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Phantom Band: Sono Pazzi Questi Scozzesi!

Da quando la produzione discografica ha assunto cadenze folli, è impresa davvero impossibile affrontare con serenità un ammasso sempre più annichilente di pubblicazioni. Ciò premesso, ogni tanto ti imbatti in nomi che un tempo avresti definito di culto come gli scozzesi Phantom Band, purtroppo spariti dalla circolazione che sono ormai sei anni. Se di scioglimento si tratta, consola che abbiano chiuso bottega all’apice della forma e del percorso artistico immacolato che intrapresero a Glasgow nei primi anni zero. Amici di lunga data, Duncan Marquiss e Greg Sinclair (chitarra), Gerry Hart (basso), Damien Tonner (batteria), Andy Wake (tastiere) e il cantante Rick Anthony si lanciano in jam informali per passare il tempo dopo un giro al pub. Mano a mano, iniziano a trascorrere sempre più tempo in sala, “trenta-e-qualcosa” con dalla loro il cinico disincanto dell’età in cui puoi ancora giocarti qualche chance ma la vita l’hai masticata. Di conseguenza, ragioni prima di aprire bocca o di scrivere canzoni.

Questo spiega in parte l’arguzia con la quale ricompongono modelli esistenti in fogge personali senza prendersi troppo sul serio. Cambiano nome di continuo (NRA, Los Crayzee Boyz, Tower of Girls, gli esilaranti Robert Redford e Robert Louis Stevenson) e si lasciano dietro un nastro, un CD-R e un’etichetta creata a bella posta battezzata “estrema nudità”. Doppiata la metà del decennio, optano per una definitiva ragione sociale sottolineando la natura enigmatica che fa bel paio con il tagliente nonsense e i concerti in maschera – che assecondano una ritualità pagana palese anche nelle trasfigurazioni folk e nell’approccio percussivo al ritmo – o in cui piazzano un’attrezzatura da body building sul palco invitando il pubblico a usarla. Sento sussurrare “Monty Phython” e “Bonzo Dog Band”, vedo sorrisi d’intesa. Bene. Sarebbe comunque mero colore se non ci fosse uno stile sostanzioso spremuto dalle collezioni di dischi e dalle epifanie della quotidianità, un assaggio del quale plana su un singolo per Trial & Error che nel 2007 persuade la Chemikal Underground a scritturare il gruppo.

A inizio 2009, l’esordio Checkmate Savage testimonia un ampio ventaglio di intuizioni a fuoco tra kraut-wave (The Howling) e James muscolari (Folk Song Oblivion), ipnosi folk-rock declinate post (Crocodile) e country-gospel modernizzato (Island), Beach Boys teutonici (Throwing Bones) e mutant-funk con venature surf e tribali (Burial Sounds). Facile prospettare un gioiello dietro l’angolo, e infatti nell’autunno 2010 The Wants recapita un capolavoro di avvincente complessità e canzoni che respirano. Ci trovate folk dalle movenze “motorik” (The None Of One), melodie struggenti che partono crepuscolari e arrivano limpide (Come Away In The Dark), post-punk in viaggio tra varchi spaziotemporali (Into The Corn, Everybody Knows It’s True), coltellate al revival new wave (Mr. Natural, Walls) e alla pavidità dell’indie più formulaico (A Glamour, O, Goodnight Arrow). Una voce dal timbro scuro, arrangiamenti policromi e strutture ardite confluiscono in un avant-pop ricco di passione. Una rarità, allora come ora.

