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Ipotesi di psichedelia mutante: Index For Working Musik

Potessi ricevere un biglietto da dieci per tutte le volte che l’ho scritto e detto, prenderei in seria considerazione la pensione anticipata: prima che un genere, la psichedelia è uno stato mentale. Un’attitudine applicata all’arte rock, se preferite, il che ne spiega il continuo ricorrere nella storia e, soprattutto, una condizione di mutaforma che si adatta allo scorrere del tempo restando indenne alle mode. Potete declinarla con le chitarre, con l’elettronica o con un misto di entrambe; potete smarrirvi felici e beati lungo spirali soniche oppure danzare fino oltre l’alba. La differenza è di natura formale, poiché lo spirito di totale liberazione dionisiaca scorre in voi e in ciò che state ascoltando.

Di conseguenza, mi accosto con curiosità a chi si cimenta intelligentemente con stili che puntano a espandere la mente, o magari a farla implodere come i britannici Index For Working Musik, allestiti nel 2019 da membri di Toy, DRIFT e Proper Ornaments. Ragioni sulle parole “Inghilterra” e “psichedelia” e subito pensi ad atmosfere da favola lisergica e/o da paese dei balocchi disturbato: scordatevi tutto questo, ché Max Oscarnold, Nathalia Bruno, Bobby Voltaire, E. Smith e J. Loftus preferiscono affidarsi a un torpore che ricorda i Pavement e Beck, immaginare versioni alternative di Swell Maps e Television Personalities e imbottire i Clinic e Marc Bolan di sedativi. Interessante, eh?

In realtà il progetto risulta difficile da catalogare con precisione per il modo sottile con il quale congiunge i suddetti riferimenti a certe pagine stralunate del guitar-pop “C86” e all’inevitabile eco dei Velvet Underground e del post-punk, pur senza fermarsi lì. Con la giusta dose di estro e personalità, la band getta nel calderone un’indolenza sospesa tra sogno e incubo, registrazioni sul campo ed elettronica appropriatamente caliginosa. Ne deriva una ricetta minimalista però curata all’insegna di una pigrizia allucinogena che avvolge dentro le sue spire tramite un cantato dal fascino ambiguo che ricorda non poco Paul Roland, corde ruvide e tintinnanti, schegge di violoncello e circolarità, stratificazioni e ronzii…

Volendo a ogni costo escogitare una definizione, post-psichedelia impressionista potrebbe quasi avere senso, benché l’alone di mistero che circonda la mezz’ora e spicci di Dragging The Needlework For The Kids At Uphole scompigli di continuo le carte. Basta poco per scoprirsi dipendenti da una torpida Wagner dove Syd Barrett si crede Lou Reed, dal blues alla codeina Railroad Bulls e da una Athletes Of Exile di romanticismo splendido e malaticcio. Faccende favolose al pari di Isis Beatles (la Beta Band in uno scantinato), di Palangana (gli Air che ospitano Bolan), della filastrocca Ambiguous Fauna, delle 1871 e Chains che avrebbero fatto un figurone in Wowee Zowee e dell’acid-folk Habanita, che scivola via dalle pieghe di Mellow Gold. Tralasciando un paio di bozzetti che fungono da raccordo, ho citato la scaletta per intero ed è sempre un buonissimo segno. Vedi alla voce: dischi dell’anno e dove trovarli.

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Brividi e mal di pancia in pillole, 7

Meg Baird – Furling (Drag City)

Dicono che l’apparenza inganni. Proverbio che calza a pennello per Meg Baird, in carniere tre album solisti scanditi lungo un quindicennio e nondimeno iperattiva e istintuale sin dai tempi dei magici Espers. Da allora, eccola alle prese con uno splendido hard rock folkedelico negli Heron Oblivion e collaborare con Mary Lattimore, Will Oldham, Steve Gunn e altri nomi importanti. Di conseguenza, nel turbine professionale di tempo per sé Meg ne ha poco ma lo spende benissimo. Non fa eccezione Furling, composto lavorando attorno alle passioni musicali e a ciò che si portano dietro e dentro. Soprattutto memorie, sogni a occhi aperti, una percezione della realtà dove il mistero e l’inspiegabile generano visioni.

