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Frammenti di un paradiso pop: Guided By Voices

Se nutri interesse per il lato visionario del pop, a Robert Pollard vuoi un sacco di bene. Nonostante tutto, perché nessuno è perfetto e tanto meno un artigenio che probabilmente batte Billy Childish quanto a (iper)produttività. Non mi sono dato la pena di controllare, ma pare che la discografia del Nostro si attesti sulle tre cifre, e comunque i conti fateli voi. A me importa lodare la band tornata in pienissima attività con un profluvio di dischi che nemmeno la pandemia ha arrestato e, quel che più conta, in buona forma.

Ho scritto “band” e tuttavia, pur senza sminuire la cinquantina di elementi transitati nelle sue fila e il braccio destro Tobin Sprout, i Guided By Voices sono Robert Pollard. Per questo, da che mise un primo punto alla vicenda non c’è stato modo di annoiarsi tra la carriera solista e svariati altri progetti: per le medesime ragioni, la rimpatriata non offre il fianco a critiche. Anzi, sottolinea l’atemporalità delle canzoni di Bob, che sono battiti di ciglia che cuciono pop, psichedelia e new wave in un fugace momento, dove ciò che per altri è abbozzo dipinge un universo compiuto.

Rimuovere il superfluo mostrando l’arguzia compositiva è il segreto di un culto per antonomasia. Di un anello mancante tra Beatles, Television Personalities e Swell Maps che, costruendo un ponte tra R.E.M. e Beat Happening, è servito da esempio per Sebadoh e Pavement. Non è poco, ne converrete. Sorrido al pensiero che Robert (classe 1958: maestro elementare, amante dei surrealismi verbali, voce al crocevia tra Paul McCartney e Michael Stipe) si sia trovato per caso in una cantina di Dayton, Ohio, a inseguire sogni. Intorno ai venticinque anni, inizia ad avvolgere un folk-rock venato di nervosismo e popedelia in brevi schegge che sbucano da una foschia sonora.

Spetta ai Fab Four della Georgia ispirare nel 1986 il mini Forever Since Breakfast, laddove nell’87 gli LP Devil Between My Toes e Sandbox indicano discrete potenzialità, confermate entro due anni da Self-Inflicted Aerial Nostalgia. Più cupo nel 1990 Same Place The Fly Got Smashed, la svolta giunge dodici mesi dopo: autoprodotto come i predecessori in poche centinaia di vinili, Propeller vede l’ingresso di Sprout, che con la sua penna bilancia lo strapotere di Pollard. Apportato un tocco di equilibrio, il cocktail di sixties, sperimentazione e ironia non sfugge alla stampa, nel ’93 Vampire On Titus esce su Scat e un gruppo cui si sono aggiunti Mitch Mitchell, Greg Demos e Kevin Fennell – con ragione, questa viene considerata la line-up “classica” – si esibisce dal vivo con maggiore frequenza.

L’asso è calato l’anno successivo da Bee Thousand, un Revolver da cantina – ascoltare per credere Kicker Of Elves, Queens Of Cans And Jars, Echos Myron – però imbevuto di freakbeat e post-punk. Solo colpi d’ala qui, dagli Wings alticci di Tractor Rape Chain alle The Goldheart Mountaintop Queen Directory e Yours To Keep sottratte allaIncredibile String Band, passando per la dolcezza svagata di A Big Fan Of The Pigpen e per il Dan Treacy abbigliato paisley di I Am A Scientist. Se Mincer Ray e Hot Freaks sono gli Wire con Stipe al microfono, le incrostazioni di Hardcore Ufo e i Gang Of Four spuri di Her Psychology Today tratteggiano un manifesto estetico che restituisce anima alla musica.

