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Jim Ford: Kentucky soul brother

Fino al 2011, quando mi sentivo in vena di soulmen dal viso pallido bussavo alle porte dei gentiluomini sudisti Bobby Charles, Eddie Hinton e Tony Joe White. Quello stesso anno però Light In The Attic ristampò Harlan County, solo e unico album di Jim Ford che da allora è nel novero degli amici fidati con i quali consolarmi. Cercando informazioni sull’artefice mi imbattevo in un’altra ristampa, per Bear Family e risalente a quattro anni prima, con la scaletta allungata e il titolo modificato in The Sounds Of Our Time mentre Light In The Attic optava per la grafica originale e una rimasterizzazione. L’aspetto spiacevole della faccenda fu invece scoprire che Ford era già deceduto, sessantaseienne, il diciotto novembre 2007.

Tempismo amaro, considerato che dietro l’angolo attendeva un concerto in terra britannica per raccogliere fondi e mandarlo in studio con quel geniaccio – riposi in pace anche lui, che compiva gli anni tre giorni fa – di Jim Dickinson. Vaffanculo, destino. Potevi sforzarti e conservare ancora un po’ tra i mortali chi venne portato in palma di mano da Sly Stone e Bobby Womack e che Nick Lowe (curiosate nei crediti di Jesus Of Cool…) considera influenza principale; chi aveva ascoltato le proprie composizioni sgorgare dalle ugole di Bobbie Gentry, Aretha Franklin e dei Temptations; chi era idolatrato da Ronnie Wood e dal pub rock britannico.

jim ford

Impreco di rabbia al pensiero e ancor più riascoltando Harlan County. Perché questo sincero soul campagnolo al crocevia tra gli Stones e il Van Morrison più negroide avrebbe meritato il plauso del mondo intero. Invece no: solo scampoli di gloria postuma. Così vanno le cose, così non dovrebbero andare. Mai. Qualche spicciolo biografico, ora. Jim nasce nell’estate 1941 nella contea di Johnson, Kentucky. Tra povertà e violenza l’unica fonte di felicità è la musica suonata a tutto volume dalla radio di una vicina poco più grande, una certa… Loretta Lynn. Logico che il ragazzino scappi dall’inferno in terra recandosi nell’ordine dal padre biologico in Michigan, a New Orleans per suonare (e vivere) in strada, a zonzo per l’America in autostop. Trascorso poi un biennio sotto le armi, quando nel ’58 arriva a Los Angeles ha vissuto un bel po’  e nemmeno è maggiorenne (!).

Entrato subito nel “giro” grazie a P.J. Proby, lungo i sixites sforna hit conto terzi e a un certo punto vuole fare da sé. Con la sezione ritmica dei Redbone, Dr. John, Jim Keltner e James Burton (chitarrista del “tardo” Elvis) confeziona la mezz’ora scarsa oggetto dei questo panegirico. Fuori in agosto su Sundown – marchio creato appositamente, distribuito dalla White Whale dopo il tentennamento della Atlantic – Harlan County resta schiacciato in un 1969 stellare. Siccome Jim detesta il palco, la frittata è servita. Dissolvenza. Nel 1971 un tentativo londinese con i Brinsley Schwarz viene accantonato e il nostro uomo sparisce. Parecchio tempo dopo un giornalista svedese lo stana in una roulotte nella quiete di Fort Bragg e apprende che, tra una traversia e l’altra, ha continuato a scrivere per puro diletto.

Harlan County LP

Il resto l’ho raccontato qui sopra nella speranza di accendere la vostra curiosità. Chi tra di voi è al corrente avrà magari rimesso sul piatto o nel lettore un album che ogni volta suona fresco come al primo incontro. Gli altri non esitino a procurarsi una festa (talvolta dolcemente mesta) a base di errebì, country, rock vibranti e turgide ballate. Si innamoreranno seduta stante dell’autobiografica, sarcastica title-track che citando Swing Low Sweet Chariot cammina in anticipo nelle lande di Exile On Main Street, della rilettura inzuppata nel funk di Spoonful, della sensualità guascona di I’m Wanta Make Her Love Me, del romanticismo di Love On My Brain e Changin’ Colors.