Con Iain Stewart al posto di Tonner si suona in America ed Europa, prolungando l’attesa per il “difficile terzo album” fino al luglio 2014. Strange Friend supera la prova traslocando gli LCD Soundsystem oltremanica (The Wind That Cried The World) e i Love in Irlanda (Atacama), alternando garage-wave poppizzato (Clapshot) a ipotesi hard della Beta Band (Sweatbox) e ibridi tra Human League e Smashing Pumpinks (Doom Patrol).Tanto è il materiale accumulato nelle session che pochi mesi più tardi Fears Trending (spiritoso anagramma di Strange Friends…) svuota i cassetti, offrendo una Spectrelegs che manda al tappeto i Black Mountain, gli Harmonia incupiti di Tender Castle, una Local Zero da XTC sardonici, lo Scott Walker indeciso tra elettronica lo-fi e Morricone di Denise Hopper e Olden Golden. Ti aspetti un futuro di meraviglie e invece nisba. Durante l’ennesimo tour, in Francia la Phantom Band è derubata della strumentazione, le rimanenti date vengono cancellate e da allora i simpatici pazzoidi non hanno più suonato insieme. Tuttavia non dispero, ché alcuni membri sono ancora attivi in altri progetti e nel loro caso una rimpatriata porterebbe di certo cose buone. Ehi, ragazzacci, che ne dite di riprovarci?

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Salute, efficienza, genio: This Heat

Nei giorni in cui scrivo queste righe i britannici Black Country, New Road sono il nome del momento. Portabandiera del “post-rock 2.0”, posseggono il minimo sindacale di umanità sufficiente a scansare l’approccio tutto tecnica e zero emozione di troppi colleghi e pertanto paiono promettenti. Tra i riferimenti centrifugati dai ragazzi saltano all’orecchio i This Heat, dimostrando quanto fu forte a suo tempo il legame tra rock progressista e new wave e come quella “alleanza” si sia riverberata su chi ha raccolto il testimone. Un robusto filo rosso lega infatti Van Der Graaf Generator, King Crimson, P.I.L., Pere Ubu, Slint e June Of ’44 ai Black Country, New Road: nel mezzo, la cerniera post tra punk e rock dei This Heat è un “a sé” di sconcertante contemporaneità con un cuore umano nascosto sotto la potenza dello stile e delle idee.

Un equilibrio raro tra avanguardia e umanesimo, il loro, cui va aggiunto uno spruzzo di caustica ironia per tracciare un parallelo con i Faust: che il collettivo di Wümme fosse un modello dichiarato per i This Heat è la logica chiusura del cerchio e la conferma del carattere duraturo e autorigenerante delle migliori musiche di ricerca. Lo sapeva bene John Peel quando sottolineava l’unicità di una band che, formatosi nella scena di Canterbury, non cedette all’onanismo ma preferì indagare grigi panorami urbani e annunciare apocalissi a venire tenendosi stretti il look falsamente casual, la coerenza, il gusto per la provocazione. Come per gli Henry Cow, chiamatelo avant rock in opposizione.

Attivi dagli albori del decennio con il progetto impro Dolphin Logic, i due Charles (Bullen: fiati, chitarra, viola) e Hayward (batterista proveniente dai Quiet Sun di Phil Manzanera) incontrano nel ’75 il “non musicista” Gareth Williams, lo sistemano a basso e tastiere e sperimentano nel disastrato sud di Londra ricavando uno studio da una cella frigorifera. Tra le mura del Cold Storage – afferrata l’ironia, vero? – sfogano la creatività e, pensando ai Can e all’Inner Space, smantellano le convenzioni tra stratificate tessiture, oggetti trovati e un approccio che tratta luogo e atto della registrazione come strumenti. Dopo una parentesi a nome Friendly Rifles e il cambio di ragione sociale suggerito dalla torrida estate 1976, Peel ascolta un demo casalingo e nel marzo Settantasette convoca gli sconosciuti senza contratto a registrare una session che in piena apoteosi punk offre sonorità fantasticamente innovative.