Lo stile definito dal sardonico leader lo-fi arena rock impressiona la Matador ed ecco Alien Lanes riassumere un linguaggio che ora possiede anche la compattezza per imporsi nel panorama indie. Applausi agli incroci di Pixies e Beatles (As We Go up We Go Down, A Salty Salute) o di Move e Fall (Pimple Zoo, Watch Me Jumpstart), a 45 giri dimenticati nel cassetto da Pete Townshend (Closer You Are) e scivolati via da Document (Stripes White Jets), a ipotesi di Zombies in overdose di elio (Chicken Blows), agli omaggi alla Flying Nun (Blimps Go 90) e ai Soft Boys (Alright), alla sintassi matura e mirabile di Motor Away, Game Of Pricks e My Valuable Hunting Knife. Dopo l’ingresso nell’élite alternativa, Under The Bushes Under The Stars soffre però una certa stanchezza.

Il rischio dello stereotipo dietro l’angolo, nel 1997 Pollard rinnova la compagine assoldando i veterani Death Of Samantha, frattanto ribattezzatisi Cobra Verde. Si spiegano così le trame strumentali più robuste di Mag Earwhig!, evoluzione che colloca tra Big Star, Badfinger e Posies la bellezza di I Am A Tree, Bulldog Skin, Not Behind The Fighter Jet e Now To War. Logico a quel punto tentare il salto di categoria, però Ric Ocasek non trova la quadra di uno standard compositivo inusualmente basso: continuamente rinviato, Do The Collapse esce su TVT nel ’99 lambendo il fondo dei Top 200 con una blanda e stralunata parafrasi degli Weezer. Mentre dei Cobra Verde rimane solo il prezioso Doug Gillard, il periodo negativo prosegue con il divorzio del nostro eroe, che tuttavia trova la forza di reagire e recupera terreno in Isolation Drills.

Scarse le vendite, rientra alla Matador per Universal Truths And Cycles, Earthquake Glue e Half Smiles Of The Decomposed che, a inizio del nuovo millennio, coniugano inventiva e verve. Si chiude su una nota alta: una maratona di quattro ore e sessantatré (!) canzoni, tenuta il 31 dicembre 2004 al Metro di Chicago e immortalata dal DVD The Electrifying Conclusion. Come accennato in apertura, lo spazio verrà colmato da un profluvio di sigle e imprese solitarie da setacciare in cerca di gioiellini. Infine, la nostalgia una tantum non canaglia riallaccia i fili del discorso dal 2010 al 2014. Infine, sei anni fa Robert ha riaperto i cancelli del suo bizzarro e bellissimo mondo. Un mondo che somiglia a un paradiso per atei. Siate i benvenuti.

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Brividi e mal di pancia in pillole, 3

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You (4AD)

In un’epoca complicata come questa è fondamentale permettere a un gruppo di crescere senza caricarlo di ruoli che spesso finisce col rifiutare. Diciamolo: il rock non ha bisogno di salvatori e, come ogni altra forma d’arte, è vivo e vegeto anche se ha conosciuto giorni migliori. Ma del resto neppure noi stiamo una favola, dunque… Venendo al punto, se nel 2019 Two Hands segnava un notevole progresso per l’idea di Americana osservata con lenti post-indie della formazione guidata da Adrianne Lenker, adesso si coronano ambizioni e tragitto con un disco “importante”. Alla faccia dell’ascolta-e-getta, vi sfilano venti brani – su un totale di quarantacinque, registrati in diversi momenti e località degli Stati Uniti – per qualcosa che possiede i crismi della summa estetica.

Mi piace credere che il fervore creativo sia servito a impedire a un mondo prossimo al tracollo di intromettersi, perché la bellezza ci salverà. Forse. Di certo tiene viva la speranza e rende migliori i giorni. Cosa della quale i Big Thief sono consapevoli e lo stesso dicasi per le dinamiche umane che intrecciano al talento e per una maturazione da applaudire. Mai un momento fiacco o di routine in un lavoro compatto e allo stesso tempo policromo da centellinare con pazienza, così che la segnalazione di questo o quel brano è legata all’umore del momento. Oggi – domani chissà – scelgo le Throwing Muses alle prese con la ballata country in Change e una dolceamara Certainty, la robusta circolarità di Little Things e il moderno madrigale Heavy Bend, il nightmare pop di Blurred View e l’agreste Red Moon, la leggiadra No Reason e l’acusticheria Promise Is A Pendulum. Ora tocca a voi: spegnete tv, computer, telefono e fatevi accarezzare l’anima quanto più spesso potete. Ne vale davvero la pena.