Ancora non basta? Benissimo: ecco To Make My Life Beautiful, la firma di Alex Harvey in calce a un melò degno di Hardin e Rose, un’esuberante Dr. Handy’s Dandy Candy, il boogie Long Road Ahead strappato ai coniugi Bramlett per inventare i Black Crowes. E se Under Construction plana dai solchi di Beggar’s Banquet, Workin’ My Way To L.A. vede i Little Feat prendere in ostaggio proprio Mick Jagger. Tutte canzoni belle, sincere e preziose. Canzoni che il fato non potrà cancellarvi dalla testa e dal cuore. Amen.

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L’acida tristezza dei Thin White Rope

Alcune di queste canzoni hanno dei magneti seppelliti dentro”. Le note interne del quarto LP dei Thin White Rope offrono un’autodefinizione – bizzarra, una delle tante possibili – del loro stile così unico. Stralunato ed epico, fisico però etereo come può esserlo un deserto reale e/o metaforico. Pur conoscendoli a memoria, riascolto spesso i loro dischi e ogni volta rimango ipnotizzato da policromie acid-rock e brume new wave, presidiate da un Johnny Cash in uggia perenne però non privo di umorismo. So di essere in buonissima compagnia nella convinzione che le canzoni dei Thin White Rope sono materiche come poche altre nella storia del rock.

Vivono dentro un turbine di brividi, esaltazione, visionarietà. Il tempo, galantuomo, non le ha minimamente intaccate e in questo senso sono faccenda assolutamente “di oggi” le recenti ristampe Frontier di quei cinque magici album. Con un pizzico di benevola invidia per chi vi si accosta da vergine, festeggio dedicando qualche riga a uno dei miei gruppi “della vita”. Un’ennesima volta, siccome al cuore non si comanda. Gli si dà ascolto e basta.

TWR

I luoghi in cui cresciamo… C’è chi li descrive a distanza, chi li tramuta in microcosmi narrativi, chi se ne fa ossessionare. Guy Kyser ha saputo riversarli in un’estetica che fonde la concretezza di Madre Terra con un istinto che la trascende. Una dinamica di opposti complementari che rappresenta il nocciolo stesso sia dei Thin White Rope che di quell’apparente desolazione capace di svelare ciò che siamo. Kyser, guarda caso, è venuto su a Ridgecrest, un’oasi tra Mojave e Death Valley lasciata nei primi ‘80 per studiare geologia a Davis.

Nella fervida scena della cittadina californiana, la “sottile corda bianca” – riferimento all’eiaculazione che dobbiamo a William Burroughs – si sbroglia quando i Lazy Boys in cui il ragazzo canta e suona la chitarra incassano il ritiro di Scott Miller, più propenso a scolpire diamanti pop nei Game Theory. La rifondazione vede aggiungersi a Guy e al batterista Joe Becker la sei corde di Roger Kunkel e il bassista Kevin Staydohar, che nell’83 porta via Joe nei fantastici True West.

Axis

Decisivo il demo della primavera 1984 che persuade la Frontier a pubblicare Exploring The Axis nel mezzo del decennio. Grazie alla lunga gavetta, l’incantesimo – intrecci di ritmica minimale però arguta, spirali chitarristiche in serrato dialogo, voce rauca e virile che detta cambi d’umore – si racconta perfetto. Una psichedelia aromatizzata roots consegna i Quicksilver Messenger Service nelle braccia dei Television attraverso gli strappi di Soundtrack e l’incalzante Down In The Desert, l’onirica Disney Girl e le psicosi della title-track, le The Real West e Dead Grammas On A Train che riscrivono il country con le nevrosi del dopo punk.

