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United States Of America: post, prima di tutto

Quando ancora i dischi uscivano soltanto in formato fisico, spulciare le note di copertina era una gioia e una fonte di illuminazione. Inoltre, scoprire chi aveva contribuito a cosa poteva rappresentare un’interessante chiave d’accesso e di interpretazione, come del resto quei ringraziamenti che talvolta “spiegavano” l’artista con disinvolta eleganza. Per tacer delle interviste e dei rimandi del critico avveduto ed esperto di turno, quello capace di cogliere allo stesso tempo l’importanza di una band e le su radici più o meno nascoste. Per esempio, quelle di gente fantastica che adoro come Stereolab, Portishead e Broadcast. Tranne gli ultimi, le assonanze con gli United States Of America mi furono evidenti solo dopo aver toccato con orecchio la ristampa Edsel uscita nel ‘97 del loro unico LP.

Non sono che alcuni, quelli citati sopra, dei tanti discepoli di nobile rango folgorati dalla meteora che solcava i cieli nel fatidico Sessantotto, si fermava alla posizione 181 di “Billboard” e non conosceva successori. A differenza di altri manufatti d’epoca, però, non è invecchiata né puoi dirla databile. Scusate se è poco e, soprattutto, scusate se ne parlo nella rubrica “culti” quando trattasi di un classico. Questioni di lana caprina, in fondo. L’importante è lodare un 33 giri splendido e lontanissimo da coordinate rock (and roll) tradizionali, le sonorità d’avanguardia poggiate su un “appassionato distacco” che ritroveremo nei nomi succitati, lo stile già post spigoloso e minimale ma benedetto da umanità e senso melodico.

In eccesso di anticipo, gli United States Of America rinunciarono alle chitarre e, partendo dalla colta contemporanea e dalla performance art, approdarono a favolose mutazioni di psichedelia. Non fu facile arrivarci, ma il percorso ricco è utile a chiarire la genesi e la natura di un peculiare punto di arrivo. Joseph Byrd nasce nel 1937 in Kentucky e cresce in Arizona, amando il jazz e padroneggiando diversi strumenti sin dall’adolescenza. Dopo la laurea ottiene un master a Stanford, conosce La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich e si trasferisce a New York, studiando con Morton Feldman e John Cage e trafficando con elettronica e arte concettuale nelle fila del movimento Fluxus. Del 1963 l’incontro con Dorothy Moskowitz, studentessa di tre anni più giovane con la quale si fidanza e per un po’ lavora alla Capitol.

Non fa per loro, così traslocano a Los Angeles per introdurre l’avanguardia alla UCLA. Fondato il New Music Workshop con il trombettista Don Ellis, il nostro uomo sfacchina sulla musica indiana e allestisce happening multimediali. In occasione di uno di essi, nel ‘65 organizza un gruppo blues attorno all’amica Linda Ronstadt: una vera epifania per chi capisce che il rock vanta notevoli possibilità esplorative e un pubblico assai ampio. Frattanto, lui e Dorothy si sono lasciati pur restando in ottimi rapporti. Quando ai primi del 1967 pongono le fondamenta del progetto, è lei a cantare come un’altera Grace Slick mentre Byrd scrive, arrangia e maneggia un arsenale di tastiere con l’anarchico collega Michael Agnello, Stuart Brotman al basso e Craig Woodson alla batteria.

A dispetto del nome provocatorio e di una bizzarra proposta è la Columbia a farsi avanti, tuttavia Agnello e Brotman se ne vanno indignati. Rimpiazzati con Gordon Marron al violino, il bassista Rand Forbes e il tastierista ospite Ed Bogas, per dare compiutezza a ciò che gli ronza in testa il capobanda commissiona al giovane Tom Oberheim un modulatore ad anello, si avvale di un antesignano del sintetizzatore, usa effetti e microfoni a contatto. L’eccentrica tavolozza e l’assenza di un background convenzionale si saldano a precise scelte estetiche garantendo originalità: un quintetto preparatissimo sotto il profilo esecutivo mescola Cage, Stockhausen, l’etnologia e l’amore di Byrd per Charles Ives, affrontando il rock contemporaneo senza pregiudizi né alterigia. Un demo risulta gradito alla Columbia e il contratto è siglato grazie anche ai buoni uffici di David Rubinson, vecchia conoscenza newyorchese che lavora colà come produttore.

Dicevo di un tragitto complicato: durante le registrazioni dell’album sorgono infatti problemi di non poco conto. Tra chi attribuisce a Joseph atteggiamenti dispotici e chi imputa a Rubinson eccessi di invadenza, tra chi vuole svoltare verso la popedelia e chi giura fedeltà all’innovazione, pare incredibile che l’esito restituisca un ciclo sonoro e tematico a tal punto coeso e affascinante. Su un telaio ritmico solido e fantasioso tastiere, violino e nastri preregistrati intrecciano trame immaginifiche sin da The American Metaphysical Circus, stranito impasto della pepperiana Mr. Kite con pianoforte ragtime e due marching band che si apre su un’ipnotica ballata e poi chiude il cerchio tornando all’inizio.

In totale armonia, agli squarci rumoristi della frenetica Hard Coming Love risponde l’estatica, cosmica dolcezza di Cloud Song, al serrato inno The Garden Of Earthly Delights ribatte il sarcastico e robotico cabaret I Won’t Leave My Wooden Wife For You, Sugar. Farina del sacco di Marron e Bogas, Where Is Yesterday è psichedelia inquieta un filo più convenzionale perfettamente integrata allo slanciato, acidulo avant-pop Coming Down, al romanticismo elegiaco di Love Song For The Dead Ché, a una Stranded In Time con la quale Marron e Bogas recapitano gustosa psichedelia britannica, alla collagistica The American Way Of Love che tutto sintetizza con mirabile articolazione. Una voce in loop ci chiede “quanto è stato divertente?” e il disco termina aprendo finestre su futuri lontani.