Elvis Costello – The Boy Named If (EMI)

Elvis Costello è un Genio dall’inarrestabile logorrea e di questo suo piccolo difetto è al corrente, se in tempi ormai lontani – si era alla metà degli anni Ottanta – ammetteva pubblicamente di aver scritto troppe canzoni. Considerate che da allora Declan Patrick Aloysius Macmanus non se n’è stato con le mani in mano (anzi…) e traete le vostre conclusioni. In attesa che consegni un equivalente di Time Out Of Mind, quattro anni or sono mancava di pochissimo il bersaglio con il pop insieme solido e ricercato di Look Now. Stilisticamente più vario benché inferiore sotto il profilo compositivo, The Boy Named If si assesta comunque una tacca sopra quel Hey Clockface uscito nell’esatto mezzo, inscenando un sofisticato gioco di riferimenti a momenti specifici della carriera costelliana e della storia del rock.

Giusto per gettare sul piatto qualche nome, ecco gli Who e il Sir Douglas Quintet stabilire le coordinate per This Year’s Model, un Tom Waits ammorbidito presiedere alla policroma eccentricità di Spike, certi echi di soul dagli occhi blu rimandare a Punch The Clock, il pop barocco però minimale ricordarci che Imperial Bedroom è un capolavoro senza età. Tolte alcune lungaggini e l’inevitabile pizzico di mestiere, dalla girandola di (auto)citazioni emergono la malinconia della pianistica Paint The Red Rose Blue e del commiato Mr. Crescent, una title-track articolata e vigorosa, la marcetta tra New Orleans e la Londra del 1967 The Man You Love To Hate, l’orecchiabile tambureggiamento The Death Of Magic Thinking, una Penelope Halfpenny argutamente, sfacciatamente à la McCartney. Nonostante l’iperproduzione e gli esercizi di stile, il Signor McManus è uno che le canzoni sa scriverle eccome. Cosa buona e giusta tenerlo a mente.

Jake Xerxes Fussell – Good And Green Again (Paradise Of Bachelors)

Sempre un momento importante quello in cui decidi di camminare con le tue gambe. Un frangente dove trovi chi agisce d’istinto, chi soppesa e chi sente che è ora. Esempio recente Jake Xerxes Fussell: tre gli album prima di concedere una parca manciata di brani autografi, perché come accade nella pittura giapponese anche qui si diventa artisti dopo un processo di imitazione. In realtà, si tratta di una rispettosa e approfondita indagine di modelli, che vengono studiati con passione onde afferrarne i segreti e l’essenza. Per questo il chitarrista – e da oggi anche songwriter – del North Carolina ha affrontato le radici sul campo andando dritto alla fonte. Da bravo figlio di musicologi, ha seguito le orme dei genitori ma anche dell’enciclopedia vivente Ry Cooder, perché nella musica popolare non vi è inchiostro che non derivi dalla mescolanza di altri che lo hanno preceduto.

Di conseguenza, in Good And Green Again l’antiquariato sonoro finisce allorché si soffia via la polvere da manufatti preziosi per raccontare l’attualità: il passato non serve da semplice paravento, ma viene intrecciato con abilità stando alla giusta distanza cronologica. Parlano chiaro una splendida The Golden Willow Tree che si riallaccia alla tradizione albionica, la pacatezza vocale con qualcosa di Jim O’Rourke nel tono che canta storie e dipana emozioni, le atmosfere in prevalenza avvolgenti, gli intrecci elettroacustici, le misurate decorazioni degli arrangiamenti. Tutto classico però mai scontato o banale in una scaletta scintillante, che si impone alla distanza vantando altri apici nel delicato traditional Carriebelle e nel favoloso commiato Washington. Musica perfetta per attraversare l’inverno e, magari, spingersi già verso le classifiche di fine anno. Grazie, brother Jake.

