Life Is People, la Nothing Sacred/All Things Wild che spedisce Zimmie con le mani umide d’acquasantiera a fare già i conti con Oh Mercy, i lustrini mescolati al gospel sulla Highway 61 di OMG Rock’n’roll, una Hail Mary che dalla cantina di Big Pink ipotizza un diverso Blonde On Blonde.

Testimone una versione metropolitana di The Band, la title-track benedice l’incontro tra l’autore di Time Of The Last Persecution e Sua Bobbità, altrove rinsavito da No Halo e I Want To Be Clean. E se Piss River avvolge il cuore come una giostra al calar della sera, Savannah e Sing A Glad Song rasserenano l’artista che Ballad Of Faye ossequia nel titolo, essendo la forma un inquieto strumentale jazz. Appropriatamente, è l’elegiaco soul dell’uomo bianco O Behold a chiudere un “difficile quinto album” dove Kevin si fa notare e anche ricordare. Dati i tempi, non mi pare poco.

Quando John Hiatt cavalca da re

Avrete notato anche voi che quasi nessuno si sottrae dal rimarcare quanto la vita faccia schifo. Fossimo un filo più empatici verso le altrui sciagure, forse vedremmo certe nostre quisquilie dileguarsi come neve al sole. C’è da provarci, almeno, mentre ci nutriamo l’anima con dischi, libri e film. Pensando a Mr. John Hiatt trovo queste banali annotazioni quotidiane perfette, poiché la coppia di LP che ne rappresenta l’apice ha alle spalle un percorso drammatico. Benché di tali sofferenze rechino i segni poco più che in tralice, Bring The Family e (in misura assai minore) Slow Turning sono pura catarsi sonora e anche lì sta tanta della loro bellezza.

Una bellezza che ha consegnato al plauso di critica, colleghi e fan un nome viceversa sconosciuto al grande pubblico. Non le sue canzoni, però. Tra i tantissimi che lo hanno interpretato o riletto sfilano Bob Dylan, Eric Clapton, Willy De Ville, Bonnie Raitt, Joe Cocker, Willie Nelson, Emmylou Harris, Iggy Pop. Consideratelo un risarcimento – inclusi i meritati diritti d’autore: di sola gloria non si vive – per ciò che l’uomo nato a Indianapolis nel 1952 ha patito.

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Da bambino John perde a breve distanza un fratello maggiore suicida e il padre per malattia. Trova conforto in Presley, Cohen e Dylan come in Otis, Mississippi John Hurt e Odetta, appoggiando insomma il folk al soul e al blues e, sventuratamente, appoggiando alla bottiglia il ragazzo impacciato e grassoccio che a diciotto anni molla tutto e va a Nashville. Per venticinque dollari la settimana scriverà conto terzi duecentocinquanta brani, compresa la Sure As I’m Sitting Here nel ’74 hit dei Three Dog Night e lasciapassare per un contratto con la Epic. L’era del ghost writer termina rivelando già il destino: Hangin’ Around The Observatory e Overcoats piaciucchiano giusto alla stampa e tanti saluti.

A spasso per un lustro, Hiatt si trasferisce in California, ascolta Elvis Costello e Graham Parker, riconosce un idem sentire e raccoglie intuizioni preziose. In coda al decennio passa alla MCA, ma Slug Line e Two Bit Monsters cadono nel vuoto. Siamo al 1982: Across The Borderline, vergata con Ry Cooder e Jim Dickinson, fa sì che David Geffen lo assoldi. Pasticciato da Tony Visconti All Of A Sudden, spetta a Riding With The King (in parte supervisionato da Nick Lowe e inciso con i Rockpile) rendere una prima giustizia laddove Warming Up To The Ice Age segna la fine della corsa.

family

Il colpo è durissimo. Lasciate moglie e figlia, John prende a distruggersi con alcool e droghe e ce la farebbe di sicuro, non fosse che la consorte si uccide e qualcosa scatta. Con la piccola Lily oggi cantautrice, Hiatt torna a Nashville, si ripulisce e butta giù Canzoni intessute di autobiografia. Quando è ora di offrirle al mondo, Lowe chiama Jake Riviera della britannica Demon: stanziati trentamila verdoni, chiede a Hiatt chi desideri in studio. “Ry Cooder, Nick Lowe, Jim Keltner” la risposta e la formazione che in quattro giorni incide Bring The Family.