In visibilio, la stampa parla di post-psichedelia: a inizio ‘87 Moonhead ribadisce il concetto comprimendo rabbia, cupezza, echi kraut e anticipi di stoner. I classici istantanei a questo giro sono il sublime folk lunare Thing, una contorta Take It Home, la slanciata Wire Animals, l’accecante Not Your Fault. Almeno. Sostituito Tesluk con John Von Feldt, la routine tour/disco/tour conduce al 1988 del difficile terzo album. In The Spanish Cave supera l’ostacolo con il terso struggimento July, una frenetica Elsie Crashed The Party, la Timing che spedisce Beefheart in un illividito Marquee Moon. Al narcotico blues Astronomy replicano il devastante frontale tra Hawkwind e Mad River (con citazione finale di Link Wray…) di It’s O.K. e una Red Sun che seppellisce i Love e Morricone sotto colate di lava.

Thin White Rope

Gli Ottanta agli sgoccioli, si chiude una fase del “nuovo rock” americano: cresciuto l’interesse delle major verso questo non genere, i grandi nomi compiono il salto. Nel 1990 l’adulto splendore di Sack Full Of Silver esce su licenza per la BMG porgendo moderno folk-rock (On The Floe), chiaroscuri mesmerici (Whirling Dervish: cenni di medio oriente e prateria strapazzata; Triangle Song: un crescendo che leva il fiato; gli MC5 rabbuiati di Diesel Man) e le seduzioni figlie di She Brings The Rain del brano omonimo. A proposito di Can: il nuovo arrivato Matthew Abourezk stratifica magistralmente le trame percussive e più che altrove in un’immane rilettura di Yoo Doo Right.

silver

Alla fine di una sfibrante tournee, The Ruby Sea riporta i quattro nell’alveo indipendente. Nell’aria la rassegnazione è palpabile e più delle allucinazioni hardeliche – comunque magnifiche quella che dona il titolo all’album e Midwest Flower – spetta a episodi riflessivi del calibro di Puppet Dog, Bartender’s RagChristmas Skies e della dolcissima Up To Midnight (saldata ai sibili di Hunter’s Moon: ancora opposti che si bilanciano come nella natura umana) incarnare lo spirito di un’opera pregevole rimasta però schiacciata dai pesi massimi dell’autunno 1991.

La separazione sarà in seguito sancita dal doppio live The One That Got Away, ovviamente imperdibile e lo stesso valga per gli EP (impreziositi da illuminanti cover) sistemati a inframezzare i 33 giri e per la raccolta di ritagli Spoor. Da allora le mosse di Roger e Guy in ambito musicale sono state defilate e poco significative, ma non importa. I Thin White Rope sono una voce più presente che mai. Una voce di Bellezza inquieta, romantica e malinconica indenne alle offese di Crono. Una Bellezza che ci rapì per sempre, laggiù nel deserto.

 

 

Joni Mitchell sui prati sibilanti

Non se la passa benissimo, oggi, la Signora del canyon. Dopo la poliomielite di gioventù e le più recenti artriti e parassitosi allucinatorie, tre anni fa la rinvenivano incosciente tra le mura domestiche a causa di un aneurisma cerebrale dal quale si sta ancora riprendendo. Le auguro ogni bene e non avete idea di quanto faccia piacere leggere che ha rifiutato l’autorizzazione a un biopic con protagonista Taylor Swift (a tutto c’è un limite, sì) e che, fotografata per una campagna pubblicitaria, ha chiesto che sul viso le lasciassero ogni ruga. A qualunque età, un peperino è un peperino… Pazienza se dal 1991 del lampo isolato Night Ride Home, soffocata da rancori e amarcord, Joni Mitchell pubblica poco e male: c’è stato un tempo in cui plasmò il cantautorato femminile con inarrivabile maestria e tanto basta, al cuore e alla Storia.

Joni smoking

Da sempre l’artista canadese maneggia anche pennelli e colori. La cogli, una mano che sgocciola alla Pollock e ipotizza un Hopper umanista in canzoni spesso concepite come quadri o – insegna la metafora dell’epocale Blue – come tatuaggi. In questo fiume di colori che trattengono qualcosa di noi e che assieme a noi invecchiano, per un certo periodo Joni si è cimentata con l’astrattismo ottenendo i risultati migliori al primo tentativo, l’ingiustamente trascurato The Hissing Of Summer Lawns. Che questo LP sia oggetto di adorazione da parte di critici attenti ed eminenti colleghi – per non far nomi: Prince, Kate Bush, Bjork – significa molto alla luce di un linguaggio troppo fuori dagli schemi per il 1975 in cui vide la luce.

