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Uno nessuno cento Dylan

Dal giorno in cui si salvò con una capriola e un salto dalla motocicletta, alla sua maniera Il Bardo ci ha regalato un Capolavoro per ogni decennio. Lungo una sceneggiatura di squilibrato rigore, abbiamo inghiottito Selfportrait per scaldarci con l’amore che non è più di Blood On The Tracks, ricevuto in dote la magnificenza di Oh Mercy dopo le immersioni nell’acqua santa e guardato lo spessore di Time Out Of Mind schiacciare tanti passi svogliati. Il gioco delle contraddizioni appartiene di diritto all’unico artista che, sfaccettato all’inverosimile, è transitato dalla musica popolare alla letteratura da Maestro indiscusso. Non si incasella Dylan: è mercurio selvaggio. Come potresti, con chi si nasconde dietro le maschere perché – ipse dixit all’epoca della Rolling Thunder Revue – chi le indossa non può mentire?

Lo spiegò alla perfezione Todd Haynes, affidando a Cate Blanchett il ruolo dell’unico Bob iconograficamente fedele dello splendido Io non sono qui: Jokerman è una matassa impossibile da sbrogliare, dunque bisogna lasciarsene avvolgere ed è così che cogli il fascino dei “qualcosa” ancora da capire a distanza di anni, dell’estrema e dichiarata multiformità, del gusto della sorpresa. Per questo il novecento finirà davvero solo con la sua dipartita. Tornando all’attualità, la mano di carte da applauso tardava ad arrivare in un ventennio nel quale ci siamo scervellati, accontentati e (in parallelo con Neil Young) soprattutto affidati agli archivi. Eravamo quasi prossimi alla rassegnazione, finché…

bobby

Finché Rough And Rowdy Ways non ha consegnato i primi autografi dal 2012. Canzoni di ricercata asciuttezza strumentale, vocalità densa e parole che pesano tonnellate. Parole intrecciate ai suoni perché questa è musica che farebbe uno Shakespeare contemporaneo, un pistolero sagace che affida lo spirito di un’epoca a universali profondi da perdercisi dentro. Poesia? Vedo il diretto interessato sorridere sornione nel momento in cui – Giano bifronte che cita Whitman – apre il disco affermando di contenere moltitudini e confessandosi “man of contradictions”. Il che, nello specifico, significa modellare il canone occidentale e incastrarne gli ingranaggi in brani che raccontano l’uomo e la Storia. Nell’intervista al “New York Times” che ha preceduto l’album, infatti, Zimmie spiega che le canzoni nascono da sole e poi confidano sulla sua voce. Pensa a se stesso come un mezzo, non come un messaggio.

Tra certezze vestite da inquietudini e viceversa, ecco piovere blues vibranti (False Prophet, Crossing The Rubicon), valzer mitteleuropei ricamati di pedal steel (My Own Version Of You è Mary Shelley nei solchi di Rain Dogs), errebì romantici aromatizzati doo-wop con rimandi a Jacques Offenbach (I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You), omaggi che trottano tristallegri (Goodbye Jimmy Reed). Quanto al folk eternamente reinventato, lo trovate nella delicatezza ambientale di I Contain Multitudes e in una coheniana Mother Of Muses, nella favolosa e laconica Black Rider e nel crepuscolare commiato Key West (Philosopher Pirate). Quando la “Wasteland” di Murder Most Foul – sistemata su un dischetto separato, a osservare più che a tirar le fila – avvolge con un’amarezza cameristica tra Randy Newman e John Cale, capisci che Rough And Rowdy Ways scintilla qui e ora. Che è un labirinto in cui perdersi e riflettere, perché sbaglia chi in Bob Dylan cerca risposte: soffiano nel vento, le malandrine, e acchiappale tu se sei capace. A settantanove anni, Bob continua a porre domande e a sciogliersi dalle catene come Houdini. Sa che il poeta è un fingitore. Noi, invece, ancora dobbiamo farcene una ragione.

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Giorni di un domani passato: Bill Fay

La storia della musica popolare è attraversata anche da artisti che in qualche modo riescono a modellare la malasorte. Bill Fay è uno di loro. Ed è uno per il quale il termine superculto sembra cucito su misura, essendo rimasto patrimonio di pochissimi fino al nuovo millennio, allorché David Tibet e fan divenuti valenti discepoli come Jim O’Rourke, Marc Almond e Jeff Tweedy lo riportavano sotto i riflettori. Si poté così constatare l’attualità e il peso del suo folk-rock ombroso e progressista, sia grazie alle ristampe dei primi due LP che alla coppia di lavori del “ritorno al futuro” editi lo scorso decennio dall’americana Dead Oceans. Tutta di alto profilo la discografia di costui, benché smilza in ragione della trentennale assenza dalle scene causata dall’annullamento del contratto con la Deram. Consegnato nel ’71 il Dylan post-apocalittico del magnifico Time Of The Last Persecution, l’etichetta licenziava Bill per le scarse vendite e lui, in tutta risposta, mollava lo showbiz e si guadagnava il pane da impiegato.