La passione e l’onestà confessionale di un’anima redenta, un’ugola da nero modernamente bianco e la misurata maestria dei musicisti asservono una penna in stato d’assoluta grazia, dal trascinante rhythm’n’rock Memphis In The Meantime alla sublime dichiarazione pianistica Have A Little Faith In Me, dall’acustico cantar d’amore Learning How To Love You alla Your Dad Did raffinatamente sfrontata nel citare Street Fighting Man, dalle accorate Lipstick Sunset e Stood Up alla gioia di una Thank You Girl sull’asse Stones/Creedence/Springsteen e del MacManus in combutta con Jagger e Richards per Thing Called Love, dal sinuoso Al Green candeggiato di Alone In The Dark al crepuscolo Tip Of My Tongue.

 younger hiatt

Più che canzoni, sono ritratti di un individuo che ha attraversato l’inferno, si è cucito le ferite da sé e, ragionando con maturità sul più elevato dei sentimenti, ha scolpito un capolavoro. Ovvio che il confronto con il comunque pregevole successore Slow Turning sia privo di senso. Non potendo contare sul dream team di cui sopra, Hiatt si affida all’esperto produttore Glyn Johns e ai Goners, formazione guidata dal chitarrista Sonny Landreth che lo accompagna anche sul palco. Tra oasi blues e gospel, attinge da Exile On Main Street e Willie And The Poor Boys sfumando l’urbano nell’agreste (la title-track, Drive South, Trudy And Dave) e alternando la briglia sciolta (Tennessee Plates, Ride Along) a magnifiche ballate (Icy Blue Heart, Feels Like Rain).

Il ciclo si chiude sul bello stile di Stolen Moments e il mediocre tentativo chiamato Little Village di ripetere nel 1992 l’intesa con lo studio legale Cooder, Keltner & Lowe. Da allora John ha consegnato un gruzzolo di lavori mica male e qualche zampata degna del fuoriclasse, uscendo spesso e volentieri dal suo ranch in Tennessee per suonare dal vivo. Stasera si esibirà in un giardino liberty adibito a parco pubblico che dista mezz’ora da casa mia. Sapete dove trovarmi.

Il maestro prodigo Ry Cooder

Cosa ci saremmo persi se Ryland Peter Cooder non fosse mai nato… Per attenermi all’indispensabile: un musicista poliedrico che odia i virtuosismi; un compositore di colonne sonore per lo schermo e la mente; un’enciclopedia dell’Americana dalle radici alle ali e ritorno; un infaticabile indagatore di culture. Aspetti complementari del Genio che ritrovo esplicitati o tra le righe in The Prodigal Son, lavoro fresco di stampa con i crismi del sunto di carriera. Del gesto che prova a fermare la clessidra con l’unico mezzo disponibile a un essere umano: l’Arte.

Un’Arte tanto più pura quanto più si contamina, pescando dal fluire del tempo e nel tempo accomodandosi mentre parla degli Stati Uniti, di storia e leggenda, di spiriti e spirituals. Che si tratta di un auto-compendio lo provano il ritorno del settantunenne a trascorsi metodi di registrazione e il dominio quasi assoluto sul parco strumenti, con giusto un paio di ospiti e batteria e coproduzione affidate al rampollo Joachim. Soprattutto, lo sguardo rivolto a quando iniziava a donare nuova linfa alla tradizione, trattenendone i significati e travasando la contemporaneità in una sapienza musicale assoluta.

Prodigal Son

Ora come allora, è il passato che spiega dove sta (e stiamo) andando. Lontano, vi dico, perché questi cinquanta minuti si aggiungono all’epopea di Chavez Ravine e all’Esopo traslocato nella Grande Depressione di My Name Is Buddy. Senza nulla togliere al discreto I, Flathead e completando il quadro con lo sbocciare di una rimarchevole cifra autoriale, sono un altro pugno di istantanee così antiche da essere più che mai vive.

Per loro tramite, l’uomo di Santa Monica tira le fila di una fulgida vicenda lunga più di mezzo secolo, che dai Rising Sons – via Captain Beefheart e Randy Newman, Little Feat e Van Dyke Parks e Stones – plana nel cuore di una carriera solista partita (e qui il cerchio si chiude perfetto) affrontando proprio Blind Willie Johnson e Woody Guthrie. Poi sarebbero giunti tex-mex, gospel, soul, le Hawaii, il Buena Vista Social Club, Talking Timbuktu… In giorni più vicini, un libro di racconti e l’impegno politico di Pull Up Some Dust And Sit Down ed Election Special. Tuttavia la fonte era e resta l’anima di un uomo. Il blues.