hissing cover

Oggi, che al dopo-rock abbiamo fatto l’abitudine, si può apprezzare in pieno il diretto successore di Court And Spark, baciato da un notevole successo che fu fonte di insensate accuse di commercializzazione. Punta sul vivo, Joni rispose con i fatti. Convocati i fidi L.A. Express e qualche ospite (“Skunk” Baxter, Larry Carlton, James Taylor, Nash e Crosby) cavò dal cilindro un post-songwriting di fascino ambiguo e curatissimo nei dettagli. Uno stile che, similmente all‘Africa traslocata sullo sfondo metropolitano della copertina, si dipana con spirito lynchiano (la foto interna ritrae l’artefice in un’amniotica piscina, con un aspetto che non sai se rilassato o inerte) lungo le dissonanze del quotidiano. Di conseguenza la musica richiede attenzione e ripetuti passaggi per svelare strutture scagliate oltre le convenzioni da un saldo centro di gravità e da una forza comunicativa affatto comune.

Joni by Norman-Seeff

Questo sono la cover di Centerpiece che improvvisa emerge e poi riaffonda nella stranita Harry’s House, una In France They Kiss On The Main Street che veste di West Coast il fluido jazz-rock degli Steely Dan e The Jungle Line, che omaggia Henri Rousseau – toh: un pittore! – e preconizza Julia Holter e Volta tra sibilar di moog e tamburi Burundi. Se la tensione sfiora il pelo dell’acqua in Eddie And The Kingpin e Don’t Interrupt The Sorrow vaga nei tropici, la melanconia avant-pop di Shades Of Scarlett Conquering e dell’omonima trama di ritmi e fiati risponde alla sonata meticcia The Boho Dance e al cristallo folk Sweet Bird. Quando tutto termina sull’ambient gospel per voci e sintetizzatore ARP – meraviglia da far invidia a Brian Eno – di Shadows And Light, capisci che chi chiedeva altre Raised On Robbery stava negando alla Mitchell il diritto di evolversi. Sorridi e ricominci da capo, sedotto e ipnotizzato.

Sull’onda della fama, in novembre The Hissing Of Summer Lawns debutta al quarto posto in classifica ma precipita subito. Non se ne preoccupa minimamente la Nostra, appena passata – cito testualmente – “dal reparto hit a quello dell’arte” in virtù di un’opera sul serio perfetta ma non troppo, cioè quel tanto che basta a centrare un’arguzia mai autocompiaciuta. Attraversati i prati estivi, Joni Mitchell si metterà in viaggio sulle “strade blu” d’America e nell’anno del bicentenario concepirà Hejira. Sarà l’ultimo suo Capolavoro.

I Mad River alle fonti dell’oblio

Anno nuovo e nuova rubrica di “Turrefazioni” per scacciare la noia, brutta bestia che striscia ovunque e può minare persino sentimenti e passioni. Meno male che esistono film, libri e dischi che ne sono immuni e ci restano accanto per la vita. Spesso non si tratta neppure di Capolavori Assoluti: grazie tante, fin troppo facile amarli quelli. Parlo semmai dei gioielli personali le cui lacune – quando esistono – sono in realtà pregi e ponti stesi sul cuore. Questo il senso di “Perfetti ma non troppo” e per spiegarmi (spero) meglio voglio inaugurare la serie con una storia intessuta di what if.

Tra i grandi della Bay Area “acida” i Mad River sono i meno noti e non ci si crede, ché nonostante le affinità con Quicksilver Messenger Service e Country Joe & The Fish erano davvero unici. Su atmosfere psicotiche e attorno al cantato teso e stranito, sapevano costruire con naturalezza brani assai elaborati. Un fascino peculiare, il loro, tramandato negli anni tra pochi adepti – e colleghi di diverse generazioni: Television e Polvo per l’ordito di chitarre e i climi; Motorpsycho e Pontiak quanto a strutture e piglio – creando un alone mitologico. Pienamente giustificato.