L’artista è un mezzo per veicolarle e non si pone limiti, ché a temprare l’eclettismo contribuiscono l’armonia di chi balla da sola (quasi: c’è anche il compagno di vita e scorribande sonore Charlie Saufley), la sicurezza di mezzi, un folk-rock acidulo dalle atmosfere sognati non prive di stridori. Tutto secondo copione, non fosse la scrittura brillante da segnare uno scarto sui precedenti dischi della Baird: lo certificano i Mazzy Star che guardano ai Pink Floyd dei primi ’70 di Ashes, Ashes, un’accorata però lieve The Saddest Verses, la pianistica Wreathing Days, l’ombrosa e dolente Ship Captains, l’epidermica Will You Follow Me Home?, il Fred Neil reincarnatosi Shelagh McDonald di Twelve Saints. Non da meno il resto della scaletta, tra le mani abbiamo una raccolta di malinconiche polaroid perfette per l’inverno.

Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Che puoi fare quando scopri che la persona al tuo fianco da trentadue anni ha il cancro? Oltre a prendertene cura, se il tuo mestiere è il songwriter cerchi di esorcizzare la cosa attraverso le canzoni. E non fa nulla se in gran parte sono state scritte prima, perché il significato finisce per ricadere sul vissuto, che tu lo voglia o meno. Così è stato per Robert Forster, che apre il nuovo album celebrando chi ha lottato in una She’s A Fighter che, malinconica però pure speranzosa, riporta le lancette ai Go-Betweens di fine ‘80 sulle ali di una diversa maturità, artistica e umana. Ed è l’ultimo brano – questo sì, esplicito – composto per un disco che si spinge oltre la musica quanto a premesse, realizzazione ed esito.

Perché è stato registrato a Brisbane nei momenti in cui la moglie di Robert, Karin Bäumler, si trovava nelle condizioni di poter suonare e perché le session sono state un affare di famiglia e di amici. Questo spiega l’arredo minimalista e sottolinea i toni più che mai accorati e vibranti del pezzo di cui sopra, inciso da Forster, Karin e i figli seduti in cerchio, legati dal sangue. Lo stesso dicasi per l’intero lavoro, succinto quanto profondo saggio di scrittura elegante e intensa con ulteriori apici nei folk-rock modernisti Always e Tender Years, in una sublime The Roads, nella meditativa When I Was A Young Man, nella sfoglia elettroacustica There’s A Reason To Live. La fiamma, qui, non brucia nessuna candela, ma mantiene accesa la speranza e onora il valore inestimabile della vita.  

Nightshift – Made Of The Earth (Trouble In Mind)

Appena il tempo di annotare per l’ennesima volta che nel contemporaneo marasma di pubblicazioni ci stiamo di certo e comunque perdendo qualcosa di eccitante, che il podcast The Tuesday Tapes di Fabio De Luca mi svela l’esistenza dei Nightshift. Formatosi nel sottobosco indipendente di Glasgow durante l’estate 2019, il quartetto si definisce un “ensemble audio multidirezionale”, in bacheca ha altri due album e lo scorso novembre ha recapitato un ultimo dispaccio della sua prima incarnazione affiancando inediti e brani pescati qui e là in modo coeso. A tenerli insieme è loo spirito felicemente naif che affronta la materia post-punk schivando i cliché e le fotocopie, intrecciando suggestioni diverse e avvalendosi di una scrittura superiore alla media.