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Non smetteva di scrivere, suonare e incidere, per fortuna. E per fortuna, prossimo alle settantasette primavere, è ancora tra noi a gioire di un po’ di gloria. Sorge allora spontaneo un parallelo con Michael Chapman: simili destini, l’acuta trasfigurazione del folk, una fiera determinazione che li sorregge e li guida. Caratteristiche che ritroviamo anche in Countless Branches, album che il cantautore londinese pubblica oggi e che del tutto nuovo non è. Poi spiego meglio, ma ora mi preme sottolineare che con esso si celebra mezzo secolo da un altro trentatré giri, cioè l’omonimo esordio di Fay rievocato in foto promozionali che trasportano al qui e ora lo scatto di copertina e, più simbolicamente, in un titolo significativo come “rami infiniti”, che mi piace pensare alluda alla tradizione – al folk! – che cambia restando se stessa.

Dicevo di un piccolo distinguo: la scaletta proviene dal taccuino degli appunti del songwriter, tuttavia parole e melodie sono di nuova ispirazione. Ancora sfuggente dopo tutti questi anni, l’uomo sarebbe da applaudire anche solo per l’intelligenza e la caparbietà del gesto, non fosse l’esito emozionante più che mai. La decina di pezzi offerta da Countless Branches (cui è da aggiungere una manciata di versioni elettriche, ripescaggi e inediti dell’edizione “deluxe”) trova nell’essenzialità e nell’estrema concisione la ragione d’essere. Confermati Joshua Henry in regia e il cast di strumentisti, i toni sono minimali e raccolti, gli ambienti occupati dal pianoforte, da una chitarra scarna e dalla voce dolente di Bill. Sistemata un’occasionale batteria qui e laggiù un lieve tocco di archi e fiati, l’arredo rimane comunque improntato allo stretto necessario per non distrarre dall’intensità delle composizioni.

branches

Di conseguenza, non risultano affatto intimorenti la delicata afflizione di Salt Of The Earth, l’ipotesi di un Oh Mercy cameristico realizzata in Time’s Going Somewhere e How Long, How Long e una Your Little Face che veste Will Oldham con la stoffa dell’ultimo Cohen. La spiritualità e l’espressività che trattengono sono qualità rare, come sottolineano la dolceamara In Human Hands e gli “inni sommessi” Filled With Wonder Once Again e Love Will Remain, la pura commozione di una One Life da giovane Tom Waits e il laconico intimismo di I Will Remain Here e della title-track. Un avviso: più che con “semplici” canzoni, qui abbiamo a che fare con pagine di prezioso crepuscolarismo d’autore. Il consiglio è di custodirle con cura, perché ve ne innamorerete seduta stante.

Le maschere di un poeta: Bonnie “Prince” Billy

La vetta più alta che l’artista può raggiungere è lo status di classico. Del modello un po’ monello che, sancito un prima e un dopo, conserva lo spirito della propria epoca allorché lo trascende. E nell’Olimpo c’è anche chi ha fatto di inafferrabilità virtù e spesso sono costoro gli Dei e le Dee che affascinano in maggior misura. Questo il segreto dell’inesistenza di un “vero” Bob Dylan, di un Neil Young che alterna la quiete ai mari di elettricità, delle metamorfosi con le quali Tom Waits, Bjork e PJ Harvey ricavano Arte dallo scorrere del tempo. Sono maschere di vita che riflettono chi le indossa e raccontano storie. Così, anche con Will Oldham ogni pretesa di considerare definitiva un’identità si riduce a mera presunzione.

Venendo al qui e ora, da dieci anni avevo la netta impressione che il Principino fosse dedito al cazzeggio d’autore. Prima che gridiate a lesa maestà, lasciatemi spiegare: dallo zenit I See A Darkness, Will ha girato attorno alla sua cifra stilistica con genialità, estro e classe; intatte le emozioni e l’arguzia, seguitava a consegnare canzoni di alto livello. Tuttavia, da The Wonder Show Of The World la brillantezza è venuta meno e le uscite seguenti – scintillante eccezione l’album con i Trembling Bells – parevano nascondere un blocco dello scrittore o la precoce senilità. Comunque, proprio quando stavo per consegnarlo a un mestiere che non gli si confà, Mr. Oldham mi ha fregato. Dicevi delle maschere, scusa?

BPB

I Made A Place contiene infatti i primi nuovi autografi dal lontano 2011 (dodici più Mama Mama, traditional di retrogusto tex-mex) e indica la maturità di chi è diventato padre conservando – ritrovando? – le illogiche del poeta fingitore. Di chi utilizza mezzi tradizionali (country a bagno in folk e rock; arrangiamenti asciutti, attenti all’intarsio e con azzeccati risvolti fiatistici) per giocare con l’abbraccio tra musica e parole, trattate come amanti appassionati dal Maestro che indica una direzione conducendo altrove. Forse verso il luogo cui allude il titolo/sciarada dove un “have” appare e scompare dalla confezione: difficile stabilirlo, perché – giova ribadirlo – a contare è l’enigma in sé. Lo stesso vale per l’esistenza: complicata, misteriosa, disseminata di spazi grigi generosi di epifanie. E, va da sé, per un disco idealmente riassunto da Look Backward On Your Future, Look Forward To Your Past e la sua idea di passato e futuro che si scambiano i ruoli soppesando i massimi sistemi.