Il gruppo ha però i giorni contati: dissapori, tensioni e accuse sfociano nella cacciata del leader, le ferite non saranno mai rimarginate e il rompete le righe arriva nella primavera ’68. Dorothy prova vanamente a tenere in piedi la sigla e, in coda al decennio, Joseph incide un apprezzabile lavoro solistico. Da allora ha pubblicato dischi di musica tradizionale americana dell’800, composto per cinema e televisione, prodotto Jazz di Ry Cooder e insegnato. Più discreto il profilo degli altri, spiace riferire della dipartita di Forbes nel dicembre 2020 e di relazioni tuttora pessime. Stante una certa amarezza, conforta l’evidenza che il loro circo metafisico non smetterà mai di stupirci.  

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Amarcord… fragole e una cassetta

Se è vero – lo è: eccome – che abbiamo tutti un blues da piangere, è altrettanto innegabile che ognuno conservi nel ricordo il proprio big bang sonoro. Intendo il giorno in cui le cose sono cambiate. Il giorno nel quale la ‘nostra’ musica ci è entrata nella vita mettendo il resto in un angolo. Parlo del fantastico attimo in cui le canzonette alla radio, il pallone e le ragazzine che non vogliono uscire con te perché devono lavarsi i capelli spariscono in un lampo. Ogni cosa inghiottita e poi sputata via da quei pezzi di plastica nera. Eccetto i libri di scuola, per me. Perché in qualche bizzarro modo che non saprei definire, ero sicuro che avrei ritrovato brandelli e cocci e schegge del pop nella letteratura, nell’arte, nella storia.

Sapevo che Rimbaud e Shakespeare sarebbero tornati in altre forme. Perché a quindici anni e mezzo, quando nel cuore degli eighties arriva novembre, ti schiaccia contro il muro. Tu, la tua bicicletta e il liceo linguistico che costa a papà e mamma sette camice di fatica. Meno male che te la cavi bene e un domani ti sarà utile per guadagnare il pane quotidiano. Ma non solo, no. Scoprirai che l’inglese servirà a innamorarti con intensità ancor più folle di una manciata di minuti favolosi, di vite altrui che sentirai tue.

Ma dicevo: novembre. Un giorno apparentemente qualsiasi a metà di una settimana qualsiasi. Pedalo nel freddo tornando da scuola: sulla via di casa, un amico più vecchio che già frequenta la quinta in un altro istituto mi attende per darmi ciò che ho chiesto. Una Sony C90 sulla quale ha inciso la “raccolta blu” dei Beatles di proprietà del fratello. Da fonti certe avevo appreso che si trattava di un passaggio obbligato e ho sempre avuto fiducia in chi ne sa più di me. A consegna avvenuta, parcheggio in cantina e salgo le scale con una certa smania, perché chissà cosa ho nella tasca del giaccone. Un tesoro? Una delusione? Durante il pranzo guadagno tempo, come se per paura stessi rinviando il momento.

A un certo punto mi butto. Nella cameretta porto un caffè, perché con i vizi ho cominciato presto. Mi siedo sul letto. Affido il nastro al registratore. Parte l’organetto cigolante e colante miele lisergico di Strawberry Fields Forever. All’improvviso, qualcuno ha aperto una diga nel deserto nebbioso della pianura padana. Come se dentro di me e attorno a me il mondo fosse passato dal bianco e nero al technicolor. In tre secondi netti. Per il resto del primo ascolto di una tra le mie dieci canzoni preferite di sempre ero lì, ma ero altrove. Anzi: era il qui e ora ad essersi trasformato in una corsa a rotta di collo lungo ogni curva – improvvisa, inattesa – di una musica che non avevo mai sentito. Ma che (di nuovo: ero già sicuro al cento per cento, senza riuscire a spiegarlo) era sempre stata dentro di me in attesa di rivelarsi.

Un’epifania, insomma. Oppure un battesimo psichedelico, come lo avrei definito tempo dopo con la cognizione di causa offerta da decine di testi sacri opportunamente consumati e centinaia di dischi passati sullo stereo, che arrivò la primavera successiva e in parte ancora posseggo. Quella immersione in un’acqua multicolore ancora la provo con ogni nuova scoperta, uguale però diversa. Lascio che mi porti giù verso campi di fragole. Se possibile, per sempre.

Judy, Jerry e la cometa

Dei primi Settanta si sottolineano la fuga nel privato e il tramonto del sogno hippie. Il che è vero, com’è altrettanto vero che le cose iniziano a prendere una brutta piega già alla fine al decennio favoloso, quando – l’estate dell’amore un lontano ricordo – il sistema reagisce introducendo tonnellate di eroina e dichiarando fuorilegge l’LSD. Mentre in America ci sono rivolte e cadaveri ovunque, la musica cavalca l’onda emotiva. C’è chi riporta indietro le lancette a prima che la psichedelia esplodesse e guarda le radici con il senno del poi, chi organizza fughe su utopiche astronavi ribelli, chi getta messaggi in bottiglia via dalla pazza folla.

Vale la terza opzione per Judy Henske, Jerry Yester e Farewell Aldebaran, gioiello cosparso di polvere celeste con a monte una serie di congiunzioni per l’appunto astrali, tanto per cominciare l’amore tra due talenti. Soprannominata da Jack Nitzsche “la Regina dei Beatniks”, lei ha annullato la distanza tra Lenny Bruce e il Greenwich Village con High Flying Bird, 33 giri che nel 1964 anticipa i Byrds sul traguardo della commistione tra folk e rock. L’anno prima ha sposato Jerry, già nel Modern Folk Quartet e presto sostituto di Zal Yanovsky nei Lovin’ Spoonful. Quando costoro si sciolgono, produce gli Association del fratello Jim e l’immenso Tim Buckley di Goodbye And Hello e Happy Sad.