MR golden gate

What if, parte prima. Che ci saremmo persi se i ragazzotti di Yellow Springs avessero preferito la carriera… Correva l’anno 1966 quando alla locale università Lawrence Hammond (voce, basso), Greg Dewey (batterista: unico liceale), David Robinson e Tom Manning (chitarristi) passano dall’esplicativa Old Time Jug Band al blues secondo Paul Butterfield, che con l’epocale East/West ha testé introdotto nel genere dilatazioni e scale orientali. Ascolta anche folk, la Mad River Blues Band, e verrà presto utile come l’apertura mentale che spinge verso raga e jazz. Poco ricettivo l’Ohio, il gruppo si trasferisce nell’eldorado lisergico a ovest dopo aver accolto la terza (!) chitarra di Rick Bockner. Mentre prepara le valigie, abbandona un paio di ormai inutili suffissi e registra anche un demo, apparso nel 2011 su Jersey Sloo, vinile ufficiale Shagrat che aggiunge materiali di poco antecedenti lo scioglimento.

Ho tuttavia corso a perdifiato come un’anfetaminica gazzella (leggete oltre…) e riavvolgo il nastro a classici giorni di California: una magione di Berkeley dove abitare e suonare insieme, pochi soldi e molta fame, lo scrittore Richard Brautigan che prende la banda in simpatia, la sfama e introduce nel giro beat. La svolta un omonimo EP a 45 giri sulla microscopica Wee Records. Insensato svenarsi per un originale del ’67, gustatene il contenuto – A Gazelle e Windchimes recuperate sull’esordio lungo, più lo spigoloso folk-rock Orange Fire – in The Berkeley EPs, CD Big Beat che a metà Novanta lo raccoglieva con analoghe imprese di Country Joe, Notes From The Underground, Frumious Bandersnatch.

MR colour

In qualche modo il 7” arriva alle orecchie di alcune major e sarà la Capitol a deviare il Fiume Pazzo negli studi Golden Gate Sound con Nick Venet. Gli hippie militanti si scontrano con il navigato professionista incapace di capirne stile e background, ma anche a dispetto del poco tempo per provare la scaletta portano a casa il risultato. E che risultato! Da mezzo secolo Mad River si racconta sublime negli aspri viluppi di corde, nelle strutture complesse e nella penna visionaria. Gioiello al contempo iridescente e opaco, si apre con lo sprintato riassunto Merciful Monks e nel prosieguo dipana accorato blues “corretto” (High All The Time), trascinanti frenesie (Amphetamine Gazelle) e bizzarre incursioni etniche (Wind Chimes).

Da favola il finale, dove i dodici minuti di War Goes On ipotizzano, tra cupi slarghi e assoli fiammeggianti, dei King Crimson a stelle e strisce incamminati su un sentiero di chitarre taglienti e batteria jazzata. Passata la tempesta, l’oasi acustica Hush, Julian esorta a ripartire. Iniziano qui i problemi: l’LP esce con i nastri accelerati (pare a causa di un errore tecnico) e i Mad River perdono fiducia in un’etichetta che comunque non li sta promuovendo. Tom saluta per laurearsi e si entra a fatica nei Top 100 di “Billboard” malgrado concerti a San Francisco, nel nord della costa e in Canada.

mad river lp

What if, parte seconda. Fossero stati i Mad River meno disillusi, Paradise Bar And Grill avrebbe sterzato con un pizzico di convinzione in più e oggi racconterei un’altra vicenda. Forse. Chissà. Di certo il secondo e ultimo lavoro della formazione si affida alle radici con motivazioni profonde. La scena che aveva scagliato i nostri eroi nello spazio (interiore e non) stava per spegnersi e il sistema reagiva trasformando la controcultura in una moda e rimpiazzando l’LSD con l’eroina. La risposta nel tumultuoso 1969 fu un alveo confortante che in anticipo sui Grateful Dead recuperava l’educazione sonora di gioventù e adombrava le tensioni. Benché un po’ discontinuo, Paradise Bar And Grill brilla tuttora negli omaggi a John Fahey (meglio Harfy Magnum della pastorelleria Equinox), nell’omonimo country corale e quello svelto di Copper Plates, nella virile melanconia di Cherokee Queen.