L’acida tristezza dei Thin White Rope

Alcune di queste canzoni hanno dei magneti seppelliti dentro”. Le note interne del quarto LP dei Thin White Rope offrono un’autodefinizione – bizzarra, una delle tante possibili – del loro stile così unico. Stralunato ed epico, fisico però etereo come può esserlo un deserto reale e/o metaforico. Pur conoscendoli a memoria, riascolto spesso i loro dischi e ogni volta rimango ipnotizzato da policromie acid-rock e brume new wave, presidiate da un Johnny Cash in uggia perenne però non privo di umorismo. So di essere in buonissima compagnia nella convinzione che le canzoni dei Thin White Rope sono materiche come poche altre nella storia del rock.

Vivono dentro un turbine di brividi, esaltazione, visionarietà. Il tempo, galantuomo, non le ha minimamente intaccate e in questo senso sono faccenda assolutamente “di oggi” le recenti ristampe Frontier di quei cinque magici album. Con un pizzico di benevola invidia per chi vi si accosta da vergine, festeggio dedicando qualche riga a uno dei miei gruppi “della vita”. Un’ennesima volta, siccome al cuore non si comanda. Gli si dà ascolto e basta.

TWR

I luoghi in cui cresciamo… C’è chi li descrive a distanza, chi li tramuta in microcosmi narrativi, chi se ne fa ossessionare. Guy Kyser ha saputo riversarli in un’estetica che fonde la concretezza di Madre Terra con un istinto che la trascende. Una dinamica di opposti complementari che rappresenta il nocciolo stesso sia dei Thin White Rope che di quell’apparente desolazione capace di svelare ciò che siamo. Kyser, guarda caso, è venuto su a Ridgecrest, un’oasi tra Mojave e Death Valley lasciata nei primi ‘80 per studiare geologia a Davis.

Nella fervida scena della cittadina californiana, la “sottile corda bianca” – riferimento all’eiaculazione che dobbiamo a William Burroughs – si sbroglia quando i Lazy Boys in cui il ragazzo canta e suona la chitarra incassano il ritiro di Scott Miller, più propenso a scolpire diamanti pop nei Game Theory. La rifondazione vede aggiungersi a Guy e al batterista Joe Becker la sei corde di Roger Kunkel e il bassista Kevin Staydohar, che nell’83 porta via Joe nei fantastici True West.

Axis

Decisivo il demo della primavera 1984 che persuade la Frontier a pubblicare Exploring The Axis nel mezzo del decennio. Grazie alla lunga gavetta, l’incantesimo – intrecci di ritmica minimale però arguta, spirali chitarristiche in serrato dialogo, voce rauca e virile che detta cambi d’umore – si racconta perfetto. Una psichedelia aromatizzata roots consegna i Quicksilver Messenger Service nelle braccia dei Television attraverso gli strappi di Soundtrack e l’incalzante Down In The Desert, l’onirica Disney Girl e le psicosi della title-track, le The Real West e Dead Grammas On A Train che riscrivono il country con le nevrosi del dopo punk.

In visibilio, la stampa parla di post-psichedelia: a inizio ‘87 Moonhead ribadisce il concetto comprimendo rabbia, cupezza, echi kraut e anticipi di stoner. I classici istantanei a questo giro sono il sublime folk lunare Thing, una contorta Take It Home, la slanciata Wire Animals, l’accecante Not Your Fault. Almeno. Sostituito Tesluk con John Von Feldt, la routine tour/disco/tour conduce al 1988 del difficile terzo album. In The Spanish Cave supera l’ostacolo con il terso struggimento July, una frenetica Elsie Crashed The Party, la Timing che spedisce Beefheart in un illividito Marquee Moon. Al narcotico blues Astronomy replicano il devastante frontale tra Hawkwind e Mad River (con citazione finale di Link Wray…) di It’s O.K. e una Red Sun che seppellisce i Love e Morricone sotto colate di lava.