Alla fine, la mistura di new wave, indie rock, folk, funk e sperimentazione suggerisce svariati riferimenti pur sfociando sempre in qualcosa di – relativamente, dati i tempi – personale. Hologram e Horseshoe dipanano groove irresistibili tra organico e sintetico lungo panorami esotici, Flower declina folkedelia in chiave “C86”, Supermarket si sistema tra Slits e Au Pairs e la traccia omonima è un raga minimale. Mica finita, perché in Locked Out i Tunng credono di essere gli Young Marble Giants e le Raincoats li imitano con le ESG per Trousers, Souvenir catapulta Nico nel terzo millennio e The Painting You Live With immagina dei Sonic Youth malinconicamente folk. Un gioiellino, Made Of The Earth ha come unico difetto una disponibilità che prevede solo cassetta e formato liquido. O tempora

Yo La Tengo – This Stupid World (Matador)

Di tutte le leggende, quella legata alla fonte della giovinezza è tra le più solide. Il mito originale vuole che le sorgenti si trovino nel giardino dell’Eden, tuttavia, dopo che Colombo ha scoperto che oltre l’Atlantico c’era terra, a lungo si è creduto che fossero in Florida. A proposito di America e credenze pop(olari), quando pronunci “Yo La Tengo” nell’aria risuona una formula che evoca l’indie rock a stelle e strisce più prezioso. Quello che vanta infiniti tentativi di imitazione e nei decenni è assurto al rango di classico, com’è giusto per un artigianato all’insegna di passione e perfezione, di urgenza e autorità.

E, nel caso specifico del nuovo album This Stupid World – prodotto dal gruppo, le basi incise per lo più in presa diretta – di un riassunto di carriera all’insegna di atmosfere sperimentali, ritrovato vigore e melodie avvolte in gusci di chitarre elettriche che scintillano ruggine come polvere d’oro. Qualcosa che possiede la grazia decisa delle ballerine di danza classica: muscoli tesi, nervi che scattano, movenze leggiadre ma risolute che sanno gestire ogni sfumatura. Gioielli come una sferragliante Fallout, la sfoglia emotiva alla Velvet Underground Aselestine, la favolosa psichedelia rumorista a passo motorik di Sinatra Drive Breakdown, una sinuosa Until It Happens e il vaporoso, dilatato post-shoegaze Miles Away li vorresti sentire da giovanotti all’esordio, tuttavia a offrirteli è un trio di sessanta-e-qualcosa. E se la fonte dell’eterna giovinezza si nascondesse nel New Jersey?

Volare tra i colori con i Breathless

Una presenza ricorrente su questo blog, i Breathless. Presenza che mi auguro risulti gradita a lettrici e lettori quanto lo è a me, che con cadenze irregolari ho l’onore di ospitarli. Ogni volta c’è un motivo valido e a questo giro il più valido in assoluto, dal momento che dopo dieci anni dal bellissimo Green To Blue la formazione britannica si ripresenta con See Those Colours Fly, un disco nuovo di zecca foriero di novità. Tanto per cominciare, il mitico produttore americano Kramer si è occupato del missaggio; poi, la bassista Ari Neufeld si è fatta carico anche delle ritmiche per via di un grave incidente stradale che ha coinvolto il batterista Tristram Latimer Sayer.

La buona notizia numero uno è che Tristram si sta gradualmente riprendendo. La due: davanti a una situazione drammatica, il gruppo ha risposto a testa alta e, pensando che il modo migliore per sostenere l’amico fosse continuare a lavorare all’album, con calma – di mezzo, ovviamente, ci si è messo anche il lockdown – ha provato a uscire dalla propria aurea confort zone. Eccoci infine alla terza buona notizia: la missione è stata compiuta recapitando un disco che offre una versione viepiù onirica di uno stile ampiamente collaudato – a farla breve: splendida sintesi di post-punk e psichedelia – che, tra molte altre cose, rappresenta l’invenzione dello shoegaze. Senza perdere di vista l’anima eterea ma allo stesso tempo saldamente ancorata a terra, qui i Breathless si porgono in una chiave marcatamente minimale, dilatata e ambientale.