Essendo impossibile ritornare del tutto a un’Arcadia fittizia, gli apici stanno però là dove riaffiora il recente passato e cioè nell’elegante frenesia esclusa dall’esordio di They Brought Sadness e nell’amaro psych-hard Leave Me/Stay. Galantuomini, in Love’s Not The Way To Treat A Friend i Mad River lasciano recitare una poesia a Brautigan, dopo che con una parte dell’anticipo contrattuale già gli avevano finanziato il volume “Please Plant This Book”. Siamo all’epilogo. Stanchezza, frustrazione, Vietnam. Si torna sui libri per evitare l’arruolamento e grazie dei ricordi. Prima di scambiare la chitarra con lo stetoscopio, nel ’76 Lawrence Hammond pubblica il solistico Coyote’s Dream per la Takoma di Mastro Fahey. Tanto per cambiare, una delizia roots destinata a essere culto per antonomasia. Ennesima dimostrazione che nel mondo non c’è giustizia, e adesso spetta a voi rimediare.

Thyme Perfumed Gardens-3: Kak

L’acid-rock è come il nero: sta bene su tutto. O quasi, perché il rischio di sbrodolare è dietro l’angolo se l’attitudine “espansiva” non possiede strutture solide – leggasi: canzoni – a sostegno. Quando difetta la penna, non bastano la palla lunga delle dilatazioni e il pedalare di wah-wah. Altrimenti, quei fulgidi giorni californiani tra ’67 e ’69 avrebbero partorito solo Geni. Pensandoci bene, la realtà non è comunque lontana: lo dimostrano i nomi di vaglia che formano l’iceberg sotto la Santissima Trinità Quicksilver/Grateful/Airplane. Gente spesso sfortunata o poco avvezza a gestire una carriera e, di conseguenza, riverita solo a posteriori.

Ad esempio, pochi ricordano i Kak per l’unico LP omonimo pubblicato nel 1969, citandoli giusto come fulminea anticamera del Gary Lee Yoder pre Blue Cheer. E benché Kak non offra copernicane riscritture della storia, è album da avere nel caso in cui nutriate un interesse non superficiale per la psichedelia. Divenuto subito una rarità sovente taroccata, ha saputo scavarsi una nicchia nel cuore di appassionati e studiosi in virtù di una natura assai meno derivativa di come la si dipinge: qui estatica e incantata, là nevrotica e scalpitante, mai dimentica delle sorgenti – folk, blues, country – dalle quali attinge. Forse, in epoche più vicine alle nostre, allorché il concetto di scena provinciale ha goduto di interesse critico e successo commerciale, i Kak avrebbero ottenuto di più. L’avrebbero meritato. Nel 1967, però, per combinare qualcosa, dovevi trasferirti da Davis, California, a San Francisco. Cosa che i ragazzi fecero, ma che a nulla valse anche per questioni di spiccata “attitudine” freak.

Kak[1]

Un passo indietro: nell’Estate dell’Amore il cantante e chitarrista Gary Lee Yoder è reduce dagli Oxford Circle, pionieri di una psichedelia furente e muscolare che raggranellarono solo il 45 giri acid-garage Foolish Woman/Mind Destruction e palchi condivisi con la Joplin, i Grateful Dead e i Jefferson Airplane (saggi del loro valore in Live At The Avalon 1966, CD Big Beat del ‘97). Siccome di stare con le mani in mano non vuol saperne, organizza eventi artistici e concerti cercando di scuotere la cittadina dal torpore. Una sera gli si para davanti tal Gary Grelecki, il quale afferma di essere un suo fan e che peccato che gli Oxford Circle si siano sciolti. Già che ci siamo, ti piacerebbe essere sul libro paga della CBS? Certo, amico: ecco il mio numero. Due mesi dopo squilla il telefono e quel pazzoide di Gary informa di aver ottenuto la firma promessa con la Epic grazie al padre, ammanicato con il talent-scout Chuck Gregory. Viva il nepotismo, una tantum.