Thin White Rope

Gli Ottanta agli sgoccioli, si chiude una fase del “nuovo rock” americano: cresciuto l’interesse delle major verso questo non genere, i grandi nomi compiono il salto. Nel 1990 l’adulto splendore di Sack Full Of Silver esce su licenza per la BMG porgendo moderno folk-rock (On The Floe), chiaroscuri mesmerici (Whirling Dervish: cenni di medio oriente e prateria strapazzata; Triangle Song: un crescendo che leva il fiato; gli MC5 rabbuiati di Diesel Man) e le seduzioni figlie di She Brings The Rain del brano omonimo. A proposito di Can: il nuovo arrivato Matthew Abourezk stratifica magistralmente le trame percussive e più che altrove in un’immane rilettura di Yoo Doo Right.

silver

Alla fine di una sfibrante tournee, The Ruby Sea riporta i quattro nell’alveo indipendente. Nell’aria la rassegnazione è palpabile e più delle allucinazioni hardeliche – comunque magnifiche quella che dona il titolo all’album e Midwest Flower – spetta a episodi riflessivi del calibro di Puppet Dog, Bartender’s RagChristmas Skies e della dolcissima Up To Midnight (saldata ai sibili di Hunter’s Moon: ancora opposti che si bilanciano come nella natura umana) incarnare lo spirito di un’opera pregevole rimasta però schiacciata dai pesi massimi dell’autunno 1991.

La separazione sarà in seguito sancita dal doppio live The One That Got Away, ovviamente imperdibile e lo stesso valga per gli EP (impreziositi da illuminanti cover) sistemati a inframezzare i 33 giri e per la raccolta di ritagli Spoor. Da allora le mosse di Roger e Guy in ambito musicale sono state defilate e poco significative, ma non importa. I Thin White Rope sono una voce più presente che mai. Una voce di Bellezza inquieta, romantica e malinconica indenne alle offese di Crono. Una Bellezza che ci rapì per sempre, laggiù nel deserto.

 

 

Ty Segall diventa (un) grande

L’ultima cosa che mi interessa al mondo è insegnare agli altri come vivere. Nondimeno, se scrivi di una forma d’arte devi prendere delle posizioni e, uh, giudicare, ma proprio perché questo verbo sa essere mostruoso e sgradevole, cerco di esercitare più cautela possibile. Venendo al punto: fino a ieri trovavo Ty Segall bravo e poco disposto a lasciarsi incasellare, tuttavia frenato da una iperproduttività un poco dispersiva che pareva modus vivendi e quindi affar suo. Sorpresa, il fresco di pubblicazione Freedom’s Goblin lo mostra svincolato dal summenzionato handicap scatenando applausi a scena aperta.

Perché sotto l’impero di internet, quando la disponibilità del passato sonoro a prescindere dal contesto storico/sociale che lo generò si risolve spesso in una sequela di formalismi, arriva un giovane a metterci il cuore oltre all’ironia, a cavare dalla mescolanza dei linguaggi un’identità con la quale vestire canzoni geniali e belle. Dimostrando così che, rimossane la storia, gli stili possono essere puri invece che vuoti. Una gran bella differenza, no?

freedom's goblin

Di conseguenza non è un paradosso se il californiano giunge in vetta a cavallo di un mastodonte di un’ora e un quarto. Trent’anni e un decennio di frenetica attività alle spalle, l’unica maniera che ha di riassumere il suo multiforme talento è forgiare un arguto post classicismo psych-rock. La forza del quale sta – oltre che in una scrittura di altissimo livello – nello scuotere il passato con brillanti riscritture creative e la consapevolezza che si progredisce incrociando il già esistente. Da sempre, e a maggior ragione oggi che si ibrida di tutto e di più. Per questi motivi, nell’epoca pre-CD Freedom’s Goblin sarebbe stato un doppio come Tago Mago o Trout Mask Replica: per la durata, ma soprattutto per il dispiego di idee e per il suo porsi da summa estetica.