made a place

L’acusticheria scherzosa memore di Woody Guthrie è uno dei tanti gioielli in una scaletta solidissima e svelta a imprimersi in testa, dal Gram Parsons a capo dei Waterboys di New Memory Box, The Devil’s Throat e Squid Eye a una title-track insieme trasognata e acidula, passando per l’aura albionica anni ‘70 di Dream Awhile, una This Is Far From Over metà Bryter Layter e metà Astral Weeks e il soul celtico in jazz di Nothing Is Busted. Culmine un trittico finale lungo il quale gli spettri amichevoli di ance e voci che avvolgono The Glow Pt.3 conducono alla scintillante lamina emotiva Thick Air e a una sospesa, tersa Building A Fire. Una delle sequenze migliori mai allestite da Oldham vive di un’intensità che lascia senza parole, laddove il resto porge dolcezza e melanconie che scaldano l’anima nel profondo. Perché così è la vita e così s’ha da cantarla. Bentornato Prince Billy, ma chissà se davvero sei stato via.

Ian Hunter, golden aged rock ‘n’ roller

Da ragazzo seguivo i Mott The Hoople lungo il paese saltando sul treno senza pagare. Era un periodo meraviglioso: tutto ciò che volevo era suonare la chitarra. Nient’altro.” Il giovanotto cui devo la citazione la suonerà eccome, quella chitarra. Così bene da superare Maestri coi quali, galantuomo, saprà sdebitarsi. Di lui avrete certo sentito parlare: si chiama Mick Jones. I Mott The Hoople facevano questo effetto a chi poté viverli, poiché erano – Kris Needs dixit – “the people’s band”, il gruppo della gente e per la gente che rispettava il pubblico perché da là veniva e ne andava fiero. E ottenne un agognato riscatto percorrendo una via tortuosa portando con sé appassionati e colleghi.

Tra questi, altri hanno raccolto la fiaccola come Morrissey, Grant Lee Philips e Michael Stipe, fan terminale che all’epoca di Lifes Rich Pageant modellò il look su Ian Hunter e che ha citato i Mott in Man On The Moon traendone ispirazione per Monster e New Adventures In Hi-Fi. Devozione e interesse perdurano, come dimostrato dai recenti box Mental Train: The Island Years 1969-71 e From The Knees Of My Heart: The Chrysalis Years, incentrato sul biennio ‘79-‘81 del solo Hunter. In fondo, ditemi come si fa a non voler bene ai Mott The Hoople: canzoni romantiche e argute, dignità conferita al glam e trucchi insegnati al punk sullo sfondo di una brillante “terza via” tra la dimensione art dei Roxy Music e la sognante sensualità bolaniana. Cuore, muscoli e poesia che si fondevano parlano tuttora a chi sa ascoltare.

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Pensare che gli inizi non furono granché… A metà ’60, tali Doc Thomas Group “vantano” un LP di cover registrato in Italia e concerti sulla riviera romagnola. Chiusa la parentesi, Peter “Overend” Watts (basso), Dale “Buffin” Griffin (batteria), Mick Ralphs (chitarra) e il cantante Stan Tippins accolgono l’organista Verden Allen diventando i Silence. Vanno a Londra e nessuno se li fila finché Ralphs irrompe nell’ufficio del produttore Guy Stevens – vedi alla voce London Calling – sbattendogli un demo sul tavolo. Detto, fatto: band assunta alla Island senza Tippins (da qui fedele tour manager), ribattezzata come sappiamo e raggiunta da un nuovo cantante, Ian Hunter Patterson. Tra cinque e dieci primavere più degli altri, ha famiglia e un passato in fabbrica ma adora Jerry Lee Lewis, Little Richard, Bob Dylan e scrive, canta e pesta sul pianoforte.

In una settimana del ’69 è pronto l’esordio omonimo che mostra il felice bipolarismo tra il rock stradaiolo di Ralphs e le ballate stile Blonde On Blonde scritte da Ian. Il sessantaseiesimo posto in madrepatria cagiona la tournee che sfocia in USA, influenzando a fine decennio un Mad Shadows dove foga e introspezione si bilanciano poco anche per l’incapacità a catturare in studio la potenza di spettacoli in cui la band chiede solo una sterlina per l’ingresso, introduce di nascosto i kids più accaniti e li accoglie sul palco. Punk? Sì, grazie. Intanto in Wildlife Guy latita e si sente, l’attitudine incompromissoria procura rogne e idem il divorzio del frontman. La rabbia è trasmessa a giovani che mettono a soqquadro la Royal Albert Hall e canalizzata in Brain Capers, che recupera terreno con il rientrante Stevens.