Inizialmente si progetta la corsa solitaria, optando però quasi subito per una band a tutti gli effetti. Saggiamente, visto che le When Love Comes In e I Miss You incise da Gary Lee per il demo portato alla Epic sono esercizi di rock bluesato scarsamente personali. Il giovanotto ha però nel cassetto pezzi di livello superiore e altri ne sta scrivendo con il compare. Mancano ancora le persone giuste, trovate a inizio Sessantotto nell’esperto bassista Joe-Dave Damrell, nel batterista e tastierista di estrazione classica Chris Lockheed, nell’ex sei corde degli Oxford Circle Dehner Patten. Tutti si conoscono, stanno combinando poco e l’occasione è ghiottissima. Eccoli poco dopo a San Francisco, ospiti in una villa di amici di Grelecki a lavorare duro su arrangiamenti e composizione.

Una prima serie di registrazioni produce per lo più seccature con Gregory, che viene allonato. A settembre ci si riprova in uno studio di Hollywood adibito a trasmissioni radiofoniche. Con l’aiuto di una statua di Budda, dei Kak (parole loro) “più in aria degli aquiloni” si fanno bastare una settimana per confezionare la scaletta, solida ed eseguita con piglio vibrante. Dalla copertina, sulla quale un groviglio alla Max Ernst incornicia la doppia esposizione fotografica della banda, splendono in eterno nove iridescenti pepite di elevata caratura. HCO 97658 accoglie con un’entusiastica pallottola di ottanta secondi, Everything’s Changing cavalca esaltata ed esaltante in sella ai Moby Grape in lande di assoli lussureggianti, per Electric Sailor Patten presta l’ugola a un’innodia elegante e possente.

Nel prosieguo si strapazza il rhythm’n’blues con classe (Disbelievin’), si porge un traslucido, pacato country-rock (I’ve Got Time) e si omaggia Donovan nell’incantata estasi Flowing By. Tirato il fiato, Bryte ‘N’ Clear Day riparte al trotto spianando la strada a Trieulogy, articolato capolavoro che transita dai Love più mestamente hendrixiani a slanci folk-rock innervati di groove e, infine, plana su un Happy Trails rasserenato. In chiusura, sinuosa e sardonica come il Brucaliffo, Lemonaide Kid orientaleggia tra volute di fumo fuorilegge. Alla faccia dei minori

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Ciò nonostante i Kak si sfasciano. Mancando un vero manager, dal vivo suonano raramente (una dozzina i concerti in totale!), cazzeggiano, si sballano d’erba. All’etichetta frega poco e uno stanco Damrell saluta. Con lui finiscono alchimia e vicenda. Gary Lee pubblica un fiacco singolo a suo nome, poi si unisce ai Blue Cheer con Paul Whaley, altro ex del Circolo di Oxford. Kak si trasforma in reliquia fino al primo CD ufficiale del 1992 e all’edizione “filologica” su Big Beat di sette anni posteriore, reintitolata Kak-Ola e allungata da svariati bonus, comprendenti le succitate prove di Yoder e versioni alternative del già noto. Frattanto, un’altra formazione aveva (ri)collocato Davis sulle mappe dell’acid-sound. Si chiamavano Thin White Rope.

Relatively Clean Rivers (o: io sono un autarchico)

Se lo sarebbe aspettato Phil Pearlman di finire un giorno sulle pagine di cronaca, benché di riflesso? Propenderei per il no, ma di certo la storia che sto per raccontarvi è curiosa. Nel maggio 2004 l’FBI aggiunge un certo Adam Gadahn alla lista di cittadini statunitensi sospettati di terrorismo. Il trentenne era apparso in video con mitra e deliri d’ordinanza, nondimeno stupiva che prima della conversione all’islamismo e all’ingresso nelle fila di Al-Qaida avesse scribacchiato per una webzine di death metal, che fosse nipote di un medico di origine ebraica e figlio di Phil Gadahn. Scusa, Phil chi?

