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Musica per le mezze stagioni: Tudor Lodge

In tempi di speculazione meglio ribadirlo: la rarità di un manufatto discografico non costituisce necessariamente garanzia di valore artistico. Semmai è più probabile il contrario, poiché certi furbacchioni sono soliti costruire mitologie di cartongesso a fini speculativi. Venendo al punto, mentre scrivo queste righe un originale Vertigo, numero di catalogo 6360043, dell’omonimo album dei Tudor Lodge vi costa settecentocinquanta euro. Attenzione: per una copia “VG”, e scordatevi la “mint” se non possedete una Mastercard Black. Siamo oltre la decenza, insomma, considerando che le ristampe sono reperibili a prezzi ragionevoli sia in vinile che in CD.

Tenendo sempre ben presenti le teorie di Sigmund Freud sul collezionismo, a me interessa il succo e cioè la musica. Eccezione che conferma la regola, Tudor Lodge ne offre di squisita e ascrivibile al folk albionico che, tra anni Sessanta e Settanta, era oggetto di felici contaminazioni da parte di chi lo mescolava al rock e chi ne scandagliava il lato oscuro, di chi si lanciava in viaggi acidi e chi, come i Nostri, inseguiva una purezza pastorale possibile solo nell’immaginazione. In quella favolosa ricerca di equilibrio si osservavano le radici da diverse prospettive ed ecco perché il filone tuttora rappresenta una viva fonte di ispirazione: perché significava tornare indietro mentre si progrediva e viceversa.

Vale oggi come nel turbolento ’68, allorché il duo voce/chitarra di Reading composto da John Stannard e Roger Strevens trae il nome – quasi: il locale si chiamava Tudor Tavern – da un pub cittadino. Di lì a un annetto Lyndon Green subentra a Strevens e, tempo altri dodici mesi, la formazione si stabilizza con la cantante e flautista americana Ann Steuart. Battuto palmo a palmo il circuito folk, approdano a Londra e, grazie ai buoni uffici del manager Karl Blore, firmano per la Vertigo. Il 33 giri di cui sopra vede la luce nel 1971 in una strepitosa confezione, svelando arazzi di plettri acustici intessuti sulla sezione ritmica dei Pentangle e su misurati intrecci di fiati e archi.

Il resto ce lo mettono melodie gentili, armonie vocali altrettanto e un “ricercato minimalismo” che da ossimoro diviene realtà. Benché figlio della propria epoca, Tudor Lodge vanta infatti un particolare sapore che qualcuno ha definito twee folk: ci sta, se parliamo di dolcezza che non stanca, di incantesimi bucolici senza eccesso recuperati in tempi relativamente più recenti da band affini come Shelleyan Orphan e Mirò, di un’aura da stagioni di mezzo che non ci sono più. Soprattutto, se parliamo della The Lady’s Changing Home che varia la ricetta ricorrendo a un pizzico di elettricità in più, di una rilettura di Kew Gardens del collega Ralph McTell, della sofisticata, un filo malinconica delicatezza che promana da It All Comes Back To Me e Recollection, da Nobody’s Listening e I See A Man.

Se gli scintillanti madrigali folk-pop Would You Believe?, Help Me Find Myself e Forest giustificano in pieno il paragone con i Belle And Sebastian, l’incantata e incantevole Two Steps Back suggerisce un’ipotetica Joni Mitchell britannica e Willow Tree parte oscura per dipanarsi cameristica. Tutto molto bello, ma che finisce nel solito modo: la promozione dell’etichetta è carente e il disco non vende. Pochi soldi e tanta stanchezza, Annie se ne va e con la sostituta di lusso Linda Peters, pronta a intraprendere una favolosa carriera con il marito Richard Thompson, i Tudor Lodge completano un tour in Olanda e nel 1972 si dividono. Dai primi anni ’80 si sono susseguite rimpatriate con un’altra cantante e John ha proseguito fino alla morte, sopraggiunta nel marzo 2020. In un beffardo scherzo del destino, l’ultima incarnazione dei Tudor Lodge aveva da poco pubblicato un album dal titolo Life Goes On

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Da costa a costa, la febbre di David Wiffen

Passami la bottiglia. Dammela. Ci sono un sacco di ragioni per svuotarla. Lenire il dolore, forse persino uccidermi. Giù un altro, vai.” Nella sua fredda lucidità, è un ritratto impietoso che oscilla tra l’ammissione di colpa e la rassegnazione di quando non ne puoi più e l’unica cosa che vorresti dire è “basta”. Ti aspetti che chi ha scritto queste parole (sistemandole su una musica al contrario briosa) abbia alle spalle una vita di cadute. Invece, More Often Than Not David Wiffen l’ha pubblicata poco prima di compiere trent’anni. Si trova su un album omonimo – secondo in ordine di pubblicazione, primo a essere stato registrato in studio – che poggia mezz’oretta di country e folk su una penna raffinata, sonorità elaborate e il baritono di David. Cercatelo, se amate Lee Hazlewood e Fred Neil.

Fuori nel 1971, non va da nessuna parte e l’artefice resterà un culto nonostante le riletture di Tom Rush e Byrds, di Jerry Jeff Walker e Ian & Sylvia, di Eric Andersen e persino Harry Belafonte. Più recentemente Cowboy Junkies, Jayhawks e Rich Robinson hanno omaggiato un talento consegnatosi in un (mica tanto) piccolo capolavoro di quella che oggi chiamiamo Americana. Citato nel novero de songwriter canadesi, in realtà David è nato in Inghilterra nel 1942 e ha attraversato l’Atlantico a sedici anni, dopo alcuni traslochi che dalla fattoria della zia – dove cresce con la madre mentre il babbo ingegnere è al fronte – lo hanno portato a Claygate. A scuola milita in un gruppo skiffle e in Canada bazzica le caffetterie del folk revival, spostandosi con l’autostop a Toronto, Edmonton, Calgary.