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I Nostri sono comunque messi alla porta e toccano il fondo a Zurigo, esibendosi in una stazione di benzina dismessa. A scioglimento deciso, il tifosi di lunga data David Bowie propone un contratto Columbia più l’inedita Suffragette City: Hunter e soci chiedono Drive-In Saturday e ci si accorda su All The Young Dudes. Buffo che uno degli inni glam passi alla storia grazie a una gang di proletari etero, ma del resto tali erano anche i Ragni Marziani, a conferma che quell’epopea fu un teatro di sottintesi e con-fusione, del rivelare il gioco per smontarlo e rimontarlo. Per questo immagino Malcom McLaren che prende appunti in un’estate albionica del 1972 in cui il brano sale al terzo posto. Pochi mesi dopo, nell’LP omonimo Bowie produce e perfeziona l’altrui talento in un’atmosfera di colta decadenza urbana.

Aperto con la dichiarazione di intenti della velvetiana Sweet Jane, è imperdibile e fascinoso nei Roxy lividi di One Of The Boys e nel commiato orchestrale Sea Diver, nell’hard stiloso e asciutto Ready For Love/After Lights e nel Lou Reed storto e blues di Momma’s Little Jewel, in una Jerkin’ Crocus profumata d’asfalto bagnato e nella viziosa Sucker. L’inatteso clamore sgretola i rapporti: nel ‘73 Morgan Fisher subentra alle tastiere. Uscito di scena Ziggy, Mott reagisce con la trascinante raffinatezza di All The Way From Memphis e Honaloochie Boogie, il sensazionale “proto post-punk” Violence, le sculettate à la Jagger di Drivin’ Sister e la meditativa Ballad Of Mott The Hoople. La diaspora però non si arresta: Ralphs forma i Bad Company, rimpiazzato da Luther Grosvenor/Ariel Bender quando in lizza c’erano Joe Walsh, Ronnie Montrose e Tommy Bolin.

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Nonostante qualche eccesso, l’anno seguente The Hoople piace per le epidermiche The Golden Age Of Rock & Roll, Roll Away The Stone e Born Late ‘58, una Crash Street Kidds che omaggia gli Sparks anticipando gli Only Ones, la dylaniana Trudi’s Song. Ci si imbarca nell’ennesimo giro concertistico – primi rockettari a invadere Broadway: ancora i Clash prenderanno nota – riassunto da Live, incendiario preludio al 45 giri spectoriano Foxy Foxy e alla celebrativa Saturday Gigs. Ultimi guizzi, ché mi resta ancora da riferire di Mick Ronson che scalza Bender, del capobanda che si chiude in ospedale con l’esaurimento nervoso, poi esce e inizia la carriera solista. Degli altri che tirano a campare come Mott fino al ’76, poi diventano British Lions e infine spariscono.

Di Hunter sono da avere almeno You’re Never Alone With A Schizophrenic del ’79, con Mick più mezza E-Street Band,  Short Back n’ Sides, dove due anni dopo sempre Jonesy supervisiona un magico mix tra London Calling e Sandinista! Welcome To The Club, superba fotografia dal vivo. Le strade dei Mott The Hoople si incroceranno sporadicamente con le voci sulla rimpatriata fino all’autunno 2009, quando la formazione quasi completa tiene alcuni concerti a Londra. Il tutto esaurito fa sì che un evento in teoria unico sia replicato, malgrado il decesso di Griffin nel gennaio 2016 e di Watts un anno e rotti dopo. Pur disapprovando, capisco il tentativo di esorcizzare Crono. I veri rocker sono umani che l’Arte trasforma almeno per un giorno in Eroi. Felice compleanno, Mr. Hunter.

Kevin Morby: a soul on the road

Come scrissi a proposito del rock’n’roll romantico Elliott Murphy, nei primi anni Settanta la caccia ai “nuovi” Dylan causò più danni della grandine. Altresì vero che il rock abbonda di gente schiacciata dai propri modelli, talvolta immeritatamente e per prevenzione di chi ascolta ma nella maggioranza dei casi per mera mediocrità. La popular music in sostanza è un’arena dove chiunque inizia “facendo come” qualcun altro e, per selezione naturale, i migliori a un certo punto fanno come se stessi. Ecco: Kevin Morby sta un po’ nel mezzo, tuttavia pare indirizzato sulla strada giusta.

Talento di provincia ispirato dal nomadismo insito nella cultura statunitense, è uno sradicato (il padre lavorava per la General Motors, portandosi dietro la famiglia nei tanti spostamenti) che ha imparato presto a contare su di sé, sviluppando l’introspezione che a un cantautore torna sempre utile. Quasi fosse segnato dal destino, nasceva in quella Lubbock trentuno anni fa e, dopo un lungo vagare per il Midwest, approdava a Kansas City; diciottenne, si trasferiva a Brooklyn e quattro calendari dopo imbracciava il basso per i Woods e fondava i Babies con Cassie Ramone delle Vivian Girls.

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Tutte prove tecniche per il salto col quale nel 2013 lasciava anche la Grande Mela per L.A. tuffandosi nel frattempo anche dentro il pozzo della tradizione. Quando usciva allo scoperto con Harlem River, l’omaggio alla metropoli d’adozione parlava la lingua di un songwriting confessionale ampiamente storicizzato. Nulla di male, siccome mantenendosi lontano da stilemi e fotocopie, Kevin regalava belle promesse e una gemma come la dilatata title-track. Successivamente Still Life, Singing Saw e City Music hanno sottolineato la qualità della sua Americana sospesa tra urbano e bucolico, tenebre e luci, acustico ed elettrico.