Nel ‘68 coniugi e neonata salutano New York e traslocano nella San Fernando Valley in un “coast to coast” dai risvolti professionali, siccome a gestire la Henske è Herb Cohen, pappa e ciccia con Frank Zappa. Il Baffo suggerisce alla ragazza di incidere per la sua etichetta Straight e qui entrano in gioco il caso e una buona dose di pragmatismo. Insieme a Yanovsky, Jerry sta supervisionando un LP di Pat Boone nello studio hollywoodiano di costui e decide di usarlo per mettere su nastro quanto ha composto con la consorte. Insieme ad alcuni amici – spiccano David Lindley e Solomon Feldthouse dei Kaleidoscope, l’alchimista Paul Beaver, Jerry Scheff, Larry Beckett – lavorano per mesi riascoltando il risultato la sera, tra una carezza alla figlia e una al gatto.

Per allestire le tessiture più adatte alle metafore poetiche di Judy, Yester si destreggia tra strumenti tradizionali e, con l’esperto Beaver, gestisce un arsenale di tastiere e aggeggi elettronici. Infine lo Zeitgeist è colto con un fantastico “a sé” che scommetterei memorizzato a dovere da Stereolab, Broadcast e compagnia, laddove l’unico possibile paragone coevo è con gli United States Of America. Eclettico nel dispiego di stili, Farewell Aldebaran – titolo pescato a caso nella “Encyclopaedia Britannica” da una Judy febbricitante – trova l’unità nell’indole sperimentale, in un clima di ansia (nemmeno troppo) latente, nel livello altissimo delle canzoni e nell’ugola che le intona, vibrante carezza metallica che mescola Odetta, Janis Joplin, Nico e Grace Slick.

Così il minaccioso rock avvolto in visioni di blues doorsiano Snowblind sfila accanto alla giostra sunshine pop Horses On A Stick e l’ombroso (post) folk Lullaby risponde a una St. Nicholas Hall da Nico che canta Leonard Cohen. Se Three Ravens è un dolce barocco guarnito con misura, la circolare Raider porta Neil Young e il raga sugli Appalachi e la teatrale Charity getta un pallido raggio di sole. In One More Time si aggirano spettri jazz, l’inno Rapture affascina a passo di spiritual bianco e la title-track sfiora l’ineffabile. Sistemata in chiusura, è una ballata inquieta e inquietante che scintilla come una cometa lungo folate di Moog e mellotron, il cuore malinconico e un canto d’altri mondi ottenuto sommando strati su strati di sovratoni.

Bellezza eccentrica, sublime e senza tempo al pari di un album del quale nel 1969 pochi si accorgo tranne il solito John Peel. Il culto cresce tra ristampe illegali, i panegirici di Richie Unterberger e la sospirata edizione ufficiale, pubblicata dalla Omnivore nel 2016. Tornando agli anni ’70, Judy e Jerry formano i più convenzionali Rosebud e poi divorziano. Poiché amo gli “happy end”, voglio credere che stiano ancora assieme felici e contenti in un altro universo. E che sia stata quella ruggente cometa ad accompagnarli là.

Acide introspezioni: Bill Wyman e The End

Ammettiamolo: ogni discografia che sia un minimo corposa – diciamo dai cinque album in su – contiene qualcosa di mediocre, brutto o addirittura indifendibile. Anche quella dei Grandi, certo. Esempio paradigmatico Their Satanic Majesties Request, zoppicante tentativo dei Rolling Stones di rincorrere uno stile “pepperiano” che non gli apparteneva. Involontariamente comica la copertina, serve parecchia benevolenza per assolvere un contenuto che spinge a domandarsi perché. Applaudito lo space rock 2000 Light Years From Home e soprattutto il luccichio acid-barocco She’s A Rainbow, tutto il resto è noia e imbarazzo. Tenendomi stretto un ingiustamente sminuito Between The Buttons, annoto che nel 1967 le Pietre erano stressate e stanche e per un po’ avrebbero fatto meglio a non rotolare. Forse anche per distrarsi, in quei giorni Bill Wyman si occupa di un prezioso manufatto psichedelico a nome The End, una band del Surrey da lui già incrociata nella precedente incarnazione, tali Innocents. Assieme ai Rolling Stones, il complessino beat aveva fatto da spalla a John Leyton e nel corso del tour Dave Brown (basso, voce) e Colin Giffin (chitarra, voce) avevano stretto amicizia con la sezione ritmica degli Stones.

Varato un nuovo progetto con il tastierista Nick Graham, il sax di John Horton e Roger Groom (poi rimpiazzato da Hugh Atwooll) alla batteria, è naturale telefonare a Bill. Per le sue velleità di talent scout, il vibrante errebì da club dei ragazzi risulta perfetto: sistemato in bacheca un mazzetto di 45 giri e ottenuto un seguito in Spagna, l’ingresso del chitarrista Terry Taylor segna un aggiornamento stilistico. Nell’estate ’67 il gruppo incide Shades Of Orange, gioiellino del Wyman che sistema Charlie Watts alle tabla immaginando un Barrett allegro, indeciso tra schizzi di Spagna e bolero orientaleggiante. Come nel caso degli Skip Bifferty e dei Dantalian’s Chariot, conta molto un retaggio black che impedisce eccessi di svenevolezza: senso del groove, sapienti dinamiche strumentali e piglio robusto fanno dei The End una cerniera tra Brian Auger, ipotesi lisergiche dello Spencer Davis Group e futuri seguaci come Prisoners, James Taylor Quartet e Charlatans.

Già singolo del marzo 1968, Shades Of Orange torna sull’album Introspection, registrato in saltuarie session lungo nove mesi con la produzione di Bill e il missaggio curato da Glyn Johns. Comune il background, lavorano tutti serenamente cogliendo i brani in diretta e successivamente arricchendoli per conservare il “tiro”. Chitarre aguzze, Hammond sfrigolanti, intarsi fiatistici e armonie vocali restituiscono così lo spirito dell’epoca nell’esatto momento in cui se ne allontanano: la visionarietà, qui, appartiene più a paesaggi urbani che alle coeve fughe bucolico-favolistiche eccetto alcuni interludi parlati affidati al giardiniere di Bill. Mentre Glyn intasca l’intuizione per Odgen Nut’s Gone Flake sfilano una Dreamworld da Zombies muscolari, la filastrocca popedelica Under The Rainbow, i Traffic esuberanti di Cardboard Watch. Se la title-track gioca tra parentesi meditative e impennate allestendo uno scontro frontale tra I’m A Man e Taxman ripreso in chiusura, What Does It Feel Like e Don’t Take Me incalzano slanciate, la favolistica Sacred Loving – sempre Wyman l’autore – vanta l’harpsichord di Nicky Hopkins e la trasfigurazione di She Said Yeah vede i Beach Boys alle prese con music hall e jazz.