Esemplare il capolavoro Horizontal Hold, che anticipa la meglio gioventù di Louisville tra slarghi krauti, matematica frippiana e funk industriale. Otto minuti e mezzo che, previa una leggera sforbiciata, avranno l’onore di aprire il primo LP e qui garantiscono di già gli annali a chi rincara la dose con l’ambient malata di Not Waving e una The Fall Of Saigon cupa e trafitta da clangori tipicamente June Of ’44; sei mesi e un altro mazzetto di brani si cimenta con ispido pseudo jazz industriale, scontri frontali Shellac/Liars, anticamere di Immagine Pubblica, parafrasi audio del test di Rorschach. La faccenda è così avanti che servono due anni per un album, inciso con calma e pubblicato dalla neonata Piano di Chris Cunningham. Noto anche come “blue and yellow” per la minimale confezione, This Heat dispiega le 24 Track Loop e Testcard che prefigurano la techno più astratta e l’isolazionismo, una rediviva Not Waving colma di malinconia wyattiana, l’omaggio a Tago Mago di Water e una Twilight Furniture che viaggia verso la rarefazione; altrove, l’orrorosa Diet Of Worms risponde all’esplicativa Music Like Escaping Gas e una The Fall Of Saigon viepiù livida riordina il caos di Rainforest. Ascolti e non ci credi che abbiano più di quattro decenni sul groppone.

Mentre il management prova a trasformare il trio in una sorta di Pink Floyd per le nuove generazioni, nel 1980 il 12” Health And Efficiency conduce a estreme conseguenze la manipolazione di nastri con una Graphic/Varispeed suonabile a 16, 45 e 33 giri, ma recapita anche una formidabile title-track che preconizza i Battles sposando krautrock, rumorismo e melodia. Su tali basi un anno dopo Deceit segna il passaggio a Rough Trade innestando sapori etnici sul tronco di brani obliqui eppure solidi che reinterpretano i Talking Heads e indicano la via ai Savage Republic. Di un album che guarda al debutto nel jazz mitteleuropeo Triumph e nella serrata Paper Hats persuadono inoltre le moderate progressioni cantabili (apice l’immane A New Kind of Water) e una fermezza che fonde slancio, raffinatezza, trasversalità. Nonostante rimanga molto da esplorare, dopo una breve e poco convincente esperienza senza Williams nel 1982 ci si separa e partono le rispettive carriere soliste.

Dei This Heat si torna a parlare sottovoce nei medi Novanta, quando la These, etichetta legata al gruppo, immette sul mercato Repeat, che a Graphic Varispeed i rabbrividenti bordoni da rituale Gamelan di Metal. Altri tre anni e il fondamentale Made Available recupera le incisioni per la BBC accompagnando la definitiva consacrazione del post-rock con l’effetto collaterale della (ri)scoperta della band e un riaffacciarsi sulle scene interrotto dalla morte di Gareth nel dicembre di vent’anni fa. A tirare le somme nel 2006 Out Of Cold Storage, imperdibile box con l’integrale discografico e inediti, poiché non si va oltre quel trio. Da un lustro infatti Bullen e Hayward si esibiscono dal vivo con la sigla This Is Not This Heat, ospitando spiriti affini come Thurston Moore e Alexis Taylor. Non riesco a immaginare un modo migliore di restare fedeli a se stessi e onorare la memoria dell’amico scomparso. Avanguardia e umanesimo, fino alla fine.

L’umanesimo post-indietronico dei Notwist

Strana la vita e a volte anche i percorsi della popular music. Prendete i fratelli bavaresi Markus e Micha Acher, in arte Notwist. Ascolti il loro debutto omonimo del 1991 e ti travolge una tempesta post-hardcore punk; undici anni dopo, all’alba del nuovo secolo il capolavoro Neon Golden dispensa pastoralità mitteleuropea in sfoglie indie-pop impastate con l’elettronica e aromatizzate post-rock. Benissimo così: senza rinnegare le radici, si cresce e si cambia. Dicevo di una provenienza tedesca, con tutto quel che ne consegue in termini di retaggio. Ecco: nei Notwist il krautrock è un ingrediente che salta all’orecchio ma non più di altri, quasi un passaggio obbligato di cui bisogna tenere conto se ci si misura con certe sonorità. Da quella materia tuttora così attuale quando non avveniristica si può pescare all’infinito, e il nocciolo della questione sta nel cogliere soprattutto il messaggio.

