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Neneh Cherry, la donna dei miracoli

Dice il vero chi annota quanto gli ultimi tre lustri di pop rechino in maniera evidente il segno di Neneh Cherry. Per fortuna, ché con costei non ci si ferma alla musica e sa iddio che bisogno c’è, nel nuovo medioevo, di Bellezza multiculturale e con-fusa. Giusto per non far nomi, Santogold e M.I.A. non esisterebbero senza una diva arguta e sicura di sé. Una che mescola generi, stili, razze da che è al mondo. Una che, presentatasi col pancione a “Top Of The Pops”, si defilò a metà Novanta perché nella sua vita fa quel che vuole.

Ad esempio, tornare nel 2012 con la saporita patata bollente The Cherry Thing causando stupore in certa critica, dimenticatasi della sua gioventù spesa a impastare free funk, rabbia e sensualità con ex membri del Pop Group. La distanza tra la ragazzina di I Am Cold e l’odierna fiftysomething essendo stata cancellata dallo splendido Homebrew e da un Talento fedele a sé in ogni mutazione, alzi comunque la mano chi quattro anni fa si aspettava Blank Project, che con Kieran Hebdan/Four Tet e Rocketnumbernine celava ingegno futurista ed emozioni sotto un’apparente distacco.

neneh album

Fatto è che in Neneh cuore e cervello dialogano sempre: il segreto sta lì e nella fervida risolutezza di spiazzare con motivi validi. Logico allora che il nuovo album Broken Politics scarti nettamente tramutando “retro” in “brand new”. Non un paradosso, siccome basta una canzone sui rifugiati che cuce Move With Me a Karmacoma a spiegare tutto. Ospite (guarda caso…) Robert “3D” Del Naja, Kong punta il dito con lucidità e, dopo l’apertura sul delicato folk al silicio – sapore benvenuto che torna altrove – di Fallen Leaves, trasmette lo spirito di ciò che seguirà: trip-hop mutante e riflessivo figlio della maturità e del desiderio di restare umani raccolto in dieci brani (più due interludi: uno rilegge i Last Poets) che guardano indietro col senno di ora. Hai detto niente. Parimenti significativo che, abbozzata col marito Cameron McVey, la scaletta sia stata perfezionata insieme a Kieran nei Creative Music Studio, fondati dal Karl Berger che decenni fa suonava proprio con il padre (adottivo) Don.

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Conseguenza ne è che l’intimismo di Broken Politics deriva, oltre che da passione e intelligenza, dai legami che uniscono. Il meditare su un politico che è personale e viceversa può pertanto camminare sicuro, a un passo lento poggiato su trame tenui e misurate che mescolano strumenti organici e sintetici, sapienza e comunicativa. Assicurando in tal modo lampi di genio come il sample di Ornette Coleman calato nel mezzo della danzabile Natural Skin Deep, come la stranita, minimale marcetta hip-dub Faster Than The Truth, come una Synchronised Devotion che, lungo ipotesi di Kate Bush in surplus di jazz e melanina, regala la dichiarazione d’intenti “non vivo di nostalgia, ma il segno di ogni cosa risuona”.

Ecco, appunto. Se Black Monday rappresenta il carillon che a Bjork non riesce più e Deep Vein Thrombosis e Shot Gun Shack tessono mestizia vetrosa, il saluto/riassunto appartiene alla seduzione – perfetta nel porgersi tesa però pure malinconica – di Slow Release e Soldier. Tutto troppo bello per essere vero? Niente affatto: tutto bello e fottutamente reale. Casomai non l’aveste ancora capito, la Signora canta il Blue(s).