Avrebbe potuto essere un successo mica male, Introspection. Invece, per ragioni mai chiarite e probabilmente legate all’intricato stallo tra gli Stones e il manager Allen Klein, la Decca tiene tutto fermo per più di un anno. Nei favolosi Sessanta ciò equivale a un’era geologica e così, quando a fine 1969 il disco arriva nei negozi, Giffin e Attwooll non sono più della partita e la psichedelia è tramontata. L’album vende pochissimo, diventa un costoso oggetto di culto, il gruppo si separa e alcuni membri riaffiorano nei Tucky Buzzard. Tralasciando la pletorica produzione postuma, potete rimediare all’amaro “what if” procurandovi il CD ufficiale che tre lustri or sono metteva fine a una sfilza di edizioni pirata. Vale la pena, fidatevi.

I Cold Sun e la mistica psichedelica

Volevo che i Cold Sun piacessero alla gente del domani.” (Bill Miller)

Scava e riscava, nella miniera dei fab sixties qualche manufatto sorprendente e di pregio lo trovi ancora. Così fu una dozzina d’anni or sono per chi scrive con la psichedelia ombrosa e avveniristica concepita dai Cold Sun, una faccenda che – per citare il loro amico, compaesano nonché collega di scorribande soniche Roky Erickson – vive in un tempo tutto suo, nel quale la West Coast del ’67-’68 si salda alla New York del decennio successivo e, non contenta, lambisce territori abitati da Velvet Underground, Peter Hammill, Ash Ra Tempel. Curiosi? Seguitemi in quel di Austin, Texas, dove Bill Miller e Tom McGarrigle sono fan dei 13th Floor Elevators che con Mike Waugh (basso) e Hugh Patton (batteria) hanno fondato i Couldron, presto divenuti Amethysts. Miller è cresciuto nella cartina di tornasole emotiva del deserto adorando Del Shannon e Joe Meek e canta accompagnandosi con l’autoharp, arnese della tradizione folk appalachiana in teoria assai lontano dal rock.

Se non che gli Elevators hanno dato l’esempio suonando addirittura un’anfora e perciò, ispirato dal ronzante Clavioline di Meek, il ragazzo elettrifica e manipola (“Avevo in testa l’idea di un piano segato a metà, con pick-up magnetici come ricevitori a transistor e corde come antenne in parte antiche e in parte tipo vettori spaziali.”). Cavandone suoni che ricordano uno spettrale organo o pianoforti sull’orlo del collasso, scrive assieme a Tom canzoni complesse con referenti coevi nella gang di Roky (“Rappresentavano la massima espansione del formato rock fuori dal mainstream.”) e nei Velvet, per i quali i Nostri aprono alcune date locali. Il risultato è personale, avvolto in un bizzarro gotico “delle sabbie” e percorso dalla tensione estatica dei Television e di certa post-psichedelia. Siamo però al tramonto dei ’60 e, no, questa non è una puntata di “Ai confini della realtà”.

Nel 1970 la band incide negli studi della Sonobeat un master che il capo dell’etichetta vuole piazzare alla Columbia come ha appena fatto con Johnny Winter. Tuttavia non si va oltre le registrazioni e il quartetto, ribattezzatosi Cold Sun, resiste fino al ’73 e poi si trasforma negli Aliens, chiudendo un primo cerchio a fianco dell’Erickson solista. Nel frattempo Michael Ritchey, bassista nell’ultima line-up, recupera i nastri che sedici anni dopo proporrà a Rich Haupt e Mike Migliore della Rockadelic. Le mascelle sul pavimento dallo stupore, costoro chiedono il “si stampi” a Bill, che dalla California in cui si è trasferito concede un’esigua tiratura che va subito esaurita. Ormai materia per collezionisti danarosi, nel 2008 la World In Sound la sistema sul CD Dark Shadows aggiungendo due brani dal vivo risalenti al 1972.  

Se la psichedelia è il vostro pane, procuratevelo. Sarebbe da pazzi rinunciare alla South Texas che decora country-rock in vena di blues acido con un assolo singhiozzante, a una For Ever da Black Sabbath strafatti e persuasi di essere i Grateful Dead, all’ottundente ipnosi Twisted Flower, alle dodici battute declinate secondo Lou Reed & Sterling Morrison di See What You Cause. Spetta comunque agli episodi più dilatati decollare lungo traiettorie imprendibili: un’inquieta Fall fa strame di Easter Everywhere con parentesi qui meditative e là febbrili, l’ansiogena allucinazione Ra-Ma mescola del garage mutante all’amaro lirismo del krautrock, in Here In The Year i Van Der Graaf Generator smantellano Ride Into The Sun con accelerazioni, oasi rumoriste, aperture liriche in anticipo su Tom Verlaine. Avanti veloce all’aprile 2011: i Cold Sun salgono sul palco dello “Psych Fest” di Austin prima di Erickson e dell’attrazione principale, i Black Angels. Un altro cerchio chiuso, e il momento nel quale Bill Miller è giunto fisicamente nel futuro in cui la sua mente aveva sempre vissuto.

Jim Ford: Kentucky soul brother

Fino al 2011, quando mi sentivo in vena di soulmen dal viso pallido bussavo alle porte dei gentiluomini sudisti Bobby Charles, Eddie Hinton e Tony Joe White. Quello stesso anno però Light In The Attic ristampò Harlan County, solo e unico album di Jim Ford che da allora è nel novero degli amici fidati con i quali consolarmi. Cercando informazioni sull’artefice mi imbattevo in un’altra ristampa, per Bear Family e risalente a quattro anni prima, con la scaletta allungata e il titolo modificato in The Sounds Of Our Time mentre Light In The Attic optava per la grafica originale e una rimasterizzazione. L’aspetto spiacevole della faccenda fu invece scoprire che Ford era già deceduto, sessantaseienne, il diciotto novembre 2007.