Dallo scorso aprile, in tale contesto Oh My God segna un altro passo disinvolto e sicuro. Di esso non respingono la natura di esplicito concept incentrato sulla religione – in realtà si tratta di un senso di spiritualità interiore – né una copertina un po’ così. A svelarne la natura contribuisce la scintilla a monte: nel gennaio 2017, il sodale Sam Cohen suggeriva a Morby sonorità policrome però più del solito minimali. Raccolta la sfida, il disco veniva terminato entro altri dodici mesi.

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Il rimettersi in gioco e la calma si sono di conseguenza saldate alla maturità in un lavoro che maneggia il suono americano – ma non solo… – con la conoscenza della storia e un’acuta contaminazione. Del tipo che svecchia la classicità quel tanto che basta per cancellare gli eccessi di conservatorismo e mescolare le carte. Da qui una Seven Devils di melanconia epica prossima al Bill Fay di Life Is People, la Nothing Sacred/All Things Wild che spedisce Zimmie con le mani umide d’acquasantiera a fare già i conti con Oh Mercy, i lustrini mescolati al gospel sulla Highway 61 di OMG Rock’n’roll, una Hail Mary che dalla cantina di Big Pink ipotizza un diverso Blonde On Blonde.

Testimone una versione metropolitana di The Band, la title-track benedice l’incontro tra l’autore di Time Of The Last Persecution e Sua Bobbità, altrove rinsavito da No Halo e I Want To Be Clean. E se Piss River avvolge il cuore come una giostra al calar della sera, Savannah e Sing A Glad Song rasserenano l’artista che Ballad Of Faye ossequia nel titolo, essendo la forma un inquieto strumentale jazz. Appropriatamente, è l’elegiaco soul dell’uomo bianco O Behold a chiudere un “difficile quinto album” dove Kevin si fa notare e anche ricordare. Dati i tempi, non mi pare poco.

D’amore e altri delitti

Cantava Ian Curtis che l’amore può farci a pezzi. Del resto il Sentimento Sommo si è disegnato così: rugginoso come un coltello o lieve come il respiro in inverno, entra nella vita senza chiedere permesso e scombina tutto. Quando sparisce non lascia biglietti, perché presto o tardi ritornerà. Così non smettiamo di credere in lui, sebbene tra una visita e l’altra ci pieghiamo sotto ricordi tristallegri, sensazioni assenti, aspettative frantumate. Finché un bel giorno – fateci caso: quel dì non piove mai – i cocci si sono arrotondati, brillano e non fanno più sanguinare. Chissà che la prossima volta quel birbante non decida di fermarsi per sempre…

Da par loro, gli scrittori di canzoni ne sanno ben più di qualcosa. Hanno la (s)fortuna di raggiungere milioni di persone ragionando sulle sciagure sentimentali. Autentiche o romanzate, non importa. Conta che un vinile divenga il luogo dove l’esperienza personale trascolora in universale; conta che l’ascoltatore si riconosca e si senta meno solo. La tradizione delle pene d’amor perdute è tagliata su misura per il songwriting e, lungo una strada non a caso lastricata di capolavori, conduce là dove l’amore fa male però bene.

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Giusto allora iniziare un rapido excursus dall’uomo che più di ogni altro ha segnato il secolo scorso: in Blood On The Tracks Bob Dylan distillava rancore e lo convertiva in poesia tramite vertici come Tangled Up In Blue, Shelter From The Storm e Buckets Of Rain. In un Classico che sancisce il definitivo addio ai Sessanta, spostava l’accento da “noi” a “io” riflettendo su una tormentata separazione e affidando a versi che qui esplodono e là ripiegano su se stessi la gamma di sentimenti racchiusa tra l’amara If You See Her, Say Hello e una rabbiosa Idiot Wind. Condotto da una voce inimitabile e un tessuto strumentale spartano però efficacissimo, di rado il tuffo in un pozzo d’ira e nostalgica recriminazione è stato tanto meraviglioso.

In un 1975 che gronda scontento e riflusso anche Paul Simon transita sotto analoghe forche caudine. Del vendutissimo Still Crazy After All These Years bisogna nondimeno leggere i testi per capirlo, giacché gli strascichi del divorzio sono avvolti in un jazz-rock solo a tratti ombroso e amarognolo. Coppie che scoppiano e altre che si ricongiungono: nella dolce My Little Town si riaffaccia Art Garfunkel e non sarà tutta colpa di Freud, altrimenti come spieghi l’appiccicosa 50 Ways To Leave Your Lover e il gospel’n’roll Gone At Last, il sax che scartavetra Have A Good Time e un’immensa Silent Eyes che diverge dal tema affrontando l’Olocausto?

paul simon

La spiegazione si chiama “talento supremo”. Esperta navigatrice delle maree emotive, in carniere Joni Mitchell vanta almeno due capi d’opera ed è il secondo in ordine cronologico a raccattare frammenti di vita per conferirgli un senso. Nell’anno del bicentenario americano, la Signora del canyon percorre in auto la terra d’adozione e raccoglie gli appunti seminati in Hejira tra folk trasparente (Coyote, Amelia) e fantasmatico (A Strange Boy), metafore indecise tra sogno e realtà (Song For Sharon, Black Crow) o polaroid in jazz (Refuge Of The Road).