Problema che non si pone con gli Acher e una carriera gestita all’insegna dell’iperattività, che oltre a una lunghissima concatenazione di impegni, progetti paralleli e collaborazioni li vede coinvolti in faccende altrettanto interessanti chiamate Village Of Savoonga, Tied & Tickled Trio, Lali Puna. Incredibile a dirsi, in tanto stakanovismo mai un passo mediocre da parte di chi iniziò sfogando la rabbia giovanile per sviluppare gradualmente la personale mescolanza perfezionata con Neon Golden. Nel 2008 The Devil, You + Me replicava da angolazioni più ombrose persuadendo giusto un filo meno del solito, mentre a rialzare l’asticella provvedeva entro sei anni Close To The Glass e dallo scorso gennaio Vertigo Days decreta la splendida mezza età della formazione.

Foto di Johannes Maria Haslinger

Micha e Markus non amano stare seduti sugli allori: con il nuovo arrivato Chico Beck, preferiscono convocare qualche collega (la jazzista Angel Bat Dawid, Juana Molina, l’ensemble fiatistico giapponese Zayaendo, Saya Ueno dei Tenniscoats) per lavorare su un canone del quale sono artefici, ma che tuttora considerano come una dimensione aperta. Dicotomia solo apparente e risolta in un disco dove latita il fastidioso approccio da “tutorial riccardone(rd)” delle nuove generazioni post e in sua vece trovi intuizioni brillanti, idee a fuoco, composizioni sviluppate da canovacci improvvisativi che si snodano lungo cambi d’umore e scenario.

Inframezzato da una manciata di funzionali interludi, c’è parecchio che valga la pena indagare tra i Gastr Del Sol alle prese con Cluster & Eno dell’iniziale Into Love/Stars e quelli viepiù bucolici del commiato Into Love Again: ad esempio, l’oscuro elettro-motorik Exit Strategy To Myself e una Where You Find Me irresistibilmente emotiva da Pavement , la malinconica e arguta orecchiabilità di Sans Soleil e il nervoso pop à la Stereolab di Al Sur. Se Ship trotta spedita dai panorami di Ege Bamyasi, Night’s Too Dark e Loose Ends potrebbero suscitare la benevola invidia del Damon Albarn solista; Into The Ice Age conduce un favoloso funk mutante in panorami jazz dapprima liquidi e infine tesi e l’elegante Oh Sweet Fire avviluppa il trip-hop dentro echi dub. Mi rendo conto di aver citato il programma quasi per intero e il motivo vi sarà chiaro. Impossibile annoiarsi con i Notwist: come dicono dalle loro parti, herzlichen Dank!

Bentornati al medicine show

Benché zoppicante e rattoppata, la democrazia è il sistema di governo nel quale viviamo e conviene averne la massima cura, perché tra tante altre cose garantisce la libertà di pensiero ed espressione. Ognuno può più o meno pensarla come vuole su qualsiasi tema, dalla nazionale di calcio alle famigerate reunion. Tema spinoso e complesso, quest’ultimo, poiché se Wire e Feelies tuttora dispensano lezioni di ingegno, più spesso che no assistiamo a faccende patetiche per le quali risulta difficile spendere elogi o un minimo di benevolenza. Almeno così è per il sottoscritto, considerando che al mondo esiste pure chi si inebria di nostalgia canaglia e problemi non ha.

Fra i due estremi ci sono poi artisti che riannodano i fili che furono con il senno di quanto accaduto nel frattempo. Da questa delicata operazione può nascere un equilibrista che cammina disinvolto sul filo tra ieri e oggi. Tuttavia non sempre la si azzecca al primo tentativo. Nel caso dei Dream Syndicate “anni dieci”, il fresco di stampa The Universe Inside indica che How Did I Find Myself Here? These Times siano stati i passaggi intermedi per giungere a uno stile che non si arrendesse alla rievocazione. Gesto da applaudire anche solo per la serietà e il rispetto verso se stessi e il pubblico, non vi pare?