Tempismo amaro, considerato che dietro l’angolo attendeva un concerto in terra britannica per raccogliere fondi e mandarlo in studio con quel geniaccio – riposi in pace anche lui, che compiva gli anni tre giorni fa – di Jim Dickinson. Vaffanculo, destino. Potevi sforzarti e conservare ancora un po’ tra i mortali chi venne portato in palma di mano da Sly Stone e Bobby Womack e che Nick Lowe (curiosate nei crediti di Jesus Of Cool…) considera influenza principale; chi aveva ascoltato le proprie composizioni sgorgare dalle ugole di Bobbie Gentry, Aretha Franklin e dei Temptations; chi era idolatrato da Ronnie Wood e dal pub rock britannico.

jim ford

Impreco di rabbia al pensiero e ancor più riascoltando Harlan County. Perché questo sincero soul campagnolo al crocevia tra gli Stones e il Van Morrison più negroide avrebbe meritato il plauso del mondo intero. Invece no: solo scampoli di gloria postuma. Così vanno le cose, così non dovrebbero andare. Mai. Qualche spicciolo biografico, ora. Jim nasce nell’estate 1941 nella contea di Johnson, Kentucky. Tra povertà e violenza l’unica fonte di felicità è la musica suonata a tutto volume dalla radio di una vicina poco più grande, una certa… Loretta Lynn. Logico che il ragazzino scappi dall’inferno in terra recandosi nell’ordine dal padre biologico in Michigan, a New Orleans per suonare (e vivere) in strada, a zonzo per l’America in autostop. Trascorso poi un biennio sotto le armi, quando nel ’58 arriva a Los Angeles ha vissuto un bel po’  e nemmeno è maggiorenne (!).

Entrato subito nel “giro” grazie a P.J. Proby, lungo i sixites sforna hit conto terzi e a un certo punto vuole fare da sé. Con la sezione ritmica dei Redbone, Dr. John, Jim Keltner e James Burton (chitarrista del “tardo” Elvis) confeziona la mezz’ora scarsa oggetto dei questo panegirico. Fuori in agosto su Sundown – marchio creato appositamente, distribuito dalla White Whale dopo il tentennamento della Atlantic – Harlan County resta schiacciato in un 1969 stellare. Siccome Jim detesta il palco, la frittata è servita. Dissolvenza. Nel 1971 un tentativo londinese con i Brinsley Schwarz viene accantonato e il nostro uomo sparisce. Parecchio tempo dopo un giornalista svedese lo stana in una roulotte nella quiete di Fort Bragg e apprende che, tra una traversia e l’altra, ha continuato a scrivere per puro diletto.

Harlan County LP

Il resto l’ho raccontato qui sopra nella speranza di accendere la vostra curiosità. Chi tra di voi è al corrente avrà magari rimesso sul piatto o nel lettore un album che ogni volta suona fresco come al primo incontro. Gli altri non esitino a procurarsi una festa (talvolta dolcemente mesta) a base di errebì, country, rock vibranti e turgide ballate. Si innamoreranno seduta stante dell’autobiografica, sarcastica title-track che citando Swing Low Sweet Chariot cammina in anticipo nelle lande di Exile On Main Street, della rilettura inzuppata nel funk di Spoonful, della sensualità guascona di I’m Wanta Make Her Love Me, del romanticismo di Love On My Brain e Changin’ Colors.

Ancora non basta? Benissimo: ecco To Make My Life Beautiful, la firma di Alex Harvey in calce a un melò degno di Hardin e Rose, un’esuberante Dr. Handy’s Dandy Candy, il boogie Long Road Ahead strappato ai coniugi Bramlett per inventare i Black Crowes. E se Under Construction plana dai solchi di Beggar’s Banquet, Workin’ My Way To L.A. vede i Little Feat prendere in ostaggio proprio Mick Jagger. Tutte canzoni belle, sincere e preziose. Canzoni che il fato non potrà cancellarvi dalla testa e dal cuore. Amen.

Lovin’ Spoonful: cucchiaiate di talento

Nella popular music c’è chi riesce a essere piacevole e a lasciare il segno conservando freschezza. Considerati Beach Boys e Byrds soprannaturali “a sé”, lanciati in alto nel sole e ancora più su, i newyorchesi Lovin’ Spoonful furono tra i primi che nei Sessanta risposero alla British Invasion, assieme a quei Beau Brummels dislocati sulla costa opposta con i quali condivisero inoltre la sufficienza di certa critica. Come se sfornare hit di peso e pregio fosse un male e al proposito basterebbe ricordare l’orientamento del mercato di allora. Sottolineando subito dopo l’ammirazione di McCartney (Good Day Sunshine risultò dal tentativo di scrivere qualcosa che somigliasse a Daydream, 45 giri degli Spoonful presente anche nel jukebox di casa Lennon…) e dei fratelli Davies.

Quando poi basterebbe accostarsi sereni a canzoni colme dell’innocenza fiduciosa di un’epoca in cui anche la musica di enorme successo edificava sogni e speranze. Il segreto va cercato nella levità di tocco e nel solido, policromo background delle personalità complementari di John Sebastian e Zal Yanovsky. Classe 1944 entrambi, uno figlio d’arte (papà armonicista classico, mamma autrice per la radio) che cresce nel Greenwich Village e giovanissimo partecipa al folk revival; l’altro un chitarrista canadese, pure lui folkettaro però simpaticamente svagato.

Lovin'

Mito vuole che si conoscano la sera in cui i Beatles conquistano l’America ospiti di Ed Sullivan, il 9 febbraio 1964. Sebastian – già apprezzato turnista, in carniere un 33 giri con la Even Dozen Jug Band – si reca dall’amica Cass “presto sarò Mama” Elliot per assistere allo spettacolo televisivo e incontra Zal. Scattata l’intesa, presa la ragione sociale da Mississippi John Hurt e reclutati Steve Boone al basso e Joe Butler alla batteria, nel ’65 i Lovin’ Spoonful sono realtà. Risolto un litigio di prelazione tra Elektra e Kama Sutra in favore della seconda, a luglio Do You Believe In Magic vola alto con pieno merito. Erik Jacobsen in regia, l’album dal medesimo titolo bilancia hit e traditional, il Fred Neil di Other Side Of This Life e il robusto Night Owl Blues. Frenetico il 1966: manita di singoli in classifica e tre LP nei negozi!