cover art: Jay Cloth

L’economia di mezzi e arrangiamenti sottolinea un’inalterata forza evocativa, sostenendo una scrittura sempre di alto livello attraverso stratificazioni strumentali, drone, ritmi e trame che coniugano organico e sintetico con spontanea efficacia. Sono canzoni che respirano e posseggono spazialità, quelle costruite come d’abitudine su intrecci di corde e tastiere e impreziosite dall’inconfondibile, magnifica voce di Dominic Appleton. Da parte sua, Kramer (in curriculum altri pezzi da novanta come Galaxie 500 e Low) cesella dettagli e concorre con misura a una musica immaginifica come poche altre. E, quel che più importa, a composizioni come la sognante Looking For The Words e una sospesa My Heart And I, come l’ambient wave tra romantico e gotico The City Never Sleeps e il capolavoro assoluto – Nico che si aggira tra i panorami di Meddle? – della visionaria e policroma I Watch You Sleep.

Non vale meno il resto di un programma con l’aspetto di un film da seguire con gli occhi della mente, dalla mestizia riflessiva squarciata da timidi raggi di luce di The Party’s Not Over e Let Me Down Gently a una più movimentata We Should Go Driving per la quale i Beach House farebbero carte false, passando per la Somewhere Out Of Reach che trasporta gli ultimi Joy Division in una dimensione priva di tragedia e le architetture sinuose, leggiadre e conturbanti di So Far From Love. Sempre al di sopra dei tanti epigoni, i Breathless regalano un ennesimo balsamo per l’anima. In tempi tribolati e tristi, See Those Colours Fly è da tenere a portata di orecchio, ma soprattutto stretto al cuore.

Frammenti di un paradiso pop: Guided By Voices

Se nutri interesse per il lato visionario del pop, a Robert Pollard vuoi un sacco di bene. Nonostante tutto, perché nessuno è perfetto e tanto meno un artigenio che probabilmente batte Billy Childish quanto a (iper)produttività. Non mi sono dato la pena di controllare, ma pare che la discografia del Nostro si attesti sulle tre cifre, e comunque i conti fateli voi. A me importa lodare la band tornata in pienissima attività con un profluvio di dischi che nemmeno la pandemia ha arrestato e, quel che più conta, in buona forma.

Ho scritto “band” e tuttavia, pur senza sminuire la cinquantina di elementi transitati nelle sue fila e il braccio destro Tobin Sprout, i Guided By Voices sono Robert Pollard. Per questo, da che mise un primo punto alla vicenda non c’è stato modo di annoiarsi tra la carriera solista e svariati altri progetti: per le medesime ragioni, la rimpatriata non offre il fianco a critiche. Anzi, sottolinea l’atemporalità delle canzoni di Bob, che sono battiti di ciglia che cuciono pop, psichedelia e new wave in un fugace momento, dove ciò che per altri è abbozzo dipinge un universo compiuto.

Rimuovere il superfluo mostrando l’arguzia compositiva è il segreto di un culto per antonomasia. Di un anello mancante tra Beatles, Television Personalities e Swell Maps che, costruendo un ponte tra R.E.M. e Beat Happening, è servito da esempio per Sebadoh e Pavement. Non è poco, ne converrete. Sorrido al pensiero che Robert (classe 1958: maestro elementare, amante dei surrealismi verbali, voce al crocevia tra Paul McCartney e Michael Stipe) si sia trovato per caso in una cantina di Dayton, Ohio, a inseguire sogni. Intorno ai venticinque anni, inizia ad avvolgere un folk-rock venato di nervosismo e popedelia in brevi schegge che sbucano da una foschia sonora.

Spetta ai Fab Four della Georgia ispirare nel 1986 il mini Forever Since Breakfast, laddove nell’87 gli LP Devil Between My Toes e Sandbox indicano discrete potenzialità, confermate entro due anni da Self-Inflicted Aerial Nostalgia. Più cupo nel 1990 Same Place The Fly Got Smashed, la svolta giunge dodici mesi dopo: autoprodotto come i predecessori in poche centinaia di vinili, Propeller vede l’ingresso di Sprout, che con la sua penna bilancia lo strapotere di Pollard. Apportato un tocco di equilibrio, il cocktail di sixties, sperimentazione e ironia non sfugge alla stampa, nel ’93 Vampire On Titus esce su Scat e un gruppo cui si sono aggiunti Mitch Mitchell, Greg Demos e Kevin Fennell – con ragione, questa viene considerata la line-up “classica” – si esibisce dal vivo con maggiore frequenza.