Da costa a costa, debutta su disco a Vancouver nel 1965 in circostanze singolari: lo invitano a una compilation dal vivo, il giorno dell’incisione è l’unico a presentarsi ed ecco un David Wiffen At The Bunkhouse Coffeehouse, Vancouver BC del quale non si accorge nessuno. Cambiati i tempi, gioca la carta del gruppo: combinano poco i Pacers, ma tramite i Children diventa amico di Bruce Cockburn e Richard Patterson. Li rincontra nei Three’s a Crowd, che nel ’68 consegnano un passabile pastiche di acid-folk barocco e sunshine pop in Christophers Movie Matinee, poi attraversano una serie di vicissitudini e rimpasti fino allo scioglimento. Mentre lotta contro l’alcool, David continua a esibirsi e nel ‘71 spunta un contratto con la Fantasy. Il resto lo sapete.

Anzi, no: due anni dopo il Nostro cala l’asso Coast To Coast Fever anche grazie alla United Artists e al valore aggiunto di Cockburn, che produce e maneggia le chitarre. Sulla copertina delle successive ristampe del disco, David è mollemente adagiato su una sedia, come un cowboy che riposa dopo un lungo viaggio. Adeguatamente oppiacee e rilassate, le atmosfere mescolano country, folk e rock dentro l’alone di stordimento dei primi anni Settanta, allorché la controcultura si allontana dalla realtà mentre torna alla tradizione con il senno del poi. Oltre a ciò, Coast To Coast Fever brilla per il concept implicitamente autobiografico e arrangiamenti asciutti ma attenti al dettaglio. Soprattutto per le canzoni: svelte a imprimersi e preziose di un timbro da crooner in blue(s) che le avvolge di malinconia crepuscolare e allo stesso tempo terrigna, virile, pure un po’ svagata.

Non rinunci a nulla, qui: non a favolose ipotesi di un James Taylor rustico (White Lines, scritta da Willie P. Bennett; il florilegio acustico Climb The Stairs), non alla sognante Skybound Station dall’incedere torpidamente folk-rock che, tra corde e percussioni, apre una vena di gospel bianco, non al Lucifer’s Blues attraversato da un sax soul che sul finale osa un’impennata jazz. Altrove, il caracollare e la slide della Up On The Hillside offerta da Cockburn ricordano Beggars Banquet, episodi pianistici come la vibrante You Need A New Lover Now cortesia di Murray McLauchlan e il commiato Full Circle – qualcosa di David Ackles, nel suo dramma trattenuto – non sfigurerebbero sui primi lavori di Jackson Browne e nei solchi del coevo Closing Time, la raccolta amarezza di Smoke Rings e una meditativa We Have Had Some Good Times stendono un ponte tra l’autore di The Dolphins e il Terry Reid di River.

E poi? Poi quella bellezza se la filano in quattro gatti. Wiffen si ritira guadagnandosi da vivere come autista e, vinta la battaglia contro l’alcolismo, nel 1999 ricompare con il discreto South Of Somewhere e nel 2015 recupera in Songs From The Lost And Found vecchi brani che credeva perduti. Da poco ha tagliato il traguardo degli ottant’anni e gli auguro tutto il bene possibile. Sappia che la sua febbre era buona e qualche cuore lo ha scaldato. Grazie infinite, amico.  

Judy, Jerry e la cometa

Dei primi Settanta si sottolineano la fuga nel privato e il tramonto del sogno hippie. Il che è vero, com’è altrettanto vero che le cose iniziano a prendere una brutta piega già alla fine al decennio favoloso, quando – l’estate dell’amore un lontano ricordo – il sistema reagisce introducendo tonnellate di eroina e dichiarando fuorilegge l’LSD. Mentre in America ci sono rivolte e cadaveri ovunque, la musica cavalca l’onda emotiva. C’è chi riporta indietro le lancette a prima che la psichedelia esplodesse e guarda le radici con il senno del poi, chi organizza fughe su utopiche astronavi ribelli, chi getta messaggi in bottiglia via dalla pazza folla.

Vale la terza opzione per Judy Henske, Jerry Yester e Farewell Aldebaran, gioiello cosparso di polvere celeste con a monte una serie di congiunzioni per l’appunto astrali, tanto per cominciare l’amore tra due talenti. Soprannominata da Jack Nitzsche “la Regina dei Beatniks”, lei ha annullato la distanza tra Lenny Bruce e il Greenwich Village con High Flying Bird, 33 giri che nel 1964 anticipa i Byrds sul traguardo della commistione tra folk e rock. L’anno prima ha sposato Jerry, già nel Modern Folk Quartet e presto sostituto di Zal Yanovsky nei Lovin’ Spoonful. Quando costoro si sciolgono, produce gli Association del fratello Jim e l’immenso Tim Buckley di Goodbye And Hello e Happy Sad.

Nel ‘68 coniugi e neonata salutano New York e traslocano nella San Fernando Valley in un “coast to coast” dai risvolti professionali, siccome a gestire la Henske è Herb Cohen, pappa e ciccia con Frank Zappa. Il Baffo suggerisce alla ragazza di incidere per la sua etichetta Straight e qui entrano in gioco il caso e una buona dose di pragmatismo. Insieme a Yanovsky, Jerry sta supervisionando un LP di Pat Boone nello studio hollywoodiano di costui e decide di usarlo per mettere su nastro quanto ha composto con la consorte. Insieme ad alcuni amici – spiccano David Lindley e Solomon Feldthouse dei Kaleidoscope, l’alchimista Paul Beaver, Jerry Scheff, Larry Beckett – lavorano per mesi riascoltando il risultato la sera, tra una carezza alla figlia e una al gatto.

Per allestire le tessiture più adatte alle metafore poetiche di Judy, Yester si destreggia tra strumenti tradizionali e, con l’esperto Beaver, gestisce un arsenale di tastiere e aggeggi elettronici. Infine lo Zeitgeist è colto con un fantastico “a sé” che scommetterei memorizzato a dovere da Stereolab, Broadcast e compagnia, laddove l’unico possibile paragone coevo è con gli United States Of America. Eclettico nel dispiego di stili, Farewell Aldebaran – titolo pescato a caso nella “Encyclopaedia Britannica” da una Judy febbricitante – trova l’unità nell’indole sperimentale, in un clima di ansia (nemmeno troppo) latente, nel livello altissimo delle canzoni e nell’ugola che le intona, vibrante carezza metallica che mescola Odetta, Janis Joplin, Nico e Grace Slick.