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Un gesto necessario, anche. Perché se in line-up c’è un chitarrista abile (Jason Victor) ma diverso dai predecessori, devi adattare il linguaggio sonoro. E allora accogli in pianta stabile il vecchio amico tastierista Chris Cacavas e, forte della comprovata solidità ritmica di Mark Walton e Dennis Duck, convochi un fiatista e un percussionista. Entri in studio, attacchi la spina e vedi cosa succede. Succede che infine (ti) trovi. Succede che sposti le chitarre un passo indietro, però conservi la ruvida meraviglia della neopsichedelia impastandone il lato più free con jazz cosmico e krautrock. Steve Wynn è pur sempre il curioso onnivoro che cantava del blues di John Coltrane ed ecco che, mutatis mutandisThe Universe Inside vive della febbrile creatività e della grandezza autoriale appartenute a The Medicine Show. 

Registrato in diretta e successivamente “montato” ispirandosi al lavoro di Teo Macero con Miles Davis, il disco svela subito la rivoluzione in The Regulator, venti minuti di sensazionale cavalcata motorik dentro una giungla urbana di chitarre, voci, sax e il sitar dell’ospite Stephen McCarthy. Grossomodo, un’ipotesi di Can che in California mescolano On The Corner e Velvet Underground, risacche e impennate, codeina e anfetamine. Non vale meno il resto, dall’ombrosa ballata The Longing al groove acido misto country siderale di Apropos Of Nothing passando per quella ipnosi vibrante che in Dusting Off The Rust guida un funk-jazz elettrizzato ed elettrizzante. Approdo conclusivo The Slowest Rendition, tesa astrazione con l’eco di For Your Pleasure nell’aria. C’è stato un tempo per giorni di vino e rose e un tempo per storie di fantasmi. Adesso abbiamo un universo interiore nel quale perderci. Roba da non credersi. Roba da medicine showmen.

Fiori sotto la casa dei Public Image Limited

La vita è strana. Beato chi ci vede un percorso coerente e uno straccio di senso. Come direbbe Julian Cope, è un caos elegante. Per questo a volte è meglio lanciare sassi dentro lo stagno e vedere che succede: contare i cerchi, oppure guardarli finché non diventano sempre più sottili fino a sparire dalla vista. John Lydon non ne poteva più del punk e del pupazzaro McLaren: secondo pel di carota, quella rivoluzione doveva far nascere cento nuove musiche e non cento copie dei Sex Pistols. Strappati i fili con cui Malcom, povero illuso, credeva di poterlo controllare, se ne andò ad allestire un suo progetto che mostra come John Non-più-marcio già avesse nella testa il post-rock.

Per forma, attitudine e spirito, siccome battezzò la nuova avventura Public Image Limited giocando con la percezione di noi che hanno gli altri e l’idea che un gruppo musicale potesse essere concepito e gestito come un’azienda. Prima di perdersi e poi ritrovarsi, infilerà il Capolavoro Metal Box tra altri due LP sensazionali che tuttora lasciano a bocca aperta, il terzo in ordine cronologico ancor più del primo.

Flowers Of Romance

Più che l’ingresso nei Top Twenty britannici seguito alla pubblicazione nella primavera 1981, di Flowers Of Romance stupiscono l’attualità e la forza con le quali risponde a un momento difficile. Perso un membro fondatore e un fondamento del suono con l’abbandono del bassista Jah Wobble, non senza un certo cinismo Lydon e il chitarrista Keith Levene serrano le fila e cambiano pelle un’altra volta con Martin Atkins, batterista presente solo in tre brani. Gettate un paio di settimane in tossici cazzeggi allo studio The Manor, assieme all’ingegnere del suono Nick Launay (poi convocato da Phil Collins grazie alla sapienza con la quale qui registra la batteria) si torna a Londra a sperimentare.