L’asso è calato l’anno successivo da Bee Thousand, un Revolver da cantina – ascoltare per credere Kicker Of Elves, Queens Of Cans And Jars, Echos Myron – però imbevuto di freakbeat e post-punk. Solo colpi d’ala qui, dagli Wings alticci di Tractor Rape Chain alle The Goldheart Mountaintop Queen Directory e Yours To Keep sottratte allaIncredibile String Band, passando per la dolcezza svagata di A Big Fan Of The Pigpen e per il Dan Treacy abbigliato paisley di I Am A Scientist. Se Mincer Ray e Hot Freaks sono gli Wire con Stipe al microfono, le incrostazioni di Hardcore Ufo e i Gang Of Four spuri di Her Psychology Today tratteggiano un manifesto estetico che restituisce anima alla musica.

Lo stile definito dal sardonico leader lo-fi arena rock impressiona la Matador ed ecco Alien Lanes riassumere un linguaggio che ora possiede anche la compattezza per imporsi nel panorama indie. Applausi agli incroci di Pixies e Beatles (As We Go up We Go Down, A Salty Salute) o di Move e Fall (Pimple Zoo, Watch Me Jumpstart), a 45 giri dimenticati nel cassetto da Pete Townshend (Closer You Are) e scivolati via da Document (Stripes White Jets), a ipotesi di Zombies in overdose di elio (Chicken Blows), agli omaggi alla Flying Nun (Blimps Go 90) e ai Soft Boys (Alright), alla sintassi matura e mirabile di Motor Away, Game Of Pricks e My Valuable Hunting Knife. Dopo l’ingresso nell’élite alternativa, Under The Bushes Under The Stars soffre però una certa stanchezza.

Il rischio dello stereotipo dietro l’angolo, nel 1997 Pollard rinnova la compagine assoldando i veterani Death Of Samantha, frattanto ribattezzatisi Cobra Verde. Si spiegano così le trame strumentali più robuste di Mag Earwhig!, evoluzione che colloca tra Big Star, Badfinger e Posies la bellezza di I Am A Tree, Bulldog Skin, Not Behind The Fighter Jet e Now To War. Logico a quel punto tentare il salto di categoria, però Ric Ocasek non trova la quadra di uno standard compositivo inusualmente basso: continuamente rinviato, Do The Collapse esce su TVT nel ’99 lambendo il fondo dei Top 200 con una blanda e stralunata parafrasi degli Weezer. Mentre dei Cobra Verde rimane solo il prezioso Doug Gillard, il periodo negativo prosegue con il divorzio del nostro eroe, che tuttavia trova la forza di reagire e recupera terreno in Isolation Drills.

Scarse le vendite, rientra alla Matador per Universal Truths And Cycles, Earthquake Glue e Half Smiles Of The Decomposed che, a inizio del nuovo millennio, coniugano inventiva e verve. Si chiude su una nota alta: una maratona di quattro ore e sessantatré (!) canzoni, tenuta il 31 dicembre 2004 al Metro di Chicago e immortalata dal DVD The Electrifying Conclusion. Come accennato in apertura, lo spazio verrà colmato da un profluvio di sigle e imprese solitarie da setacciare in cerca di gioiellini. Infine, la nostalgia una tantum non canaglia riallaccia i fili del discorso dal 2010 al 2014. Infine, sei anni fa Robert ha riaperto i cancelli del suo bizzarro e bellissimo mondo. Un mondo che somiglia a un paradiso per atei. Siate i benvenuti.

Il futuro dietro l’angolo: Fontaines D.C.