Così il minaccioso rock avvolto in visioni di blues doorsiano Snowblind sfila accanto alla giostra sunshine pop Horses On A Stick e l’ombroso (post) folk Lullaby risponde a una St. Nicholas Hall da Nico che canta Leonard Cohen. Se Three Ravens è un dolce barocco guarnito con misura, la circolare Raider porta Neil Young e il raga sugli Appalachi e la teatrale Charity getta un pallido raggio di sole. In One More Time si aggirano spettri jazz, l’inno Rapture affascina a passo di spiritual bianco e la title-track sfiora l’ineffabile. Sistemata in chiusura, è una ballata inquieta e inquietante che scintilla come una cometa lungo folate di Moog e mellotron, il cuore malinconico e un canto d’altri mondi ottenuto sommando strati su strati di sovratoni.

Bellezza eccentrica, sublime e senza tempo al pari di un album del quale nel 1969 pochi si accorgo tranne il solito John Peel. Il culto cresce tra ristampe illegali, i panegirici di Richie Unterberger e la sospirata edizione ufficiale, pubblicata dalla Omnivore nel 2016. Tornando agli anni ’70, Judy e Jerry formano i più convenzionali Rosebud e poi divorziano. Poiché amo gli “happy end”, voglio credere che stiano ancora assieme felici e contenti in un altro universo. E che sia stata quella ruggente cometa ad accompagnarli là.

Brividi e mal di pancia in pillole, 2

Ryan Adams – Wednesdays (Pax-AM)

Lo so: Wednesdays era stato reso di pubblico dominio alla fine del 2020 in forma “liquida”, ma siccome per certe cose sono all’antica considero ancora valida la pubblicazione fisica, che nello specifico risale allo scorso marzo. So anche che di Ryan Adams si è disquisito parecchio in ragione di pessime vicende legate ad abusi e molestie che lo segneranno a vita con tutto quel che ne consegue sul prosieguo della sua carriera. E sono al corrente che nel frattempo Adams ha pubblicato un altro disco meno riuscito, che rappresenta il pannello centrale di una trittico rimaneggiato per i problemi di cui sopra. Annotato ciò, senza dimenticare che l’essere umano può non viaggiare alle medesime altezze dell’artista e bisogna farsene una ragione, a me è il secondo che interessa. Mi interessa dire che considero Wednesdays tra i vertici della sua vasta produzione e uno dei migliori dischi dell’anno in ambito “Americana” e dintorni. Uno dei più intensi, anche: raccolto, malinconico e tuttavia generoso di melodie e delicatezza anche quando flette i muscoli, scorre privo di cedimenti dall’iniziale I’m Sorry And I Love You dove Neil Young si crede John Lennon al suggello di morbida circolarità Dreaming You Backwards. Anche se il resto non vale meno, menzione d’obbligo anche per la Band sudista di Birmingham, il folk struggente di Mamma, la crepuscolare I’m Sorry And I Love You. Per me, basta e avanza. Soprattutto, questo è ciò che conta.

John Murry – The Stars Are God’s Bullet Holes (Submarine Cat)

Tre mani di carte e nessuna sconfitta per chi nel 2013 consegnava con The Graceless Age uno fra i dischi più struggenti del decennio. Anche all’altezza del difficile terzo album – baciato da un titolo magnifico come “le stelle sono i fori di proiettile di dio” – un quarantunenne infine sereno continua a scavare in una personale idea di cantautorato. Tuttavia non si sottrae alla regola secondo la quale l’artista felice centra il bersaglio con meno precisione: supervisionato da John Parish – misurato, il suo “tocco, ma avvertibile – il rock d’autore di Murry qui lascia entrare un po’ di luce però convince solo in parte. Ad esempio, nelle Oscar Wilde (Came Here To Make Fun Of You) e Ones + Zeros da American Music Club rilassati, nel Greg Dulli maturo evocato da Perfume & Decay, nei Lambchop dei bei tempi con coda ambient noise del gioiellino Die Kreutser Sonata, nell’alveo elettro-rock che avvolge Yer Little Black Book, nel glam da Beck sotto codeina di You Don’t Miss Me. Canzoni di buon peso che portano via metà di una scaletta completata con un breve siparietto strumentale, una discreta cover di Ordinary World e un pugno di episodi sotto l’elevata media cui siamo stati finora abituati. Ne deriva una transizione in tutti i sensi onesta per un cavallo di razza con meno lividi sull’anima ma pur sempre capace della zampata di classe. Anche se The Graceless Age era un’altra e ben più memorabile faccenda, si merita sette più e una pacca sulla spalla.

St. Vincent – Daddy’s Home (Loma Vista)

Con i dovuti distinguo, St. Vincent è diventata una versione “concreta” di Bjork. Nel senso che, senza (s)cadere nella fredda autoreferenzialità, possiede l’abilità di sorprendere restando riconoscibile e di trafficare con il pop sullo spartiacque tra innovazione e immediatezza. Lo fa con la disinvoltura di chi sette anni or sono entrava con un favoloso album omonimo – lei assisa sul trono: legittimamente – in una maturità. Una, non “la”. Perché con i camaleonti si hanno sempre delle sorprese e infatti Daddy’s Home, dichiaratamente ispirato ai primi anni Settanta, sterza verso sonorità più “organiche”. Stavolta la ragazza sorprende fingendosi convenzionale, sistemando a monte del gesto una sofferta scintilla autobiografica e tenendosi stretta la convinzione che costruirsi una personalità significa anche cucire tra loro diversi passati. Tuttavia, mentre guarda dentro e attorno a sé, per qualche motivo inciampa in episodi piuttosto opachi sotto il profilo compositivo o che hanno una certa aria da esercizio di stile. Non succede nel funk alla Bowie sotto botta colombiana di Pay Your Way In Pain, nel groove sinuoso di Down, nel gospel urbano e acidulo The Melting Of The Sun e in una manciata di apprezzabili slalom tra Prince, Beck e P.J. Harvey. Materiale sufficiente a tamponare le incertezze e confermare un talento imprendibile e imprevedibile. Un talento per il quale il futuro è sempre un ipotesi fino al prossimo ch-ch-ch-change.