Sulla sponda opposta dell’Atlantico il colosso Richard Thompson ha sempre sfoggiato una rara chiarezza di visione, sia nei Fairport Convention che da solo e con la (ex) consorte Linda. Del mazzo di LP editi con costei è l’ultimo a figurare nel club dei lonely hearts. Composto due anni prima ma temporaneamente accantonato, nell’82 Shoot Out The Lights sanguina folk-rock severo ed elegante, profetizzando l’allontanarsi del duo in un botta e risposta di ugole e corde magiche. Più che altrove, nella vespertina Just The Motion, nella dolente Did She Jump Or Was She Pushed e nell’innodica Wall Of Death.

 beck[1]

A volte ci si (ri)costruisce un domani vestendo ricordi e speranze con colori che paiono antichi e invece trattengono con sé la modernità. A inizio millennio Beck sorprendeva con la quiete apparente di Sea Change, meditare sulla separazione da Winona Ryder che chiudeva temporaneamente in un cassetto lo stupefatto cinismo della Generazione X e le mirabolanti contaminazioni rifugiandosi in alvei elettroacustici (The Golden Age, It’s All In Your Mind) e ossimori sonori (Lost Cause), in orchestrazioni spedite dietro ai moti dell’anima (Paper Tiger, Lonesome Tears) e reinvenzioni drakiane (Round The Bend, Side Of The Road). Sintesi perfetta di antico e moderno che consegnava un apice in seguito mai più raggiunto.

Annotazione che vale anche per Jason Pierce, rientrato ventuno anni fa nella Storia – già vi erano stati gli Spacemen 3 – con Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space. Parte integrante del DNA di Mr. Spaceman è la caparbietà con la quale esorcizza crisi esistenziali e di salute attraverso il potere catartico del suono. Essendo il presupposto di Ladies And Gentlemen… l’addio dell’Astronauta a Kate Radley, fidanzata e tastierista della band che gli aveva preferito il clone Richard Ashcroft, l’alterazione mentale si fonde all’afflizione in un album immane e unico. Psichedelia che si fa gospel che si fa wall of sound spectoriano sul confine (im)possibile dove Philip Glass produce gli MC5 e i Suicide nascono a New Orleans, scaglia nel più alto dei cieli melodie di una bellezza che sbrindella l’anima.

Ladies-and-Gentlemen-We-Are-Floating-in-Space_1[1]

Il ritorno sulla terra sarà relativamente più agevole accostandosi a Domestica, che nel 2000 esemplificava al mondo l’emocore, evoluzione ultima del punk piegata nella sincerità confessionale dell’hardcore. In un ambito assai affollato, i Cursive – band del Nebraska che ruota intorno al cantante Tim Kasher – si sono ritagliati un ruolo primario soprattutto in ragione di questo terzo LP. Strutture complesse, canto espressionista e oblique allegorie incentrate sul disfarsi della vita coniugale compongono un intenso rosario di canzoni. Come spie nella casa dell’amore che non c’è più, gioielli della caratura di The Martyr e A Red So Deep sigillano il genere un attimo prima che si trasformi in baggianata per adolescenti.

Chiude il cerchio Justin Vernon/Bon Iver, ennesimo cantautore nascosto dietro una sigla “da gruppo” che un decennio fa debuttava con lo scintillio For Emma, Forever Ago. Oggi Justin per lo più suscita sbadigli, ma all’inizio fu un moderno Thoreau disilluso dall’amore che leniva le ferite nei boschi del Wisconsin. Dopo alcuni mesi in parte spesi a spaccare legna e camminare per “svuotarsi” fisicamente, offriva saggi di post-folk minimale e accorato che trascinano dentro l’essere umano. Incurante di epoche e mode, è un’opera destinata a durare nel tempo come le altre che ho radunato qui, per testimoniare quanto soffrire lasci tracce indelebili e come queste cicatrici, in qualche bizzarra e fascinosa maniera, ci possano cullare. Anche se only love can break your heart, buon San Valentino a tutti…

 

Billy Bragg e la politica del cuore

Si dice che gli uomini progettino e gli dei decidano. Da ateo, credo che la vita disegni una trama che attraversiamo, a volte cogliendone il senso e a volte no. Questo breve preambolo per informarvi che l’insediamento di una misogina, fetida canaglia alla Casa Bianca ha sconvolto il piano di “Turrefazioni” e che sul piatto gira e rigira un disco che a trentuno anni dalla pubblicazione è attuale più che mai. Anche da questo si riconosce un Classico, per quanto la statura di Talking With The Taxman About Poetry fu chiara da subito per svariate ragioni.

Perché fu la scommessa vinta del “difficile terzo album” indicata con somma autoironia dall’autore sulla copertina. Perché il titolo, preso dalla poesia di Majakovski riportata nella busta interna che analizza il rapporto tra artista, pubblico e società, incornicia dodici gioielli. Ognuno scolpito da un fiero e moderno songwriter, colto nell’atto di maturare la propria geniale idea di unire il berciante Zimmerman e i Clash barricadieri. Perché Billy non è un bugiardo ed entra nel novero dei Grandi.