Uno dei mali peggiori del giornalismo musicale è il vizio di affibbiare etichette come “i nuovi Tizi” o “il nuovo Caio” e, in parallelo, di eleggere salvatori di un rock spacciato come defunto da trent’anni abbondanti ma in continua rigenerazione. La cosa ha complicato non poco la carriera – quando addirittura non ha tarpato le ali – a diversi artisti, caricandoli di eccessive attese e/o di un ruolo del quale non andavano in cerca. Un malcostume, lo si dica. E si dica che la tendenza a scovare hype a ripetizione si è acuita nell’era di internet, allorché tutto viene bruciato in pochi giorni quando non in poche ore. Per coloro ai quali interessa approfondire, il tempo e la familiarità aiutano invece a modellare la prospettiva, a ragionare e ponderare i giudizi. Insomma: i dischi vanno ascoltati e sentiti più volte, anche solo per rispetto verso chi li fa. Se siete frequentatori di questo blog, sapete che qui è così che funziona.

Venendo al punto, mi sono accostato libero da preconcetti al disco “del momento”, ovvero Skinty Fia dei Fontaines D.C. Fatto numero uno: il quintetto dublinese possiede talento in misura più che bastante a farsi notare. Fatto numero due: in anni di riciclo a oltranza, omologazione sfrenata e attenzione fin troppo rivolta soltanto al suono, i ragazzi scrivono canzoni che possono durare. Se sei tutto chiacchiere e velleità, nel giro di un paio di album diventi una macchietta tipo gli Oasis, ma non pare sia il caso dei Fontaines D.C. Tuttavia i Gallagher tornano utili per chiamare in causa lo spirito che aleggia su Skinty Fia, cioè il nume tutelare condiviso rappresentato dai La’s di Lee Mavers.

Il cantato di Grian Chatten poggia infatti su quella tonalità insieme emotiva e indolente, aspra però melodica, sempre sul rasoio di una stonatura che non arriva mai; da par suo, la penna contiene inchiostri che profumano di fine anni Ottanta, di quando i Sixties rappresentavano un patrimonio da cui attingere senza timori reverenziali e da “correggere” con il post-punk. Se proprio volete un altro punto cardinale, gli House Of Love calzano a pennello e chi ha una certa età non avrà bisogno di ulteriori spiegazioni.

Al netto di ogni riferimento, Skinty Fia possiede spessore compositivo, sicurezza e personalità tali da segnare un vertice per la formazione. In tal modo sigilla un cerchio, poiché tre dischi in altrettante stagioni comprimono su una nota alta un preciso decennio di storia del pop come solo nella nostra epoca è dato. E per il futuro, si vedrà. Intanto è il presente che conta e sistema i vertici nel memorabile indie wave gregoriano In Ár gCroíthe Go Deo e in una fragorosa ma cupa Nabokov.

Nel mezzo, una scaletta di impeto ragionato, rigore formale e standard quasi altrettanto elevato: I Love You porta con sé l’ipnosi stordente di Bossanova, i DNA di Mavers e Guy Chadwick sono tutt’uno nel gioiellino Jackie Down The Line e nella malinconia tesa di How Cold Love Is, lungo la sensualità cristallina di Roman Holiday cogli qualcosa di Echo & The Bunnymen. Se Big Shot e Bloomsday ipotizzano gli Stone Roses in vesti shoegaze, The Couple Across The Way è un folk crepuscolare e stranito e la title-track incede danzereccia ricordando i Campag Velocet ma pure i tardi Cure. La netta impressione è che, nel mentre diventano grandi, gli irlandesi possano presto sedersi tra i Grandi. Consideratelo un augurio.    

Yard Act: art-pop in opposition

Nella rutilante giostra d’oltremanica c’è un momento in cui una band emerge sulle altre, trascende i meccanismi del mercato e, trasformandosi in comunicatore sociale, porta con sé il respiro dei tempi mentre se ne colloca al di fuori. È il fatidico attimo in cui l’attualità sfocia nell’universale e si congela nell’anello di una catena prestigiosa che dai Kinks alla Brexit si rigenera attraverso Jam e Specials, XTC e Blur, Art Brut e Arctic Monkeys, Fat White Family e Shame. E poiché epoche complesse comportano scelte severe, oggi Albione graffia, scalcia e si getta in cerebrali riscritture post rock, ma soprattutto convince quando conserva la perfezione del meccanismo pop a orologeria che ti esplode in faccia rivitalizzando le sinapsi.