Tenendosi stretta la forma canzone tranne che nel conclusivo e sfocato delirio Francis Massacre, Flowers Of Romance sposta l’asse sulla ritmica. Resa irriconoscibile una chitarra comunque defilata e sistemato in un angolino il basso, tamburi e percussioni salgono al proscenio mescolandosi a echi mediorientali, sintetizzatori Prophet, orologi da polso amplificati, registrazioni televisive e molto altro. Da trame stratificate però minimali si libera una bestia che all’inizio non capisci cosa sia né cosa voglia. Qualcosa che – al massimo e vagamente – può ricordare una versione parecchio velenosa del Peter Gabriel di Intruder.

PIL

Poi quell’animale ti parla. Flowers Of Romance si conficca nel cervello con inesorabile calma, perché è allo stesso tempo subliminale e concreto. Qui piomba addosso come un mattone e là accarezza con rasoi di velluto, persuadendo che il genio autentico decolla dai propri limiti con pochi mezzi ma un’infinità di idee. Idee che dal krautrock e da Captain Beefheart si/ci spingono dritte nella contemporaneità di fan dichiarati come i Liars. E che scintillano nei martellamenti da muezzin in paranoia di Four Enclosed Walls e Under The House, nel groove sbilencamente efficace di Track 8, in una Phenagen ondeggiante tra teatro della crudeltà e trasfigurazioni etniche.

Laddove la title-track, nenia mista di gotico e gitano che vide la luce anche su singolo, è la faccenda con maggior parvenza di normalità e Hymie’s Him tratteggia una ambient brumosa parecchio inquieta(nte), Banging The Door gonfia i Can di sarcasmo e vetriolo e Go Back gira come una rugginosa, ipnotica giostra. Pionieristico, selvatico e visionario, Flowers Of Romance risulta perfetto nella sua (lievissima) imperfezione. Mi ricorda certi variopinti pesci tropicali che ti osservano dalla vasca, mentre per un attimo pensi che forse il vero prigioniero sei tu. Ma no, dai. Deve essere un’allucinazione. Oppure un’altra Immagine Pubblica.

I trip e i sogni di Witthüser & Westrupp

Lo sapevate? Nelle sue mille imprese, a un certo punto Renzo Arbore ha avuto a che fare persino con il krautrock. In maniera marginalissima, d’accordo, ma a bocca aperta ci si resta. I lettori più attempati ricorderanno il contenitore “L’altra domenica”, col quale Renzo rivoluzionò l’intrattenimento televisivo del pomeriggio festivo a botte di umorismo surreale. Era il ’77 e per un po’ mamma RAI fu spaghetti punk: sotto quel tendone passò di tutto, dal giovane Benigni in versione critico cinematografico demenziale al trio (trans) canterino Sorelle Bandiera, da una Isabella Rossellini inviata a New York ai busker Otto e Barnelli.

Immaginatevi il tonfo della mascella nell’apprendere, allorché cercavo del materiale per questo articolo, che Bernd Witthüser è quel Barnelli! Tutto quadra, in effetti: dal folk acido di Trips & Träume all’esibirsi per strada, il filo rosso è un’anima libera nel senso pieno del termine, mai doma e felice della propria indipendenza. Dai festival pop anni Settanta alle piazze sotto la luna, dal clamore catodico nostrano a un casolare della Maremma, fino alla fine dei suoi giorni Herr Witthüser ha sempre chiuso il cerchio con coerenza. Che bello, poi, scoprirlo gentile e squisitamente disponibile a rilasciare le dichiarazioni che state per leggere. Ed è così che voglio ricordarlo, ma non solo.