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La Voce del Nasone, espressiva e riconoscibile come poche, ora è più “calda” e tuttavia conserva il tono e il respiro proletari con pieno beneficio della varietà di contenuti e atmosfere dei brani. Da abbraccio fraterno trasforma l’innodico traditional There Is Power In A Union in un’ode al sindacato britannico mentre l’eco dello sciopero dei minatori vibra nell’aria; con fermezza, ripesca dal passato la sferragliante Train Train dei Count Bishops; si immalinconisce nel racconto breve Greetings To The New Brunette con i ricami di Johnny Marr e della sfortunata Kirsty MacColl.

Non ha ritrosie Billy a porgere sentimenti universali spogliati da ogni orpello sonoro o retorico. Ascoltateli volteggiare attorno a una tromba nell’amara The Marriage, dipingere la solitudine opprimente nel country-folk metropolitano Whising The Days Away, invocare soccorso per una generazione col vuoto attorno nella caustica Help Save The Youth Of America. Poi ditemi quanta dell’acqua passata sotto quei ponti è tornata indietro.

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Non di sola musica devo parlare a proposito del (tenero) compagno Bragg, siccome Talking With The Taxman About Poetry segna la conquista di un definitivo equilibrio anche poetico. Perché questa è poesia che, autentica e imperitura, parallelamente agli arrangiamenti comincia ad affinare ulteriormente una visione in cui accusa e riflessione, sociale e privato, politica e sentimento sono indistinguibili. Sta anche lì la forza di un messaggio che parte dal cuore e al cuore arriva senza proclami e sloganismi.

Accorato e sferzante come i “pensieri d’amore e del presidente Mao” della tenera The Warmest Room. Come la forma e il contenuto di un Ken Loach che baratta la macchina da presa con una chitarra allorché la scelta della “parte” dalla quale stare poteva essere faticosa e drammatica, ed ecco spiegato l’indice puntato di Ideology. Come Canzoni che ti investono e travolgono, tu che nell’inverno 1986 eri adolescente o adulto o addirittura ancora non eri.

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Tu che a ogni ascolto sobbalzi e ti scopri a esclamare che cazzo, sì, le cose stanno veramente così! Tu che ti emozioni davanti ai (melo)drammi e alle gioie della vita di coppia affrescate con umorismo e un pianoforte da balera (Honey, I’m A Big Boy Now), alle masse di individui dentro il fiume impetuoso della Storia (The Home Front), al microcosmo quotidiano che si espande meditabondo (The Passion). Ascolti, ti indigni, vuoi agire, rifletti. Nel frattempo rammenti che la salvezza sta anche nell’attaccamento a ciò che conta: la sublime Levi Stubbs’ Tears arriva e ti taglia l’anima in due per ricucirla subito con un bacio.

Pensieri e parole di una bellezza che il tempo ha confermato materia da tramandare alla stregua dei Guthrie, dei Dylan, dei Gramsci, dei Pasolini. E di tutti gli altri Amici ai quali ti rivolgi nelle ore luminose e in quelle buie perché loro sanno. Gli anni che mi separano dal primo incontro con questo Capolavoro sono volati via. In un attimo, in tante vite. Nel frattempo pare che il mondo sia radicalmente cambiato. Sarà per questo che spaventa come e più di allora?

Lo show acquatico di Elliott Murphy

Nei primi anni ‘70 si diffuse tra la stampa musicale una tendenza dagli esiti spesso nefasti: approfittando del momentaneo cincischiare dell’Unico Originale, si andò in cerca di “nuovi Dylan”. In retrospettiva è lampante quanto ciò fosse azzardato e scorretto verso chi cercava e magari già possedeva un’identità. Basti pensare a Springsteen, a sua volta accidentale iniziatore della caccia al prossimo Bruce. Oppure a Elliott Murphy, poeta rock nell’accezione alta di chi del songwriting offre una parafrasi riconoscibile e vitale, mai appiattita sullo stereotipo. Colto e privo di ampollosità, ispirato dallo Zimmie della virata elettrica e dal concittadino Lou Reed, Murphy è una sorta di Ian Hunter d’oltreoceano, un visionario intellettuale in paesaggi urbani di robusto minimalismo.

Da parte sua, preferisce tagliarla corta e definirsi un troubadour, vivendo da decenni in Europa come gli adorati scrittori appartenenti alla “generazione perduta”, da volontario espatriato che conosce la storia e possiede stile e carisma per arrivare al cuore e restarci. Di questo Fitzgerald rock’n’roll che non è diventato famoso, ci culliamo le canzoni che paiono film o romanzi, scritte con una Telecaster in braccio e “Tenera è la notte” sul tavolino.