Ai cultori del super-sommerso in musica, il nome dirà qualcosa se accostato a Pearlman, cognome con cui Phil venne al mondo prima di diventare cristiano – vizio di casa, l’instabilità confessionale… – e di trasferirsi in un ranch senza elettricità vicino a Riverside, California. Da lì Adam fuggirà adolescente e il resto sono affari suoi: a me importa il passato di Phil, hippie oltranzista che ha sempre vissuto entusiasticamente la realtà, al netto di droghe che – stando al poco che so – mai assunse.

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Il poco che so, ecco: i Pearlman erano un’agiata famiglia borghese di Orange County alla quale nel settembre 1965 Phil voltò le spalle per iscriversi alla University of California di Irvine. Già in carniere un bizzarro singolo surf come Phil & The Flakes, il ragazzo tende le orecchie a quanto giunge da San Francisco e, in testa una chioma lunghissima e le idee chiare, si appropria in anticipo della controcultura. Da perfetto studente d’arte, allestisce una band che sia affermazione artistica libera tanto quanto l’epoca consente. Tra la fine del ’66 e l’inizio dell’anno successivo recluta un pugno di strumentisti e battezza il progetto Beat Of The Earth, inseguendo sonorità improvvisate che per l’appunto incarnino “il battito della terra”.

Non va oltre alcune esibizioni live e cinquecento copie di un LP omonimo, recante un’improvvisazione che un po’ preconizza gli Amon Düül e un po’ si risolve in jam psych-noise stile “palla lunga e pedalare”. Poco dopo molla gli studi e se ne perdono le tracce. Nel 1970 sbuca fuori (si fa per dire) The Electronic Hole, 33 giri tirato in poco più di cento esemplari: pare sia una raccolta di demo e, in effetti, il suono è più scarno, stavolta improntato a passabili canzoni alla Velvet Underground.

Sei calendari e un’altra missiva giunge dall’universo parallelo abitato da Pearlman: quella che più interessa. Racchiusa in una copertina di Jim Evans che cita la Chocolate Watchband, Relatively Clean Rivers profuma di psichedelia sognante che, avvolta in solida stoffa roots, plana da un’arcadia dei fiori in una nuvola di sorrisi pigri e oppiacee nebbioline. Qualcosa di prossimo a Jonathan Wilson che gli Wilco hanno lodato nel 2009 in un’intervista a “Record Collector”; qualcosa che possiede il tono intimo del riflusso cantautorale dei ’70 e tuttavia ne ignora l’amarezza, preferendo un rilassato torpore parente di Gary Higgins. Lo hanno etichettato “countrydelic” e in tal senso è assai eloquente l’iniziale Easy Ride. Mi dico d’accordo e ne lodo l’economia sonora, con il nostro uomo a occuparsi di tutto tranne della batteria e di alcune parti vocali e chitarristiche.

Così come incenso una The Persian Caravan in viaggio sulle rotte mediorientali annunciate dal titolo, una Hello Sunshine ipotesi di Crosby, Stills e Nash lisergici, una Journey Through The Valley Of O poggiata sul sapiente impasto tra tessuto strumentale e melodia sinuosa. Tempo di assecondare gli scarti d’umore e passo dell’onirico folk-rock Babylon che A Thousand Years chiude i giochi in un equilibrio di effetti e plettri. Immagino i Grateful Dead che incidono American Beauty con la testa a capofitto in Live/Dead, sfoggiando un tardo stile acid-sixities mai accademico né sbrodolone e con le febbri trattenute in sottofondo. Felice e beato, riparto da capo.

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Di quanto sopra Phil stampa mezzo migliaio di pezzi, che distribuisce girando la California in furgone o abbandonandoli nei campus universitari e nei negozi di dischi inventando il bookcrossing in chiave vinilica. E poi addio mondo consumistico, benvenuta vita agreste. A fine ’80 qualcuno scova Beat Of The Earth, fa un bootleg e dà inizio al sommesso passaparola. Alcuni collezionisti rintracciano Pearlman/Gadahn chiedendogli di frugare negli archivi. Capelli e barba ingrigiti però sempre chilometrici, lui fa spallucce ed estrae dal cassetto i trascurabili scarti datati 1967 di Our Standard 3-Minute Tune. Credete che gliene importi se nel frattempo gli hanno taroccato in digitale la discografia? Amalo, pazzo freak…