Arguzia e frusta: chi vi sovviene tra i nomi che ancora non ho chiamato in causa? Bravissimi, proprio la malanima Mark E. Smith, vivo più che mai da quando ha per forza di cose traslocato in un’altra dimensione. Il suo spirito ricorre tra le nuove leve britanniche, e non potrebbe essere altrimenti con la dura realtà dalla quale attingere: meno male che per qualcuno rappresenta un punto di partenza e non un paravento per mascherare la scarsa ispirazione.

Caso esemplare gli Yard Act, ragazzi di Leeds che si autodefiniscono minimalist rock group attesissimi al varco dell’album d’esordio in virtù di un hype creatosi piuttosto in fretta e pienamente giustificato, ché in due annetti si è avuto modo di apprezzare l’E.P. Dark Days e un vigoroso cazzotto sui denti sotto forma di vis polemica e di sonorità debitrici alla new wave e tuttavia sintonizzate su quanto accaduto nel frattempo e sull’attualità. Se proprio volete una definizione, questo è avant-pop di protesta conscio che la Parklife è terminata da un pezzo, che il neoliberismo infame merita solo le lame, che da William Hogarth ai Fall è il mezzo che cambia, mai il fine. Questioni che James (cantante della formazione completata dal bassista Ryan Needham, dal chitarrista Sam Shjipstone, da Jay Russell alla batteria) conosce a menadito.

Di certo, sa anche che condividere il cognome con quel mancuniano illustre può sembrare un segno del destino, finanche una benedizione. Staremo a vedere. Per adesso basta – avanza persino – un intrigante frullato di spigoli orecchiabili, cinismo umoristico e vetriolo umanista da intellettuale proletario tongue-in-cheek che racconta la vita. Per apprezzarne in pieno la forza espressiva, The Overload va infatti ascoltato prestando attenzione alle parole, perché qui il surrealismo racconta la realtà e rende viepiù preziose canzoni beffarde e appiccicose.

Canzoni come una title track che apre i giochi mescolando rap da pub, ritornello scippato al giovane Andy Partridge e chitarre spatolate però rifinite; come gli Happy Mondays che in Land Of The Blind preferiscono le pinte di scura all’ecstasy; come Payday, che mescola il funk candeggiato dei Gang Of Four con rivisitazioni di Madchester. Riferito della cura per arrangiamenti e dettagli che tiene lontano qualsiasi rischio di ripetitività, piacciono parecchio una sbilenca Rich che incede lungo memorie di P.I.L. e Liquid Liquid, gli Orange Juice incattiviti cresciuti con l’hip-hop di Dead Horse, una sardonica e arabeggiante Quarantine The Sticks che riassume John Lydon e un’articolata Tall Poppies che la imita avendo come oggetto giustappunto i Fall.

Cosa resta ancora? La scheggia alla Wire di Witness (Can I Get A?), i Franz Ferdinand in gita al manicomio in The Incident, gli LCD Soundsystem euforicamente ruvidi di Pour Another e 100% Endurance, sinuoso commiato un filo malinconico che grida “remix” a squarciagola. Diceva Totò che la somma fa il totale. Ecco, appunto. I miei omaggi, hip priests.

la lunga estate indiana degli Shiva Burlesque

Si porta dietro un nome importante, Grant Lee Phillips. Un nome intriso di storia e di drammi, quasi fosse un tentativo di suturare la ferita della guerra civile americana. Mi piace l’idea, come mi piace che a volte un destino di grandezza possa avverarsi: in fondo basta intendersi sul concetto di grandezza, che non sempre – di rado, in verità – si misura in copie smerciate e classifiche scalate. Con un battesimo che accorpa Robert E. Lee e Ulysses Grant, costui potevi da subito dirlo destinato a qualcosa di importante. Così è stato. Non solo in virtù dei Grant Lee Buffalo, ma anche per ciò che li ha preceduti: per il fascino che gli Shiva Burlesque sprigionavano nell’album d’esordio, sin da una copertina grondante misticismo psichedelico che preannunciava chissà quali caleidoscopi sonori.