Daydream aumenta la notorietà europea (la title-track svetta sulle composizioni autografe ora prevalenti) tonificando l’impasto di folk, pop, country, blues e rock che la stampa battezza “good time music” ispirandosi a un loro brano. Prescindibile il commento al film di Woody Allen “What’s Up, Tiger Lily”, Hums Of The Lovin’ Spoonful rappresenta viceversa “il” disco dei Lovin’ Spoonful. Qui la celeberrima Summer In The City, la scintillante giostra pop Full Measure, un’esplicativa Nashville Cats, l’acquerello Rain On The Roof. Qui la dolcezza di Darlin’ Companion, l’altro tributo a Neil della sospesa Coconut Grove, una 4 Eyes memore di Bo Diddley, il blues asciutto Voodoo In My Basement. Qui la maturazione di un stile che sta per fare i conti con la realtà.

spoonful

Sulla band iniziano a piovere pietre: l’arresto di Boone e Yanovsky per possesso di marijuana e la sostituzione di costui con Jerry Yester, Jacobsen che se ne va, gli hippie che li schifano. A fine ‘67 John saluta dopo la colonna sonora del coppoliano “You’re A Big Boy Now” e il più che dignitoso Everything Playing. Butler traghetta la sigla a fine decennio tramite l’inferiore Revelation: Revolution ’69, Sebastian inaugura a Woodstock la carriera solista, Yanovsky produce con Jerry Happy Sad di Tim Buckley, registra il folle Alive And Well In Argentina e poi va in Ontario a gestire un ristorante.

I membri originali si ritrovano nel ‘79 per la pellicola “One-Trick Pony” di Paul Simon e nel 2000, accolti alla “Rock And Roll Hall Of Fame”. Dai primi Novanta gira una formazione con Boone e Butler (John si è sempre rifiutato; idem Zal, morto d’infarto nel 2002; fino a un paio d’anni fa e a una storiaccia di porno-pedofilia, Yester era invece della partita) che mi sforzo di ignorare. Preferisco pensare alla magia in cui tantissimi tuttora credono. Una magia che coglie appieno lo spirito di un preciso momento storico e sociale mentre si rivela eterna. Non erano – non sono – solo canzonette. Ascoltare per credere.

Mezzo secolo Bianco

They say it’s you birthday, we’re gonna have a good time.

Nella vita arriva un momento in cui ti stupisci di quanto tempo è trascorso da certi avvenimenti che hanno lasciato il segno. Grossomodo coincide con lo scorrere sempre più rapido della sabbia nella clessidra, quando non sai più se sia questione di percezione o se davvero le cose viaggino a doppia velocità. I pomeriggi infiniti di quand’eri ragazzino non possono essersi dissolti così, lasciando il posto a giorni che in un lampo scivolano nelle settimane e settimane che si trasformano in mesi e mesi in anni. O forse sì. Quando poi nella giostra sai che è uscita l’ennesima versione “deluxe” di un disco che ami, qualcosa capisci. Capisci che l’Arte è una barriera contro Crono; che quando tutto è fruibile simultaneamente, spesso le cose sono fraintese per mancanza di prospettiva e un contesto non ricostruibile a posteriori; che il mezzo secolo resta comunque un traguardo importante nella cultura pop.

beatles garden 1

Nel novembre di cinquant’anni fa, il Gruppo più grande di gesù tirò le fila di ciò che aveva in larga parte plasmato. Lo fece con quattro facciate di vinile che scagliavano strampalate, lucenti biglie in tantissime direzioni. Tuttora strabilia il White Album, per come è enciclopedicamente riassuntivo ma anche avant mentre mostra quattro icone restituite a se stesse. Prodigiosa parabola, la loro, compressa in uno spazio dove in fretta dei ragazzi divennero Cesari moderni. Il doppio bianco lo trovate là, in cima, ennesimo Capolavoro nel percorso iniziato dal beat allo stato dell’arte di Rubber Soul e proseguito con il domani a chiare lettere di Revolver e lo snodo lisergico tra sogno e incubo di Sergent Pepper’s….

Un percorso da Divinità che nel ‘68 affrontano la crisi e l’unità che si sgretola attorno e dentro, però traendo energia da contrasti, delusioni e incazzature reciproche. La band si era infranta contro la realtà e un’intera epoca, con le sue aspettative e i suoi ideali, si apprestava suo malgrado allo stesso destino. Nondimeno, lo sfascio fu apparente: i Sessanta rappresentano ancora il monolito nero del Novecento perché in noi perdura l’eredità del loro benefico, pirotecnico impatto. Per fortuna. Lo stesso vale per un’opera che si poneva come una tabula rasa sin dal “non titolo” e da una copertina totalmente bianca. Gesto che traduco in una tela affidata all’ascoltatore, in un punto a capo di già punk a capo. Le enciclopedie non vantano copertine colorate, giusto? E non è forse il futuro un’ipotesi da riempire di idee e visioni? Ragion per cui…

white album

Ragion per cui tutto quadra. Quadrano il collage fotografico allegato in un richiamo visuale delle sonorità; quadrano i ritratti dei Beatles separati, accigliati, calati nell’introspezione e nel privato reso pubblico dei ‘70. Finita l’era del we all live in a yellow submarine, la “revolution” scandaglia l’io e, pur senza dimenticare il mondo circostante, si fonde all’ansia di fine decennio. Da qui l’alienazione sorridente e gli stridori latenti e pertanto ancor più inquietanti che vengono a galla. Da qui l’abilità a sfruttare l’imprevisto. Da qui pagine straordinarie che inventano Hüsker Dü (Helter Skelter) e slowcore (Long Long Long), preconizzano la new wave (la complessa frenesia di Everybody’s Got Something To Hide… un’anticamera dei Feelies; l’assonnata, irresistibile I’m So Tired), il college-rock (del nonsense pythonesco Wild Honey Pie i Pixies incrementeranno squilibrio e volume; le Breeders riveriranno Happiness Is A Warm Gun), le melodie sghembe di Nirvana e Soundgarden. Assume così un altro senso l’evidenza che il Bianco sia l’album beatlesiano più venduto negli Stati Uniti.