Teenage Fanclub – Endless Arcade (Pema)

Quando scrive che il tempo è un bastardo, Jennifer Egan ha assolutamente ragione. Incurante di tutto, lui dà ma più che altro prende – anzi: strappa – senza chiedere il permesso. Amici, giorni, ricordi… Ecco: anni fa, ai gruppi rock non era concesso di invecchiare e loro stessi lo facevano con scarsa grazia. Nondimeno, a un certo punto i “vecchi” hanno iniziato a dare giri di pista alle nuove generazioni, per lo più incapaci di infondere vita nei loro esercizi di stile. Questi i confini entro cui si muove l’undicesimo album dei Teenage Fanclub, il primo senza il bassista Gerard Love. In quella che da sempre era una democrazia, dal punto di vista compositivo l’assenza del pilastro si palesa in toni ancor più malinconici e meditati, sui quali ha influito in buona misura anche il recente divorzio di Norman Blake. Abbassato il volume e ridimensionati i distorsori, il gusto melodico ispirato alle “quattro grandi B” – Byrds, Badfinger, Beatles, Big Star – veste un folk-rock urbano cucito da quelle armonie vocali e contrappuntato dalle tastiere del nuovo arrivato Euros Childs, già nei favolosi Gorky’s Zygotic Mynci. Forme ed esecuzione sono perfette per atmosfere crepuscolari e dolceamare che dispiegano la maturità autoriale con fare discreto e si impongono con gli ascolti. Come fossero discorsi di vecchi amici attorno al fuoco, si incamminano sulla via che porta al club dei cuori infranti. Bastardo o meno, c’è un tempo per ogni cosa.

Brividi e mal di pancia in pillole, 1

Durante un raro momento di lucidità mi sono reso conto che da un po’ non creavo una nuova rubrica per “Turrefazioni”. Cogliendo la palla al balzo, ho scelto di assecondare il mio approccio alla contemporaneità improntato a rigide selezioni e a una metodologia vecchio stile, lontana dal senti-e-getta attuale. Così, da questo primo appuntamento apro una finestra periodica dedicata a dischi usciti nell’anno in corso che, per vari motivi, non tratto in articoli più lunghi. In ogni caso, tiro le fila delle reazioni suscitate da ascolti attenti e ripetuti, per l’appunto comprese nell’ampio spettro tra il brivido e i bruciori di stomaco. La cadenza delle “pillole” resta legata alla valanga di pubblicazioni che ci sommerge quotidianamente e al tempo utile per selezionare e poi ascoltare più attentamente possibile. Altro non mi resta da dire, se non ringraziare Shaun Ryder per il “campionamento” del titolo. Buona lettura.

Chills – Scatterbrain (Fire!)

Nell’era di Internet abbiamo perso il senso “verticale” del tempo e il controllo sulle reunion, che troppo spesso oscillano tra il superfluo e il patetico. Meno male che qualche eccezione conferma la regola: per esempio i Dream Syndicate e, su un piano più di culto, i neozelandesi Chills. C’è un valido motivo: la band è espressione del talento di Martin Phillipps, il quale voleva essere Syd Barrett, Roger McGuinn e Ian Curtis tutti insieme appassionatamente e c’è riuscito eccome. Dal 1980 questo artigenio non ha mai smarrito il tocco magico che con Scatterbrain sistema un altro pregevole tassello, dove gli ingredienti sono i soliti ma la scrittura si “apre” un filo più che negli immediati predecessori. Chissà che c’entri qualcosa il film “The Chills: The Triumph And Tragedy Of Martin Phillipps” che due anni fa raccontava le vicende del nostro antieroe con disarmante franchezza. Doversi rivedere – e rivedere il passato – può aver acceso qualche altra scintilla e allora parlerebbe chiaro Monolith, eloquente gioiellino collocato in apertura di programma. Per capirci tra fan, è una Pink Frost che sostituisce il pozzo di malinconia con un prudente ottimismo, conducendo in un universo parallelo dove Julian Cope è uno dei Seeds. Annotato che la grafica è opera niente meno che di David Costa, gustatevi l’ennesima dose di dolceamaro indie-pop d’autore che miscela folk-rock, new wave e psichedelia “morbida” con rara maestria. Grazie, Martin: ci risentiamo tra tre anni. Se ti va, anche prima…

Dry Cleaning New Long Leg (4AD)

Formazioni come i Dry Cleaning risultano utili da un punto di vista “speculativo”, perché stimolano a ragionare sul peso delle formule nell’attualità della popular music e su quanto possa reggere un suono non sostenuto da un’adeguata scrittura. Ciò premesso, dal 2018 il quartetto britannico ha gestito la sua carriera alternando uscite di breve formato a un’intensa attività concertistica interrotta dalla pandemia. Nel frattempo, ha lavorato con cura sull’attesissimo album d’esordio e, allorché si registrano dischi all’insegna del “tanto per”, l’intenzione è assai lodevole. Non così il risultato, dove l’ennesima riapparizione del post-punk cerca di sottrarsi a un passato ingombrante (senza scomodare i pesi massimi, basta il paragone con certi nomi dei “nostri” anni Dieci ed è tutto dire) ricorrendo al consolidato repertorio di scorticamenti, obliquità e storture che abbiamo ascoltato infinite volte con tutt’altra verve, sicché gli interessanti testi sgranati da Florence Shaw – pensate a una Laurie Anderson scazzata: pure troppo per i miei gusti – sono inanellati su un rosario di luoghi comuni per lo più smunti e incolori. Costituiscono belle eccezioni la sensualità funk sbiancata alla Au Pairs di Strong Feelings, l’ipnotico minimalismo di Leafy, i Polyrock irrobustiti di More Big Birds e la No Wave declinata math e space di Every Day Carry. Canzoni di buonissimo livello con le quali una volta si sarebbe confezionato un 12”, mentre il resto scivola via senza artyparty.