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Classe 1949, Mr. Murphy da Garden City, Long Island, si prende quasi un quarto di secolo a esordire su disco. Figlio di un’attrice e di un organizzatore di spettacoli acquatici, da bambino alterna le serate in compagnia di Duke Ellington e Count Basie a Elvis che in televisione lo sconvolge. Per combattere l’introversione, mamma gli fa prendere lezioni di chitarra e da adolescente lui tende l’orecchio alle nuove band inglesi, a blues e soul, al revival del folk. Apprezza Kinks e Jefferson Airplane, consuma Blonde On Blonde e Highway 61 Revisited e a New York non si perde un concerto. Eppure è irrequieto. Vuole allargare gli orizzonti, forse allontanarsi dal ricordo di un padre scomparso troppo presto lasciando un vuoto nell’anima. Attraversato l’Atlantico, sbarca il lunario suonando successi altrui e primi autografi nelle strade di Amsterdam, Parigi e Roma. Trascorre due anni a tonificarsi così la scorza, poi torna a casa, forma gli Aquashow e si fa notare da Danny Fields, già alle turbolente corti di Doors, MC5, Stooges.

Una sera costui lo presenta a Lou Reed e i due si piacciono: Elliott ha nel cuore i Velvet e di lì a dodici mesi verga le note di copertina del Live 1969, grazie anche a un pezzo grosso della Mercury, Paul Nelson. Fin qui il biondo è uno dei tanti che gravitano attorno a sogni e aspirazioni, nondimeno getta solide basi esibendosi al Max’s Kansas City e al Mercer Arts Center con Patti Smith e New York Dolls. Ancora non lo chiama punk, però ne afferra l’energia che attualizza lo spirito dei ‘60. Spetta a un coraggioso equilibrismo tra presente e passato segnare una svolta: nel gennaio 1973 Murphy infiamma per tre sere consecutive il Mercer, mentre Nelson bussa alla Polydor con un demo millantando di aver già chiuso un contratto altrove. Astuta la mossa, convince la qualità dei brani. Tempo una settimana, Murphy è a Los Angeles che si scontra con chi vuole cucirgli addosso panni da controfigura degli Eagles. Non può funzionare.

Elliott Murphy - Aquashow[1]

Si riparte dalla fedele NY con il fratello Matthew al basso, le tastiere di Frank Owens, già con Dylan, e l’ex batterista dei Byrds Gene Parsons. Stavolta è capolavoro. Spartana ed essenziale la produzione, dal ’73 Aquashow brilla del titolo che omaggia il babbo, della copertina memore di Subterranean Homesick Blues, di un vigore e un romanticismo offerti da chi è all’apice dell’urgenza espressiva. E per questo, temprato dalla lunga gavetta, disegna un universo favolosamente maturo: ironico e amaro, riflessivo e tagliente, colmo di canzoni abbaglianti che trasportano il Dylan del ’65 nei solchi di Loaded, fondendo linguaggi non esattamente confinanti dentro un sottile velo di incertezze. Neppure una ruga per il classico Last Of The Rock Stars e l’innodia amara di Don’t Go Away, per le radici nere di Hangin’ Out e i Mott The Hoople a spasso per la Bowery di How’s The Family, per le mescolanze tra frenesia e umoralità di Graveyard Scrapbook e Like A Crystal Microphone, per la sciolta e caracollante White Middle Class Blues e i Modern Lovers in controluce dell’ineffabile Marilyn.

La critica in visibilio, da qui le cose vanno principalmente per il verso sbagliato.  Faccio breve una storia che ho raccontato per esteso anni fa, su pagine che allora ancora esistevano. Le modeste vendite di Aquashow causano il passaggio alla RCA per il seguito Lost Generation, bello assai e tuttavia inferiore a Night Lights, che in capo a un triennio libera Elliott dal ruolo di next big thing tramite ballate fragranti di neon e rose.

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Arrivano però altri casini in groppa a un individuo che, spazientito, gioca un’ultima carta con la Columbia. E’ il Settantasette e colà stanno cercando di tramutare Springsteen in stella di prima grandezza: spediscono Murphy a Londra a registrare, ma Just A Story From America è debole e manda all’aria amori e amicizie. Un ego di cristallo crepato e bisognoso di cure ricomincia da sé, gira ancora l’Europa con chitarra e armonica accorgendosi che quaggiù qualcuno lo ama.

Dopo un lustro, Elliott si autoproduce l’eccelso folk-rock aromatizzato new-wave di Murph The Surf, col quale entra negli Ottanta tra alti (Party Girls & Broken Poets, Change Will Come) e qualche perdonabile basso. Intanto medita di trasvolare l’Oceano in via definitiva. Nel 1990 passa da mister a monsieur contraccambiando l’affetto del Vecchio Continente e seguendo Francoise, amore della vita che nello stesso anno gli regala un figlio. Da qui il fervore da “nuovo inizio” che attraversa 12, doppio che inanella perle e vive dello spirito appagato di chi non ha bisogno di rincorrere la vanità. La stessa saggezza tuttora spinge Murphy a fondere arte e vita sudando sui palchi e calando un ennesimo asso: nel 2008 Notes From The Underground entusiasmava con slancio e riflessione, acustiche limpidezze ed espansioni del canone. Chiudo il cerchio e con l’ultimo parallelo dylaniano lo dico un Time Out Of Mind meno oscuro. Augurandomi che le giovani generazioni ne prendano l’autore a modello, ché di rock intriso di sentimento e sagacia c’è bisogno. Da qui all’eternità.