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Facciamo un passo indietro. Nel giugno 1969 Bernd (classe 1944, cantante e chitarrista attivo nel circuito folk politicizzato di Essen) fonda con Walter Westrupp (cantante e polistrumentista in formazioni barocche e skiffle nato nel ‘46) il W&W’s Pop-Cabaret per fare teatro-canzone in tedesco. Subito accorciano la ragione sociale in Witthüser & Westrupp e l’esordio esce nel marzo 1970 per Ohr: Lieder von Vampiren, Nonnen und Toten è accreditato solo a Berndt per un probabile errore del grafico e offre stralunato, minimale “teuto-folk” a base di humor nero, testi autografi, poesie di Novalis e Heinrich Heine. Bizzarria che rappresenta il trampolino di lancio per quanto dodici mesi dopo  consegna i due al culto. Nel suo alveo di sorridente dopato torpore, Trips und Träume suona freschissimo anche a prescindere dal recente revival psych-folk per lo stile, nel quale confluiscono tentazioni cosmiche, tradizione popolare e un respiro stupefatto però anche umoristico.

Sono davvero i “trip e sogni” annunciati nel titolo, questi brani pastorali e freak dalle venature orientaleggianti e gli intarsi ricercati. Innegabilmente ipnagogici e out, risultano tuttavia più terreni rispetto alle coeve splendide imprese di Yatha Sidra, Bröselmaschine ed Emtidi, pervasi come sono da un’ironia tipicamente tedesca – pensate a certe foto e copertine dei Kraftwerk – e da un approccio consapevolmente deviato: “Il primo LP fu composto e suonato bevendo caffè e birra. In Trips und Träume si aggiunsero altri “mezzi” come marijuana e LSD… Quanto all’ironia, eravamo gli outsider del movimento perché non prendevamo tutto così sul serio.“ Più sinceri di così! Del resto la dicevano lunga i volti fusi assieme sulla busta del trentatré giri, caratterizzato da una scrittura brillantissima ben assistita dalla produzione di Rolf-Ulrich Kaiser (“Rolf aveva i soldi e comandava, ingaggiava i musicisti e teneva il morale alto.“) e dal missaggio di Dieter Dierks.

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Esemplare l’attacco Lasst Uns Auf Die Reise Gehn, progressione melodica di una leggiadra malinconia che ritrovi in apertura di seconda facciata con la Illusion 1 poi ripresa in Tarot da Walter Wegmüller. Per arrivarci dovrete attraversare i panorami di Trippo Nova – nove fantastici minuti in cui i Faust si trasferiscono sulla West Coast mescolando psichedelia e flamenco – e il visionario madrigale Orienta. Karlchen racconta una favola avvolta in echi di fanfare medievali e la scheggia Englischer Walzer incede, ebbra e deliziosa, verso il finale Nimm Einen Joint, Mein Freund, sorta di Don’t Bogart That Joint teutonica di sagace coralità.

Ottenuta una certa notorietà in madrepatria, la coppia schiaccia a fondo il pedale della stravaganza: nel ’71 Der Jesuspilz è un concept che impasta funghi allucinogeni e vangelo; l’anno seguente Bauer Plath si ispira a Tolkien e Castaneda con i Wallenstein. Poi le strade si dividono: “Avevamo terminato il contratto Ohr/Pilz per quattro album in un biennio. Con Walter non andavo più molto d’accordo e Kaiser era diventato troppo esoterico. Mi misi per conto mio come ‘Bermelli One Man Band’ e a Berlino, nel ’77, conobbi Otto. Gli chiesi di suonare con me un paio di settimane. Finimmo per stare assieme venticinque anni.

Notati da Arbore ad Arcidosso e prontamente assoldati, arriva il successo. Tanta l’acqua passata sotto i ponti da allora: Westrupp vive in Germania e milita in una band skiffle; Witthüser/Barnelli, innamorato del nostro paese, ha risieduto in Toscana fino alla scomparsa nell’agosto 2017, seguitando a suonare secondo l’indole anticonvenzionale e spontanea di chi era venuto al mondo un ventinove di febbraio. Vielen Dank, Bernd!