GY!BE – G-d’s Pee AT STATE’S END! (Constellation)

Compagni che non ti deludono mai, i GY!BE. Li hanno disegnati così: sicuri dei propri mezzi etici ed estetici, fedeli a una solidissima linea, determinati a tratteggiare l’apocalisse attorno a noi con dischi che mostrano uno spirito sempre più umano. Perfetto, poiché c’è un gran bisogno di puntare il dito e di sperare in un domani. Soprattutto, di combattere per esso con ogni mezzo necessario. Perché non basta mettere dei disegni di bottiglie molotov in copertina se l’antagonismo si ferma lì. Ma questo, lo sappiamo bene, non è il caso di chi offre oasi di pace bellicosa e intenzioni che divengono sempre prassi. Come questo nuovo album, intenso apice di un percorso ripreso quasi dieci anni fa insistendo per l’appunto sull’umanità e sforbiciando un pochino le durate di composizioni al solito mercuriali, densissime e imprendibili. Qualcosa che, nello specifico, spinge a escogitare descrizioni fantasiose – tanto per cambiare, abbastanza velleitarie – come “King Crimson e Amon Düül II che ospitano i Savage Republic a Pompei”, salvo sistemare a fondo corsa uno struggente congedo di liturgico afflato avendo già intervallato un altro oceano sonoro – indeciso tra la mestizia nervosa degli Earth, un’elegia da Spacemen 3 terrigni e fughe motorik – con un oscuro e sospeso folk urbano. Sempre uguale ma sempre diversa, la musica del collettivo canadese è un essere vivente che cresce con i suoi artefici e con chi ascolta. È Arte unica, suprema e meravigliosa. Arte da tenere stretta al cuore.

Ryley Walker – Course In Fable (Husky Pants)

Nonostante l’esito poco persuasivo, fa comunque piacere che Ryley Walker si sia messo alle spalle un periodo umanamente complicato. Lungo la seconda metà dello scorso decennio, infatti, la sua parabola di moderno cantautore ha mostrato un talento cristallino, abilissimo nello spremere un succo personale e gustoso da tanti frutti, che fossero l’Americana, le contaminazioni folk a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, un “post” dapprima attitudine e poi anche forma. Splendori come Golden Sings That Have Been Sung e Primrose Green erano arditi e baciati in fronte da una naturalezza di scrittura e impaginazione che attualmente appartengono a pochi. Ecco: il difetto di Course In Fable va cercato proprio in un diffuso virtuosismo spacciato per eclettismo, nel tortuoso zigzagare tra inutili orpelli che altrove scivola in una rilassata monotonia poco adatta ai cavalli di razza. A conti fatti, la presenza in regia di John McEntire lasciava presagire qualcosa di più di un catalogo di stilemi della Chicago che fu e di deprecabili strizzate d’occhio al progressive. Senza l’ironia e la classe di un Jim O’Rourke, il disco finisce per impantanarsi a metà del guado e meno male che – forse conscio di farla spesso fuori dal vaso – il ragazzo recupera lucidità porgendo un po’ di romanticismo che respira, emozionato ed emozionante. In attesa della prossima mossa, si salva in corner permettendo di assolvere Course In Fable con un sei e mezzo e una pacca sulla spalla. Quanto al domani, si vedrà.

Come te nessuno mai: Isobel Campbell

A volte, per rifarsi una vita non c’è altra soluzione che andarsene. Infili la porta con la valigia in mano e, senza guardarti troppo indietro, arrivederci e grazie dei ricordi. Regola aurea per chiunque, in particolare per la categoria di artisti che cerca costantemente l’evoluzione nella continuità. Un equilibrismo delicato e per nulla facile che può implicare scelte anche piuttosto drastiche, come quella presa da Isobel Campbell che nel 2002 mollava allo zenit creativo i Belle & Sebastian co-fondati poco più che adolescente. Ecco: a mio modesto avviso, la macchina indie-pop per eccellenza dell’ultimo quarto di secolo – i veri eredi “post postmoderni” degli Smiths – ha iniziato a imballarsi con la defezione sua e di Stuart David.

Il punto però non è questo. Il punto è che la ragazza ha intrapreso in tutta calma una carriera degna di rispetto, dapprima con quei Gentle Waves in cui figuravano anche membri dell’ex gruppo e successivamente, preso il coraggio fra le mani, mettendoci il nome. A tre dischi con Mark Lanegan aggiungo il paio pubblicato in solitudine e, con un certo stupore, realizzo che dall’ultima missiva di tempo ne è trascorso un bel po’. La Campbell non è comunque stata con le mani in mano: dopo il trasloco a Los Angeles e le nozze con il produttore Chris Szczech, lavorava su There’s No Other terminandolo nel 2016. Succedeva però che l’etichetta originaria nel frattempo falliva e il progetto rimaneva invischiato nei relativi strascichi legali, finché la Cooking Vinyl soccorreva la cantautrice, ormai prossima al crollo psicologico, con un nuovo contratto e il supporto necessario agli ultimi ritocchi.

isobel gazing

Meno male, ché altrimenti ci saremmo persi una delizia nella quale una certa rilassatezza venata di malinconia che è la cifra stilistica della scozzese rappresenta anche la catarsi “postuma” del percorso di cui sopra. I tredici brani registrati a L.A. con il marito seguono infatti la bussola del sunshine pop e delle mutazioni folk a cavallo tra anni ’60 e ’70, tuttavia affidandosi al solido approccio creativo (nello specifico: un orecchio teso alla modernità comunque classica di Mojave 3 e Mazzy Star) che ha permesso ai Mercury Rev lo squisito The Delta Sweete Revisited. Parlano chiaro le atmosfere che sin dalla copertina richiamano la psichedelia light e gli arrangiamenti curati nel dettaglio che contraddistinguono un folk-pop orchestrale di elevata seduzione melodica e dai toni twee d’ordinanza.

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Svelato il gioco con l’iniziale luccichio City Of Angels, nel prosieguo la ricetta è arricchita con l’elettronica vintage di recente adottata dal Moon Duo (Ant Life), bossanova felicemente svagata (Rainbow), vibranti pennellate gospel (The Heart Of It All) e soul (Hey World). Ne deriva un sostanzioso babà retromaniaco frutto di passione ed esperienza che non risulta mai banale né melenso. Che addirittura consegna un poker di piccoli capolavori tramite la rilettura di Runnin’ Down A Dream di Tom Petty dove Margo Guryan si dà al krautrock, una The National Bird Of India dipinta con pastelli lisergici, la sinuosa ma pure mesta Boulevard e il delicato commiato Below Zero. There’s No Other è un perfetto compagno per attraversare l’inverno, accogliere la primavera e durare nel tempo. Congratulazioni, cara Isobel.