Ryland

The Prodigal Son lo inzuppa in gospel e country su consiglio di Joachim: pensate che meraviglia, figlio e padre prodighi che omaggiano altri padri scagliandoli oltre il Duemila in atmosfere che disegnano un più terrigno e solare Oh Mercy. Esemplare l’incipit Straight Street dei Pilgrim Travelers, pescato dai ’50 e rivestito di nuove corde, pelli, voci d’ebano. Una delle quali appartiene a Terry Evans, amico e fidato collaboratore scomparso di recente: eppure non è triste – virilmente melanconica, piuttosto – l’elegia tallonata dal caracollare spavaldo di Shrinking Man e da un’elettroacustica Gentrification affacciata sull’Africa sub sahariana.

Autografi sensazionali che si saldano senza cesure ai traditional (la title-track immagina John Fogerty negro ed esuberante, In His Care rasserena Tom Waits a colpi di acquasantiera) e ai brani altrui (il soul celtico You Must Unload, la chiesa traslocata in strada per I’ll Be Rested When The Roll Is Called) di cui il Maestro si appropria. Sono comunque tre i momenti che svelano l’intima essenza del disco: una cover da brividi di Nobody’s Fault But Mine che sta al Nostro come Blind Willie McTell a Dylan; Jesus And Woody, commovente folk latino e farina cooderiana della più pregiata; Everybody Ought To Treat A Stranger Right: Johnson il Cieco reso gospel swingante. Tre apici di un matrimonio tra forma e contenuto che la contemporaneità celebra molto di rado. Perché alla bisogna servono esperienza, visione, sentimento. Perché serve Ry Cooder.

Steve Earle, natural born outlaw

Non so come la vediate, ma per me era dal tributo Townes del 2009 che – escluso lo splendido I’ll Never Get Out Of This World Alive – Steve Earle temporeggiava. Alla sua maniera, certo, ovvero con classe ed estro rari e piazzando a ogni giro di giostra un fastello di brani memorabili. Tuttavia, dopo quell’incombenza (in parte gioiosa e in parte amara, incentrata com’era sul ricordo del mentore e più d’ogni altra cosa amico Townes Van Zandt) sulla lunga distanza la scintilla del fuoriclasse un po’ latitava.

Datemi del musone, però questa è casa mia e ho il diritto di cercare il pelo nell’uovo. Provo a spiegarmi meglio, comunque: assolutamente presente a sé, Steve pareva intento a ripigliare fiato dopo aver affrontato un peso massimo del canzoniere americano, come se la carica emotiva sprigionata ricordando l’Uomo di If I Needed You avesse richiesto un prezzo non dappoco. Ci sta eccome, considerate le circostanze biografiche e non che tutto ciò rappresenti una colpa. La vita va così: a volte devi seguirne il corso anche se sei nato per nuotare controcorrente.

Earle

Per questo motivo, saldato il debito, lo sguardo del Nostro si volge al passato e agli esordi da nuovo tradizionalista. Ricordandoli apertamente, quegli anni, in note interne vibranti commossa nostalgia per un’epoca perduta e per tanti compagni d’avventura che non sono più. Suono e attitudine di conseguenza sono viepiù essenziali, sistemati a reggere canzoni pulsanti l’energia del songwriter che dal popolo pesca la materia per scrivere pensando poi sempre alla “gente”.

Senza demagogia o retorica, perché si tratta di distillare un vissuto e renderlo universale, alla maniera di un Bruce Springsteen o di un John Mellencamp al top e mica è robetta, siccome dal Capolavoro Copperhead Road in poi Mr. Earle è legittimamente considerato un modello, un caposaldo di un retaggio che anche con lui si è rinnovato. Un gentiluomo nonostante tutto, costui, che bada al sodo e sotto l’aspetto da Allen Ginsberg del vecchio West qui sferza e carezza – con ugola che ha visto cose che noi umani eccetera – un mazzo di country‘n’roll sporchi e intimi come si conviene.

Outlaw

Arriva subito dritto al cuore So You Wannabe An Outlaw, aprendosi sul “bandito country numero uno” Willie Nelson che spartisce il microfono col padrone di casa nel rugginoso caracollare elettrico omonimo. Indicando senza indugio alcuno che il livello compositivo è tornato ai vertici, laddove l’universo umano resta il medesimo, a ennesima riprova che lo scrittore serio parla di ciò che meglio conosce. Ecco l’amore che tutto muove (Lookin’ For A Woman, The Girl On The Mountain) oppure si trasforma in tormento (You Broke My Heart, il duetto con Miranda Lambert This Is How It Ends), la durezza dell’esistenza (If Mama Coulda Seen Me, The Firebreak Line) e la sabbia che scorre implacabile portando via qualcuno di importante (una sublime Goodbye Michelangelo, saluto al Maestro Guy Clark saggiamente posto a suggello e, per chi scrive, seria candidata a “canzone del 2017”).