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Joni Mitchell sui prati sibilanti

Non se la passa benissimo, oggi, la Signora del canyon. Dopo la poliomielite di gioventù e le più recenti artriti e parassitosi allucinatorie, tre anni fa la rinvenivano incosciente tra le mura domestiche a causa di un aneurisma cerebrale dal quale si sta ancora riprendendo. Le auguro ogni bene e non avete idea di quanto faccia piacere leggere che ha rifiutato l’autorizzazione a un biopic con protagonista Taylor Swift (a tutto c’è un limite, sì) e che, fotografata per una campagna pubblicitaria, ha chiesto che sul viso le lasciassero ogni ruga. A qualunque età, un peperino è un peperino… Pazienza se dal 1991 del lampo isolato Night Ride Home, soffocata da rancori e amarcord, Joni Mitchell pubblica poco e male: c’è stato un tempo in cui plasmò il cantautorato femminile con inarrivabile maestria e tanto basta, al cuore e alla Storia.

Joni smoking

Da sempre l’artista canadese maneggia anche pennelli e colori. La cogli, una mano che sgocciola alla Pollock e ipotizza un Hopper umanista in canzoni spesso concepite come quadri o – insegna la metafora dell’epocale Blue – come tatuaggi. In questo fiume di colori che trattengono qualcosa di noi e che assieme a noi invecchiano, per un certo periodo Joni si è cimentata con l’astrattismo ottenendo i risultati migliori al primo tentativo, l’ingiustamente trascurato The Hissing Of Summer Lawns. Che questo LP sia oggetto di adorazione da parte di critici attenti ed eminenti colleghi – per non far nomi: Prince, Kate Bush, Bjork – significa molto alla luce di un linguaggio troppo fuori dagli schemi per il 1975 in cui vide la luce.

hissing cover

Oggi, che al dopo-rock abbiamo fatto l’abitudine, si può apprezzare in pieno il diretto successore di Court And Spark, baciato da un notevole successo che fu fonte di insensate accuse di commercializzazione. Punta sul vivo, Joni rispose con i fatti. Convocati i fidi L.A. Express e qualche ospite (“Skunk” Baxter, Larry Carlton, James Taylor, Nash e Crosby) cavò dal cilindro un post-songwriting di fascino ambiguo e curatissimo nei dettagli. Uno stile che, similmente all‘Africa traslocata sullo sfondo metropolitano della copertina, si dipana con spirito lynchiano (la foto interna ritrae l’artefice in un’amniotica piscina, con un aspetto che non sai se rilassato o inerte) lungo le dissonanze del quotidiano. Di conseguenza la musica richiede attenzione e ripetuti passaggi per svelare strutture scagliate oltre le convenzioni da un saldo centro di gravità e da una forza comunicativa affatto comune.

Joni by Norman-Seeff

Questo sono la cover di Centerpiece che improvvisa emerge e poi riaffonda nella stranita Harry’s House, una In France They Kiss On The Main Street che veste di West Coast il fluido jazz-rock degli Steely Dan e The Jungle Line, che omaggia Henri Rousseau – toh: un pittore! – e preconizza Julia Holter e Volta tra sibilar di moog e tamburi Burundi. Se la tensione sfiora il pelo dell’acqua in Eddie And The Kingpin e Don’t Interrupt The Sorrow vaga nei tropici, la melanconia avant-pop di Shades Of Scarlett Conquering e dell’omonima trama di ritmi e fiati risponde alla sonata meticcia The Boho Dance e al cristallo folk Sweet Bird. Quando tutto termina sull’ambient gospel per voci e sintetizzatore ARP – meraviglia da far invidia a Brian Eno – di Shadows And Light, capisci che chi chiedeva altre Raised On Robbery stava negando alla Mitchell il diritto di evolversi. Sorridi e ricominci da capo, sedotto e ipnotizzato.

Sull’onda della fama, in novembre The Hissing Of Summer Lawns debutta al quarto posto in classifica ma precipita subito. Non se ne preoccupa minimamente la Nostra, appena passata – cito testualmente – “dal reparto hit a quello dell’arte” in virtù di un’opera sul serio perfetta ma non troppo, cioè quel tanto che basta a centrare un’arguzia mai autocompiaciuta. Attraversati i prati estivi, Joni Mitchell si metterà in viaggio sulle “strade blu” d’America e nell’anno del bicentenario concepirà Hejira. Sarà l’ultimo suo Capolavoro.