Steve Gunn e la poesia in movimento

Chissà dove trova Steve Gunn il tempo per dormire. La domanda sorge spontanea scorrendo il curriculum del songwriter e chitarrista nato in Pennsylvania e trapiantato a Brooklyn. Sintetizzati tre lustri di carriera, annoto frequentazioni con Michael Chapman, Mike Cooper, Sun City Girls e Kurt Vile, il trio super underground GHQ, una nutrita produzione solista spalmata anche su edizioni limitate, CD-R e nastri. Roba da gareggiare con Ty Segall perdendo al fotofinish con i medesimi pro e contro: genio e sperpero, poliedricità e iperproduzione.

Eppure la maturità prima o poi giunge a chi mette in riga il proprio creativo (dis)ordine. Tale il caso di un workaholic spostatosi da contesti sperimentali/improvvisativi verso una indiedelia però confondendo le linee di confine. Mossa azzeccata che poggia su un suono privo di stilemi, su canzoni che sanno mantenere desta l’attenzione, su un artista moderno che sa il fatto suo e di conseguenza assorbe ogni cosa per rilasciarla in forme ibride.

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Benedetta sia la sorella maggiore che lo riforniva di cassette durante un’adolescenza spesa tra rap e hardcore punk. Accostando così a psichedelia, folk, country e funk la mente aperta e fertile che in seguito si appassionava alle tradizioni indiana e Gnawa, a La Monte Young e alla scena “trasversale” di Filadelfia. Nella Grande Mela iniziava l’iperattiva corsa di cui sopra, finché Way Out Weather e Eyes On The Lines rendevano più fruibile un approccio “neo neo-psichedelico” alle radici. Senza smarrire espressività e fascino, cavava dal cilindro una musica in grado di spalancare il proprio alveo oppiaceo su ampi spazi.

Approccio replicato dal nuovo lavoro – il secondo griffato Matador – The Unseen Inbetween con un distinguo fondamentale. Il ragazzo ha purtroppo perso il padre e affronta il lutto tramite un disco “importante”: per una vocalità migliorata a vantaggio dell’introspezione, per la presenza di Tony Garnier, bassista e arrangiatore di Bob Dylan, per il respiro delle tessiture strumentali. Davanti all’ineluttabilità della morte nondimeno si celebra la vita e il bello che nasconde, quel “non visto tra le righe” esplicitato dal titolo.

unseen

Scrive “Allmusic” che la copertina ricorda gli LP folk dei medi ’60 e chiama in causa Bert Jansch. Condivido, aggiungo Bleecker & McDougal a uno dei pallini di Steve e lascio la custodia raffigurata su The Unseen Inbetween libera di spargere il suo folk-rock dalle tinte psichedeliche sin da New Moon, sensazionale incipit dove David Crosby e Fred Neil – l’influenza del quale permea anche il dolce jazz-folk Luciano – riscrivono Triad tra scintillanti riverberi elettrici. La scortano una Vagabond da Go-Betweens persi nei solchi di Meat Is Murder e Stonehurst Cowboy, scarna elegia sulla via di Blues Run The Game.

Basterebbe eccome, ma poiché trattasi di un talento che assorbe e rilascia ecco Lightning Field spolverare di LSD un’Americana altrove svagata (Chance) oppure avvolta in acustiche malinconie d’oltremanica (Morning Is Mended); ecco gli Smiths ripresentarsi in una tecnica chitarristica memore della lezione di Johnny Marr, pure lui discepolo di Jansch e allora tutto quadra; ecco l’abilità a mescolare il proprio retaggio in una New Familiar tra Rain Parade e Meat Puppets e nell’articolazione visionaria di Paranoid. La somma, diceva Totò, fa il totale. Il totale è uno dei dischi del 2019. Sloggia, Jonathan Wilson: in città c’è posto per un solo sceriffo. Il suo nome è Steve Gunn.

Lovin’ Spoonful: cucchiaiate di talento

Nella popular music c’è chi riesce a essere piacevole e a lasciare il segno conservando freschezza. Considerati Beach Boys e Byrds soprannaturali “a sé”, lanciati in alto nel sole e ancora più su, i newyorchesi Lovin’ Spoonful furono tra i primi che nei Sessanta risposero alla British Invasion, assieme a quei Beau Brummels dislocati sulla costa opposta con i quali condivisero inoltre la sufficienza di certa critica. Come se sfornare hit di peso e pregio fosse un male e al proposito basterebbe ricordare l’orientamento del mercato di allora. Sottolineando subito dopo l’ammirazione di McCartney (Good Day Sunshine risultò dal tentativo di scrivere qualcosa che somigliasse a Daydream, 45 giri degli Spoonful presente anche nel jukebox di casa Lennon…) e dei fratelli Davies.

Quando poi basterebbe accostarsi sereni a canzoni colme dell’innocenza fiduciosa di un’epoca in cui anche la musica di enorme successo edificava sogni e speranze. Il segreto va cercato nella levità di tocco e nel solido, policromo background delle personalità complementari di John Sebastian e Zal Yanovsky. Classe 1944 entrambi, uno figlio d’arte (papà armonicista classico, mamma autrice per la radio) che cresce nel Greenwich Village e giovanissimo partecipa al folk revival; l’altro un chitarrista canadese, pure lui folkettaro però simpaticamente svagato.

Lovin'

Mito vuole che si conoscano la sera in cui i Beatles conquistano l’America ospiti di Ed Sullivan, il 9 febbraio 1964. Sebastian – già apprezzato turnista, in carniere un 33 giri con la Even Dozen Jug Band – si reca dall’amica Cass “presto sarò Mama” Elliot per assistere allo spettacolo televisivo e incontra Zal. Scattata l’intesa, presa la ragione sociale da Mississippi John Hurt e reclutati Steve Boone al basso e Joe Butler alla batteria, nel ’65 i Lovin’ Spoonful sono realtà. Risolto un litigio di prelazione tra Elektra e Kama Sutra in favore della seconda, a luglio Do You Believe In Magic vola alto con pieno merito. Erik Jacobsen in regia, l’album dal medesimo titolo bilancia hit e traditional, il Fred Neil di Other Side Of This Life e il robusto Night Owl Blues. Frenetico il 1966: manita di singoli in classifica e tre LP nei negozi!