Messi da parte impossibili e insensati paragoni con gli altri Capolavori su quattro facciate qui citati (comunque un buonissimo segno), quel “2018” stampato sulla copertina dona ulteriore smalto alla maturità di Segall. Lampante al proposito la scelta di sistemare a fondo corsa la And, Goodnight che estende un vecchio brano in un’eccellente epica alla Crazy Horse. Idem per quanto riguarda l’uso mai scontato dei fiati, l’affiatata squadra di sodali, il confermato Steve Albini al mixer. Indicazioni preziose di un esito che è frutto dell’equilibrio tra istinto e ragione tipico dei grandi dischi.

glam Ty

Basta infatti il poker d’apertura a spiegare l’aria che tira: Fanny Dog vede Robyn Hitchcock aggirarsi tra i solchi di Exile On Main Street scortato dai Primal Scream, in Rain i Beatles ospitano Skip Spence e un’orchestrina mariachi arrangiata da Sun Ra inventando i Radiohead, la cover di Every 1’s A Winner rifila sculettando un giro di pista ai Black Keys e per Despoiler Of Cadaver Beck resuscita Prince in abiti electro. Ah, però. Altri passi d’autore nel lucido delirio i graffi da Contortions al top di Talkin 3, l’acidula You Say All The Nice Things, un Marc Bolan fissa conclamata di Ty che funge da spina dorsale della delizia I’m Free e si trasforma in Alex Chilton lungo la struggente My Lady’s On Fire.

Si vola in cento direzioni però tutto si tiene, eccome se si tiene. Al sarcasmo hardelico di She risponde l’elaborata sarabanda glitterata 5 Ft. Tall, per una The Main Pretender traboccante torbida sensualità c’è lo scontro frontale tra Supergrass e Devo di When Mommy Kills You, il babà misto Lennon e Harrison Cry Cry Cry siede comodo accanto alla centrifuga grunge del White Album di Alta. Zibaldone visionario e policromo, Freedom’s Goblin possiede il portamento e l’attitudine che appartennero ai Royal Trux: disinvolto, se ne frega di giochi citazionisti ed esercizi di stile per emergere dalla propria epoca, fotografarla e allontanarsene. Tra fiori e rottami, gioielli e cascami, la certezza di trovarsi al cospetto di un’opera destinata a rimanere cresce un ascolto dopo l’altro. Evviva.

Six Finger Satellite: neu wave über alles!

Senza cuore e artisti laddove i loro compatrioti sono accorati e senz’arte, i Six Finger Satellite sono il miglior gruppo Sub Pop da chi-sapete-voi.” (“Melody Maker”)

Ci aveva quasi preso, il “Melody Maker”. Benché fosse gonfio di sarcasmo, i ragazzi di Providence (Rhode Island) un cuore l’avevano. Pare che gli innamorati possano rivelarsi critici spietati dell’oggetto dei loro sentimenti: ebbene, i Six Finger Satellite amavano l’America da figli degeneri che ne mostravano il lato sgradevole recuperando un passato sonoro ancora oscuro. Se infatti “post-punk elettronico” e “Germania anni ‘70” sono oggi argomenti da aperitivo per hipster fancazzisti, nel 1992 restavano roba da carbonari.

Al contrario di svariati epigoni, però, il Satellite ancora orbita ai margini della storiografia perché il gusto – anche quello che ama definirsi “ricercato” – rifiuta la cattiveria reale. Parlo della cattiveria necessaria a dipingere il vuoto circostante come accade in certi episodi di “Black Mirror” o della cattiveria umanista di Devo, Chrome, Pere Ubu. Penso a loro concittadini come lo scrittore H.P. Lovecraft e gli eversori sonici Arab On Radar. Un digestivo mi aiuta a ragionare su cosa colà vi sia nell’acquedotto. Nulla: è la provincia. La prospettiva (di)storta e consapevole che dietro un’apparente normalità qualcosa stride e strilla. Sempre.

6fs stilosi

Una band siffatta poteva nascere solo al crepuscolo di un’era e cioè nel 1990, allorché il fortino indie statunitense inizia a vacillare e i Pussy Galore demoliscono i resti dell’innocenza rock. Mentre il revival dei Sessanta cede il posto allo zolfo anni ‘70, Jeremiah “J.” Ryan (voce/tastiere), Chris Dixon (basso), Rick Pelletier (batteria), John MacLean e Peter Phillips (chitarre) vanno oltre con il fervore di chi è cresciuto con l’hardcore punk. Un demo inviato alla Sub Pop esce nel ’92 sull’EP Weapon, cui replica un doppio 7” con i Green Magnet School.