Aggiungete un profondo senso della Storia e il saper padroneggiare linguaggi distanti con piglio da Maestri ed ecco cortocircuiti che sottraggono Chuck Berry ai fratelli Wilson (Back In The U.S.S.R.), psichedelia West Coast (un’immensa Dear Prudence ripresa da Siouxie e camuffata dagli Smiths) oppure britannica (Cry Baby Cry cammina sull’asse Lewis Carroll/Syd Barrett, Glass Onion profuma di XTC maturi), schizzi giamaicani (Ob-La-Di Ob-La-Da), pessimismo barocco (Piggies), vibrazioni errebì (Savoy Truffle, Why Don’t We Do It In The Road?).

E ancora: dolcezza acustica (I Will, Julia), satire di cantastorie americani (The Continuing Story Of Bungalow Bill, Rocky Raccoon) e del country (Don’t Pass Me By), dodici battute esistenzialiste (Yer Blues), hot jazz e vaudeville (Honey Pie), un rock che rolla trascinante (Birthday), si racconta sardonicamente impegnato (Revolution 1) e addolora, sublime (While My Guitar Gently Weeps). Se le magnifiche oasi folk Mother Nature’s Son e Blackbird rappresentano l’humus della Perfezione Pop di Martha My Dear e Sexy Sadie, l’hollywoodiana Good Night chiude la porta delle milioni di case in cui ha fatto irruzione lo Stockhausen di Revolution 9.

fighting beatles

Casomai quanto sopra non dovesse parervi geniale, arrivederci e grazie. Benissimo così, il mondo è vario e comunque non mi fido di chi non apprezza i Beatles. Mi fido del White Album e di una Bellezza viva e pulsante con la quale salutarono l’istante lunghissimo che avevano vissuto, costruito, sopportato. Dopo di che toccherà all’elevata accettazione di Let It Be e Carry That Weight scrivere la fine. Sigillata la cronaca, nasce il Mito. Intanto, un disco perennemente cangiante e fedele a sé si espande dentro un goccia spezzata in quattro. Una goccia che, a ben ascoltare, si ricompone nell’eternità.

Biciclette bianche sulla luna

Come più volte detto, la psichedelia è un mutante generato dal bisogno di abbandono dionisiaco. Prima del genere musicale esiste cioè un’attitudine radicata in noi, pertanto spetta a questioni formali distinguere tra loro Anthem For The Sun, Dig Your Own Hole e The Piper At The Gates Of Dawn. Ecco: a rendere unico lo stile acido “made in UK” è la vena favolistica – sognante però pure inquieta, venata di vaudeville e inzuppata nel pop – che potete udire tra le fronde del giardino in cui abitano tutti i cappellai matti. Da dietro il cancello che El Syd costruì, meraviglie propulse dall’LSD della caratura di See Emily Play e Paper Sun ci/si immergono nello sguardo stupefatto del fanciullino. Rivelazioni del bizzarro nascosto dentro le pieghe del quotidiano luccicano avanti e indietro nel tempo e nel subconscio e, tra bucoliche beatitudini e vaneggiamenti urbani, disegnano un mondo “altro”. Un mondo dove ognuno conosce l’unico album dei Tomorrow che oggi è in tutti i sensi un fresco cinquantenne.

Corre il 1965 quando i bittaroli londinesi Four Plus One fanno fiasco con un 45 giri per EMI e divengono The In Crowd. Onorata così la hit di Dobie Gray, proseguono gli inchini ai Maestri neri con alcuni 45 giri che affiancano riletture di Otis Redding e James Brown agli autografi mod-isti del cantante Keith “West” Hopkins. Passi avanti importanti l’arrivo alla sei corde di Steve Howe – sì: l’onanista incallito degli Yes – e concerti di spalla a Who, Yardbirds e Hollies, la svolta giunge a fine ’66 con il nuovo batterista John Alder, per gli amici Twink. Immerso nella controcultura, aiutato dal tonico del Dottor Hofmann e da Revolver, costui “espande” gli orizzonti della combriccola lungo l’anfetaminico ponte tra due epoche chiamato freakbeat. Poi vede i Pink Floyd all’UFO Club, capisce che il futuro è adesso e adesso è ora di decollare. Ribattezzatisi giustappunto Tomorrow, i ragazzi adattano il guardaroba e avvolgono i brani di West in distorsioni e digressioni misurate.

LP

L’entusiasmo di Joe Boyd e John Peel saluta nel maggio ’67 il singolo My White Bicycle, classico raggiante e isterico come il migliore dei trip possibili. Incastonato su riverberi chitarristici, nastri rovesciati e ritmica puntuale, questa ode agli anarchici olandesi Provo vede nel ruolo di ingegnere del suono Geoff Emerick, eccelso scudiero di George Martin scomparso mentre ultimavo queste righe. Regia e tastiere sono appannaggio del tedesco Mark Wirtz, figura controversa che in primavera supervisiona un LP chez Abbey Road, a una porta di distanza dal Sergente Pepe.