Daydream aumenta la notorietà europea (la title-track svetta sulle composizioni autografe ora prevalenti) tonificando l’impasto di folk, pop, country, blues e rock che la stampa battezza “good time music” ispirandosi a un loro brano. Prescindibile il commento al film di Woody Allen “What’s Up, Tiger Lily”, Hums Of The Lovin’ Spoonful rappresenta viceversa “il” disco dei Lovin’ Spoonful. Qui la celeberrima Summer In The City, la scintillante giostra pop Full Measure, un’esplicativa Nashville Cats, l’acquerello Rain On The Roof. Qui la dolcezza di Darlin’ Companion, l’altro tributo a Neil della sospesa Coconut Grove, una 4 Eyes memore di Bo Diddley, il blues asciutto Voodoo In My Basement. Qui la maturazione di un stile che sta per fare i conti con la realtà.

spoonful

Sulla band iniziano a piovere pietre: l’arresto di Boone e Yanovsky per possesso di marijuana e la sostituzione di costui con Jerry Yester, Jacobsen che se ne va, gli hippie che li schifano. A fine ‘67 John saluta dopo la colonna sonora del coppoliano “You’re A Big Boy Now” e il più che dignitoso Everything Playing. Butler traghetta la sigla a fine decennio tramite l’inferiore Revelation: Revolution ’69, Sebastian inaugura a Woodstock la carriera solista, Yanovsky produce con Jerry Happy Sad di Tim Buckley, registra il folle Alive And Well In Argentina e poi va in Ontario a gestire un ristorante.

I membri originali si ritrovano nel ‘79 per la pellicola “One-Trick Pony” di Paul Simon e nel 2000, accolti alla “Rock And Roll Hall Of Fame”. Dai primi Novanta gira una formazione con Boone e Butler (John si è sempre rifiutato; idem Zal, morto d’infarto nel 2002; fino a un paio d’anni fa e a una storiaccia di porno-pedofilia, Yester era invece della partita) che mi sforzo di ignorare. Preferisco pensare alla magia in cui tantissimi tuttora credono. Una magia che coglie appieno lo spirito di un preciso momento storico e sociale mentre si rivela eterna. Non erano – non sono – solo canzonette. Ascoltare per credere.

Il sogno del pescatore

Che faccenda dolcemente buffa, la vita. Basta un soffio a cambiare i nostri piani e il corso degli eventi. Lo sa bene chi, studiando la storia, si diverte con i “what if”, ovvero le ucroniche riflessioni su come le cose sarebbero (state) se… Talvolta mi succede ripensando a vite che furono la mia. E allora ricordo. Ricordo una sera milanese nel tardo novembre 1989, assieme all’amico Luigi e tanti altri che ho conosciuto decenni dopo grazie a Internet. Ricordo un teatro Orfeo gremito in trepidante attesa. Ricordo il terzo concerto cui assistetti, tuttora indelebile sebbene legioni da allora lo abbiano seguito.

Perché gli Waterboys furono magnifici. Perché da adolescente senti tutto in un modo che poi non torna più, se non in forma di frammento o anelito. Perché Fisherman’s Blues è un disco davvero “larger than life” e chiunque lo può testimoniare. Rimetterlo sul piatto significa veder nascere un arcobaleno o sentire il brivido dell’Amore che scorre nel sangue. Gli occhi si inumidiscono. La bellezza che irradia da trent’anni ti sussurra “Così eravamo, così siamo ancora. Solo, con più saggezza ed esperienza”. Le credo.

sitting mike

Un po’ di cronaca, ora. Dal 1982 l’edimburghese Mike Scott usa gli Waterboys a mo’ di paravento solistico avendoli consolidati attorno al polistrumentista Anthony Thistlethwaite e al tastierista Karl Wallinger. Due LP – un debutto omonimo più brillantemente di A Pagan Place – hanno scolpito un suono epico ma arguto che in un brano/manifesto Scott definisce big music. Il primo “what if”: non fosse entrato in scena Steve Wickham, in eterno avremmo catalogato i Ragazzi Acquatici come validi epigoni spectoriani degli U2. Mike invece accoglie quel magico fiddler irlandese ascoltato in un demo di Sinead O’Connor confezionato da Karl. Nell’autunno ’85 lo splendido This Is The Sea è anticamera di grandezza, aprendo al folk uno stile maturo che verrà ripreso dagli Arcade Fire.

Quando Wallinger preferisce dedicarsi ai World Party, Wickham invita il capobanda sull’isola di smeraldo per qualche giorno. Vi soggiornerà alcuni anni in un prolungato carpe diem. Ecco l’altro “what if”: senza la musica sotto il cielo d’Irlanda, senza un sentire acustico, senza la scoperta delle radici intrapresa dagli artefici mai avremmo ascoltato Fisherman’s Blues. Nel 1988, un gruppo che somiglia a una carovana di zingari felici giunge nella quieta Spiddal. Scott allestisce lo studio nella casa sull’Atlantico raffigurata in copertina, lascia la porta aperta e affronta la tradizione. Un piede dentro e l’altro fuori dal solco, distilla il biennio di registrazioni (nel 2013 il confanetto Fisherman’s Box svuoterà l’archivio con sei CD stracolmi) effettuate sulla baia di Galway, a Dublino, in California. Il risultato è indimenticabile.

fish blue

Sublimi i cinquantadue minuti racchiusi tra il travolgente folk-rock della title-track e una breve, divertita cover di This Land Is Your Land. La prima facciata vive di contrasti che si rivelano subito complementari, siccome alla sensualità ruvida, fiammeggiante e minacciosa di We Will Not Be Lovers risponde una Strange Boat malinconica come il Dylan dietro l’angolo. World Party è raffinata e potente e la rilettura di Sweet Thing trasporta Astral Weeks dal cielo alla terra e ritorno, fiume emotivo che sfocia nella beatlesiana Blackbird tramite un violino improvvisatosi merlo mattiniero. Nondimeno è il lato B a dirsi Capolavoro nel Capolavoro: And A Bang On The Ear galoppa sulla Statale 61 collegando Nashville al Connemara; l’amarognola Has Anybody Here Seen Hank omaggia il Gigante Williams con parole e fatti; When Will We Be Married si porge popolaresca e guascona; When Ye Go Away è intrisa di crepuscolare romanticismo e Dunford’s Fancy un breve diversivo prima dell’apnea The Stolen Child, versi di Yeats declamati col poeta Tomás Mac Eoin lungo uno scenario qui elegiaco e là teso.