Un anno dopo quelle promesse allettanti, in The Pigeon Is The Most Popular Bird Kurt Niemand rimpiazza Dixon e Bob Weston rifinisce strumentali tra abbozzo e sintesi kraut e space, mentre i brani più compiuti rileggono la new wave e i relativi antesignani con sagace distacco critico. Laughing Larry schizza urticando da Metal Box, Save The Last Dance For Larry concentra l’esasperazione di Entertainment! e Love (Via Satellite) pare un inedito dei Mission Of Burma. Omaggiati altrove Birthday Party e Jesus Lizard, in faccia ti si stampano anche il boogie blues destrutturato Hi-Lo Jerk e la demenza in jazz di Takes One To Know One. Sotto al rumore, ritmi ed elettronica suonano post. Di già.

Severe Exposure

Argomentazioni ribadite tramite il 10” Machine Cuisine e un semiomonimo nastro, dopo di che Phillips esce di scena e un’overdose stronca Niemand. Arrivato James Apt, la metà dei Novanta accoglie Severe Exposure, favoloso calcio che sfonda la porta per Trans Am, Liars e Rapture con un tossico ma inebriante cocktail di Nuova Onda strapazzata a dovere, dall’isteria danzereccia di Cockfight agli echi industriali di Simian Fever, dalle adrenaliniche Bad Comrade e Dark Companion agli sfregi Rabies e Where Humans Go e alla battente Parlour Games. Bellezza che un po’ offusca il valido successore Paranormalized, certo non nella tagliente Greatest Hit, in una Coke And Mirrors da John Lydon rimbambito dalle strobo, nella ronzante Paralyzed By Normal Life e nella follia metodologica di Slave Traitor.

Per evitare eventuali cadute nel cliché, la ghenga accoglie un tipo promettente di nome James Murphy. Lui il soundman sul palco e il produttore di Law Of Ruins, che diciannove anni or sono rinfrescava lo stile con saggi elettro-dub, inchini agli Ash Ra Tempel, ipotesi di Sonic Youth al silicio e nuovi miracoli hard rock. La favolosa e ispirata botta di vita chiude un ciclo: MacLean si accomoda alla murphiana DFA e sopraggiungono problemi con la Sub Pop. Nel ‘99 Ryan e Pelletier serrano le fila: senza registrare per un biennio, passano alla Load per il piatto noise-punk di Half Control; in una separazione più lunga, Pelletier si dava al dub coi La Machine e suonava la batteria nei Chinese Stars e Ryan lo trovavi in Colorado negli Athletic Automaton. Nel 2009, il dignitoso A Good Year For Hardness sanciva la conclusione della vicenda. Cuore e anima non si erano bruciati e da allora regna la quiete. Severa ma giusta.

Nap Eyes: uccidi l’indie snob

Avete presente il detto secondo il quale hai ragione quando fai incazzare tutti? Per lo più è vero. Allo stesso modo, se chiunque dice bene di una band, un sospetto mi serpeggia in mente. La bestia indie-snob che tanto ho sudato per scacciare torna a farmi visita portando diffidenza e spallucce. Spesso ha ragione, lo ammetto. A volte, invece, il guitar sound delle nuove generazioni dimostra magia, attributi e idee. Ritrovo l’approccio fintamente rozzo e realmente sozzo, ma soprattutto canzoni notturne e fascinose che seducono con contaminata purezza. Irresistibili per indolenza nevrotica eppure sognante e un romanticismo un po’ cinico e un po’ passionale che appartiene ai dischi che non prendono mai polvere, a quelli che sulla costina hanno scritto Feelies, Yo La Tengo, TV Personalities, Swell Maps, Modern Lovers, Pavement…