Twink e il bassista John “Junior” Wood giudicheranno scarso il risultato ma non dategli retta, poiché cedono a una giustificata acredine. A metà anno Grocer Jack – robetta cucita dal burattinaio teutonico per il solo Keith – centra la seconda piazza in classifica e la EMI focalizza altrove l’attenzione. In autunno l’innodia in anticipo su Lennon di Revolution si ferma sul fondo dei Top 40. Nel febbraio Sessantotto Tomorrow non può più cogliere l’attimo, tuttavia si assicura l’eternità con una Bellezza policroma che fonde piglio energico ed estasi visionaria.

tomorrow colours

In mezzo agli assi già calati su 7”, il lato A sistema la cartolina Colonel Brown, l’India swingin’ di Real Life Permanent Dream, il proto brit-pop Shy Boy. Girato il vinile, la frenetica The Incredible Journey Of Timothy Chase e il minuetto Auntie Mary’s Dress Shop perfezionano il sapore di fiaba allucinata con un vigore sconosciuto a tanti leziosi epigoni. Preludio squisito alla cover di Strawberry Fields Forever, relativamente più scarna e poggiata su una sfoglia emotiva tetra, stralunata. Magnificenza che quasi oscura il Lewis Carroll lisergico di Three Jolly Little Dwarfs, la torrida Now Your Time Has Come, una stellare ed esplicativa Hallucinations. Quasi.

Le parrucche freak ormai nei supermercati, i quattro si salutano. Di Howe sapete, Junior forma con Twink gli effimeri Aquarian Age e Keith lavorerà nella pubblicità. Unico a mantenere un profilo alto, Adler partecipa a S.F. Sorrow e cerca di scuotere Barrett dal torpore, pubblica il folle Think Pink e con i Pink Fairies forgia l’anello di congiunzione tra hippie e (proto) punk. Genio tanto misconosciuto quanto abile a inventare il… domani, gli dobbiamo parecchio. Spargete la voce.

I tramonti vellutati dei Music Emporium

Regola numero uno dell’acquirente avveduto: non sempre la rarità di un disco costituisce garanzia di bellezza. Anzi, spesso c’è un valido motivo se nessuno ti si filò e, diciamolo, quella malintesa antesignana dell’autoproduzione chiamata “stampa privata” ha più che altro arricchito scaltri commercianti e creato leggende di cartapesta. Ogni tanto, però, esistono le eccezioni. Vi interessano trecento vinili e una sixties band californiana atipica, composta da gente con un retroterra classico e una ragazza alla batteria?

Lo spero, perché i Music Emporium sono stati lungo avvolti da mitologiche nebbie pur meritando assolutamente la (ri)scoperta. Se sono pura follia i 4.800 euro richiesti per l’unico esemplare – sigillato, eh! – del loro 33 giri omonimo reperibile su Discogs allorché scrivo, con una modica spesa potete procurarvi l’eccellente versione ufficiale Sundazed del 2001. C’è di che gioire all’infinito, giuro.

Music Emporium album

Un passo indietro: nel ‘67, William Cosby – fisarmonicista ferrato in jazz e sinfonica che sin da ragazzino fa incetta di premi e onori – è ancora vergine di rock. Al terzo anno della UCLA si decide, ascolta e quell’energia brada gli cambia la vita. Comprato un organo, allestisce i Gentle Thursday con i compagni di corso Dora Wahl a tamburi e piatti, il bassista Steve Rustad e il chitarrista/cantante Thom Wade. Quando i maschietti abbandonano, William si mette anche al microfono, modifica la ragione sociale in Cage e a basso e voce accoglie Carolyn Lee, terzo elemento “colto” di un quadrilatero cui manca la necessaria figura rock, infine trovata nel chitarrista Dave Padwin.

Complesso assai peculiare, alle droghe i Cage preferiscono discettare senza pretenziosità alcuna di strutture e forme ispirandosi a Love, Jefferson Airplane, Doors. Preparati tecnicamente e rodati dai concerti, incidono materiale per un (breve) LP ma un abboccamento con l’Elektra non porta a nulla e c’è da pagare lo studio.

dora Wahl
Dora Wahl

 

Entra in scena Jack Ames, discografico in fuga dalla Liberty per lanciare la Sentinel. Tutto molto bello, non fosse che a gestire il denaro è la moglie Lola, che i Cage li detesta. Ames racimola comunque quanto basta a saldare il conto e rifare il cantato, poi obbliga il quartetto al battesimo definitivo pensando di aumentarne le possibilità commerciali mentre Bill si trasforma in “Casey” per evitare confusioni con il comico. Mugugnando si firma e nel 1969 il demo diventa album.

Un misurato, magico tappeto intessuto da ritmica fantasiosa, corde acidule e trame d’ugola e organo benedice architetture raffinate (i King Crimson chiesastici in relax sulla West Coast di Cage; l’iridescente anticipo Paisely Underground Winds Have Changed), goticismi sobri (Day Of Wrath è basata sul “Dies Irae” gregoriano; Catatonic Variations si spiega da sola), episodi incalzanti (Nam Myo Renge Kyo, splendida malgrado l’errore di compitazione di Ames; i Doors poppettari di Times Like This), oasi di pacata visionarietà (le splendide Gentle Thursday e Velvet Sunsets) e momenti che trovano il giusto mezzo (Prelude, una Sun Never Shines dai risvolti beefheartiani).

ME in the studio

Ovvio che di Music Emporium non si accorga anima viva a causa dell’esigua tiratura e dell’inetto Jack. Persino peggio quando ci si sbarazza di costui incappando in un tizio che ruba la strumentazione e sparisce. Fine dei giochi e del decennio allorché il capobanda evita il Vietnam con la cattedra di musica a West Point. Avanti veloce al Duemila. Dopo l’accademia militare e un impiego alla sezione trasporti della difesa, Cosby si gode la pensione.

Su un sito di aste si imbatte nell’ennesimo bootleg e il seguito è materia da “Twilight Zone”: il venditore racconta che “Casey” è morto in un incidente motociclistico e che un’etichetta sta preparando la riedizione del preziosissimo manufatto.  Poche ore e Bob Irwin, boss della Sundazed, riceve una e-mail in cui William chiede chiarimenti. Felice di averlo trovato dopo vane ricerche, Irwin spiega di aver acquistato i master originali da Lola e gli offre voce in capitolo sul progetto più i diritti d’autore. Amaro happy end, dal momento che William H. Cosby si è arreso due estati or sono a un cancro al pancreas, benché in relativa serenità e soffrendo meno possibile. Nam myoho renge kyo, fratello.