Al dissolversi del quale il Maestro Woody Guthrie invita bonario a risalire in vetta. Insuperata, va da sé. Ci sarà ancora tempo per il tour citato in apertura e l’apprezzabile svagatezza naif del successivo Room To Roam,  che nel settembre 1990 prelude all’abbandono di Wickham, in disaccordo sulla direzione di una band che presto si sbriciola. Da allora Mike Scott ha perseverato con dischi inutili, pasticci e autoparodie ma gli voglio bene lo stesso. Anche se le lancette dell’orologio possono camminare all’indietro solo nella fantasia e nella memoria. Del resto, siamo anche ciò che siamo stati. Che faccenda dolcemente buffa, la vita.

Tim Rose, a long time man

Se vi state domandando chi sia Tim Rose, suggerisco un esperimento. Estraete dallo scaffale Your Funeral, My Trial, puntate Long Time Man e ascoltate più volte. Infine, cercate in rete l’originale e, toh, avrete la radice primeva del Re Inchiostro che intinge nella pece una favolosa murder ballad apocrifa. Nel pittoresco bestiario del rock, Tim è qualcosa di poco noto e singolare: non si rovinò come Hardin, non sparì come Fred Neil, non esplose a contatto con la realtà come Buckley. Dotato di una penna con lampi di vaglia, fu per lo più un terrigno e carnale interprete – nell’epoca in cui l’autore si imponeva: forse questo spiega il persistente oblio – che impastò folk, rock, blues e soul da viso pallido con l‘ugola ne(g)ra. Però di veramente bello gli riuscì un solo disco. Però patì l’assenza di Lee Hazlewood o un Phil Spector, che l’avrebbero aiutato a ottenere gloria, onori e altre meraviglie. Però ci sono un pugno di canzoni da conoscere e custodire e una vicenda che è una storia americana. Nel bene e nel male.

Classe 1940, Timothy Alan Patrick Rose cresce in Virginia ereditando l’amore per la musica dalla nonna, pianista nei cinema del muto, e da una zia cantante d’opera. Influenze utili allorché, chitarra e banjo in spalla, entra nel mondo dello spettacolo dopo un picaresco percorso che lo ha condotto in seminario, in banca, nell’aviazione militare e nella marina mercantile. Venti-e-qualcosa, in svariate formazioni incrocia colleghi di belle speranze: John Phillips, Scott McKenzie, Jake Holmes. La prima faccenda seria sono i Big Three con quella Cass Elliot e John Brown (poi James Hendricks): tra ’62 e ’63, pubblicano due album folk di buon successo prima di sciogliersi per divergenze artistiche. Tim si ritrova solo sui palchi newyorchesi e nell’autunno 1966 è adocchiato da David Rubinson, firma con la CBS e il primo 45 cade nel vuoto. Senza scomporsi, David manda in studio Jay Berliner, Felix Pappalardi e Bernard Purdie a sgobbare su un intero LP seguendo gli arrangiamenti del Nostro.

smilin' Tim

Il singolo che lo traina è una Hey Joe che dalle sprintate letture di Leaves, Love e Byrds si trasforma in epica moviola. Tesa e collerica, così aderisce perfetta al testo e l’esempio verrà raccolto subito da Jimi Hendrix e, anni dopo, di nuovo dal fan Nick Cave. Introduzione fenomenale a un Tim Rose che dal ‘67 brilla per vigore, compattezza, varietà: I’m Gonna Be Strong gira Kurt Weill in bolero soul e la delizia barocca You’re Slipping Away From Me immagina una Nancy Sinatra maschia; King Lonely The Blue imbocca l’autostrada 61 parcheggiando sotto al Brill Building mentre I Gotta Do Things My Way e Where Was I?, Fare Thee Well I Got A Loneliness spargono rhythm’n’blues vibrante, robusto e strapazzato con gli arnesi del rock. La seduzione senza scampo di Long Time Man è contrappuntata da Come Away Melinda e da una voce che spegne il pathos in un vuoto apocalittico. Morning Dew è letteralmente strappata all’autrice Bonnie Dobson con strofe leggiadre, sferzare di ritornello, canto inerpicato su un cielo di pause teatrali e rimbombi “wall of sound”. Speziato il tutto con un po’ di melodramma pop, il gioco (non) è fatto.

Tim Rose album

Il visibilio di Albione è infatti intenso ma breve. Un tour con la Aynsley Dunbar Retaliation stupisce le platee mentre il malinconico folk Long Haired Boy è già l’ultimo centro. Qualcosa si rompe, subito. In coda ai ’60, per produrre il rock screziato d’ebano di Through Rose Colored Glasses si interessa George Harrison ma poi rinuncia. Il discreto risultato non lascia tracce e idem Love: A Kind of Hate Story. Tim rientra in patria, alternando i concerti alla guida di voli charter finché rimedia un contratto con – da non credersi! – l’etichetta di “Playboy”. La quarta fatica è ancora omonima e un altro fiasco: Hugh Heffner capisce di tette & culi però zero di dischi e in Europa non distribuisce. Nel 1974 un uomo prostrato riattraversa l’oceano per una tournee con lo sfattone Hardin e vedere Joe Cocker raccogliere consensi e danari con le sue intuizioni.

Quattro anni di mediocrità e frustrazioni dopo, alza bandiera bianca. A New York si sposa, fa il muratore, canta jingle pubblicitari; conseguita la laurea in storia, diventa broker di Wall Street e poco per volta abbandona musica e borsa, bottiglia e matrimonio. Avanti veloce al 1996. Il devoto Cave gli scrive per esprimere gratitudine ed ecco un documentario, tour e i vecchi album che riappaiono nei negozi accanto a materiale nuovo. Il destino tuttavia srotola fili amari. Sedici anni fa Tim Rose festeggiava il compleanno in ospedale per un’operazione all’intestino. Il cuore lo tradiva il dì seguente e da allora riposa a Brompton. Il giaciglio, sobrio, porta scritto “american troubadour”. Sottoscrivo. Per me il “terzo Tim” resterà per sempre l’adorabile smargiasso che, sigaro in bocca, si pensa per un attimo in vetta al mondo.