Cose bellissime intessute di stoffa che nelle giuste mani dura in eterno e, del resto, il sarto lavora con passione e vigoria, mettendoci l’anima e versando la rabbia sia nelle invettive (stupenda, la livida Fixin’ To Die da Mark Lanegan dei bei tempi) che in ingannevoli sguardi verso la luce (Walkin’ In LA). Niente trucchi, niente inganni. Felicissimo di sentirti di nuovo in forma smagliante, caro desperado.

 

Neil Young, unplugged prima di te

Quando affronti un mostro sacro i polsi tremano sempre un po’. Per timore reverenziale, certo, ma anche perché ti domandi come potranno reagire i fan oltranzisti a possibili giudizi infedeli alla linea, augurandosi che non siano tutti pseudo zappiani o spingsteeniani e cioé gente convinta di aver visto Dio. Per quanto mi riguarda, il punk ha insegnato che gli idoli non servono e i modelli invece sì. Che gli uomini sbagliano e possono redimersi. Che l’amore sarà magari cieco però di certo non è sordo.

Pertanto, spero che nessuno si offenda se affermo che nel nuovo secolo la traiettoria di Neil Young (al solito per nulla lineare: costui è sul serio un Cavallo Pazzo) è soprattutto ondivaga e offuscata. Estratto il tris di Prairie Wind, Chrome Dreams II e Psychedelic Pill da un mare di mestiere, esperimenti sfocati e inconcludenze, pare che – avvertendo lo scorrere delle lancette e a maggior ragione da che nel 2005 rischiò di rimetterci la pelle – il canadese butti fuori dischi perché il tempo stringe. Posso capirlo, eppure preferirei che pubblicasse con maggior discernimento e rispetto verso il senso del suo operato.

 Hitchhiker

Scrivo queste parole e subito mi sovviene che l’umorale Mr. Young non è un esempio di coerenza. Che gli vuoi bene anche per lo svolazzare da falena che sbatacchia contro la luce, cade e poi, rifiorita, vortica attorno a un palpitante nucleo di ispirazione partorendo Capolavori e splendori. Forse per nonno Neil il senso di cui cianciavo sopra è vivere facendo ciò che gli aggrada come gli aggrada e chi lo ama lo segua. Può darsi. Del resto parla chiaro anche la modalità un filo meno capricciosa con la quale riordina gli archivi, benché sia proprio frugando nel vortice emotivo di una gioventù già matura di ricordi che vengono a galla i Live At The Fillmore East e Live At Massey Hall 1971 capaci di mettere in secondo piano ogni magagna. Anche Pono e Americana.

Al novero delle pepite potete ora aggiungere anche le incisioni rupestri di Hitchhiker. Mezz’ora buttata giù con chitarra acustica, armonica e voce la notte dell’undici agosto 1976 agli Indigo Studios di Malibu con giusto qualche pausa per bere e fumare. Il fido Dave Briggs dall’altra parte del vetro a mixare in diretta, Neil si schiarisce la voce e, lo sguardo tagliente, snocciola un brano dietro l’altro. In realtà dialoga con se stesso e con fantasmi passati e presenti, chiedendo loro per l’appunto un… passaggio durante un momento particolarmente critico del percorso. E di quegli anni tormentati ma fertili spesi tra il buio dell’anima e la spiaggia, le composizioni incarnano l’attimo in cui inizia a scorgere la luce in fondo al tunnel.

Neil-Beach by Henry Diltz

E’ insomma una sorta di “unplugged” ante litteram e conta zero che all’epoca l’autore lo accantonasse perché a riascoltarsi si percepiva “piuttosto fuori”. Conta che l’insieme regga e che sia tornato otto volte a pescare dal pozzo magico. Segno che in quelle canzoni Young credeva: ne aveva ben donde, siccome il bianco e nero si illumina d’immenso in una Powderfinger asciutta e focalizzata sulla vicenda alla Cormac McCarthy, in una title-track di rock’n’roll acustico intessuto di brividi, nelle allucinate Pocahontas e Ride My Llama pronte per la ruggine che non dorme mai.

Annotato che sono due gli inediti assoluti (il tetro schizzo Hawaii e l’atavico, solido folk Give Me Strength), risultano lampanti i significati di una Campaigner all’epoca indirizzata a “Tricky Dicky” Nixon (oggi a Donald Trump: tutto cambia perché nulla cambi) e della Human Highway che rimugina sui brandelli di sogno americano sparsi a mulinare nel vento. Aggiungete infine il dolersi nebbioso Captain Kennedy e il pianoforte di The Old Country Waltz e vi ritroverete nelle mani pura polvere del cuore. D’oro, ovviamente.