Allora perché non nominare il Gruppo dei Gruppi e farla finita? Perché sappiamo che il gioco delle somiglianze sa essere crudele e ingiusto come pochi altri. Ma sappiamo anche che un elenco di “figli” eccellenti dei Velvet Underground richiederebbe pagine su pagine. Di fatto, il loro filo scuro è indenne al tempo e conduce regolarmente al rock che per davvero conta. Guarda caso, quel filo sbuca fuori subito a proposito dei canadesi Nap Eyes, che nel primo scorcio di 2016 hanno pubblicato Thought Rock Fish Scale, secondo album capace di incassare gli elogi di “Stereogum” e “Pitchfork” come di “Mojo” e “Uncut”. Dicevi, scusa? Calma: di entusiasmarsi v’è donde. E se il solito hipster tira fuori segaiole descrizioni per darsi un tono, fregatevene: versategli il cocktail sulla barba e fiondatevi senza esitare su una musica tra le più eccitanti in circolazione.

Nap-Eyes[1]

Roba che smuove cuore e cervello mentre mi leva la sedia da sotto il culo. Sul pavimento, ragiono su come ancora possano dire qualcosa un pugno di accordi minimali e ipnotici, il canto che chiacchiera tra scazzo e autoanalisi, le tessiture di luci e ombre. Dopo l’ennesimo ascolto, ci arrivo: il segreto è accettare che da sempre il pop migliore sia, in mani abili, un riciclo creativo. I Nap Eyes poggiano dunque la loro estetica su un immaginario fidato, tuttavia lo innervano di spiccata personalità e di significati attuali: la decadenza di Venus In Furs e Candy Says è sostituita da profonde riflessioni su disillusione e incomunicabilità, laddove il linguaggio sonoro comprime il percorso velvetiano in un calderone possibile solo col senno del poi.

Feedback rugginoso e stoffa compositiva sono presi dalla “Banana” per temprare gli accenni di bassa fedeltà alla White Light/White Heat; lo sfondo folk metropolitano profuma del terzo LP di Lou e soci e tra le pieghe scorgi l’essenziale fisicità di VU. Cotanto genio ha alle spalle una storia semplice che parte da Halifax, Nuova Scozia, dove quattrocentomila anime affrontano il freddo dell’Atlantico. Nigel Chapman – che nei Nap Eyes scrive testi belli e arguti, canta e imbraccia la chitarra ritmica – nel 2011 si stanca di suonare folk in solitudine e raduna pochi amici (Josh Salter al basso, il batterista Seamus Dalton, la sei corde abile e misurata di Brad Loughead) coi quali dare altra forma alle sue visioni. Nel 2014 un LP di debutto vede la luce su un minuscolo marchio di Montreal, però nessuno si accorge di quelle duecento copie e Chapman bussa alla You’ve Changed, altra etichetta locale dai mezzi un tot più ampi.

Con l’appoggio della benemerita americana Paradise Of Bachelors, si riedita tutto organizzando un tour continentale. Da lì è bastato poco affinché Whine Of The Mystic lasciasse di stucco e spingesse a pensare che i quattro potessero fare persino meglio. Così è stato. Incisa in diretta nella casa al mare dei Chapman, la mezz’ora abbondante di Thought Rock Fish Scale tratteggia un lucido, melanconico stupore avvolto in melodie che non abbandonano più. Oltre la compattezza e la solidità, convincono l’ulteriore maturità della penna, un’esecuzione ruvida però mai abborracciata, certi echi della Flying Nun (toh: la madre di Nigel è neozelandese…).

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Composizioni una più bella dell’altra racchiudono un mondo poetico e con pacatezza riflettono su quanto c’è al di fuori finché, con cadenza d’altri tempi, divengono qualcosa di necessario. Mixer è un Lou Reed così giovane e soul da suscitare commossi brividi e Dont’ Be Right sparge vividi aromi di Young Marble Giants; per una Stargazer che riveste Some Kinda Love con toni country-folk ecco la mutevole e umorale Click Clack; ai chiaroscuri urbani di Alaskan Shake e Lion In Chains risponde una Roll It di contagiosa isteria che fa carta straccia degli Strokes. Affettuosamente ritroso, Chapman affida le ultime parole del disco all’adorabile, sbilenca innodia di Trust: “Voglio che vi fidiate di me.” Invito raccolto, ragazzo. Scommetto che non ci tradirai.