Prima di poggiare la puntina sui solchi sapevi che Shiva Burlesque non sarebbe stato calligrafico o nostalgico. L’ascolto svelò subito un “a sé” decollato dalla bohème trance di Los Angeles e non da un Paisley Underground ormai dissolto. In retrospettiva è evidente che il gruppo costruì un ponte tra i due mondi, poggiando un terzo pilone in Inghilterra per mescolare flash acidi sixties e brume new wave in qualcosa che si è conficcato nel cuore. Non molti quelli disposti ad ascoltare, ma ognuno serba un posto speciale per un incantesimo inquieto che tuttora fluttua nel tempo e nello spazio.

Lungo la seconda metà degli eighties, il poco più che ventenne Phillips si trasferisce da Stockton a L.A. per incatramare tetti, studiare cinema all’università e riallacciare i contatti con l’amico e cantante Jeffrey Clark. Dividono uno scalcinato appartamento e abbozzano il progetto Tom Boys, scrivendo canzoni ispirate agli eroi adolescenziali David Bowie, Alice Cooper e Johnny Cash in una singolare mescolanza di lustrini e radici. Abbandonati dalla drum machine e dal bassista Rich Evac, diretto verso gli Psi-com del giovane Perry Farrell, rinascono Shiva Burlesque con la sezione ritmica di Joey Peters e James Brenner. Affinata la ricetta in piccoli locali di Hollywood, incidono un demo, nella primavera ‘87 si autofinanziano alcune session ai Radio Tokyo Studios e l’atmosfera rilassata di Venice Beach saluta un moderno acid-rock che persuade la Nate Starkman & Son. Entro un anno Shiva Burlesque è realtà.

Per modo di dire, ché occorre rimarcare come la sua natura evocativa appartenga più a un sogno che espande la mente. Tra gli estremi dell’inno leggiadro ma muscolare Indian Summer e di una Marysupermarket da Doors estatici trovi gemme come una desertica Two Suns, come i cupi Love spagnoleggianti di Work The Rat, come la The Lonesome Death Of Shadow Morton che plana da Heaven Up Here per spalancare un esotico, acustico cuore rivelatore e una citazione seminascosta. Se la visionaria The Black Ship se la gioca con il miglior Julian Cope, Water Lilies appoggia il jingle-jangle su un pulsare di basso alla Cure come fosse la cosa più semplice dell’universo, Morning impasta archi e corde in un cavalcata ribollente e Train Mystery delira come un convulso Stan Ridgway.

Malgrado tanta meraviglia, la band rimane in un limbo dove la critica si spella le mani, le vendite sono modeste e le college radio iniziano a puntare le antenne su Seattle e dintorni. A sottolineare lo stretto rapporto della formazione con la scena di Savage Republic e Red Temple Spirits è, nell’inverno 1990, la partecipazione alla raccolta di autori vari Viva Los Angeles II della romana Viva Records, cui è offerta l’incantevole ed esplicativa Arabesque. Nel frattempo è arrivato il violoncellista Greg Adamson e, dietro lo pseudonimo di Dick Smack, Paul Kimble rimpiazza Brenner al basso. Li ascoltate nel pregevole Mercury Blues, fuori in chiusura di annata per la Fundamental: un filino meno brillante la penna, Grant Lee prende gradualmente controllo in un alveo folk-rock qui vibrante (Sick Friend, Peace, Who Is Monalisa?) e là oppiaceo (Sparrow’s Song, Cherry Orchard, la title track).

Nulla cambia: le riviste seguitano ad apprezzare, il pubblico si nega e la tensione cresce. Il gruppo si separa al principio del decennio in cui Phillips conquista il proscenio spostando le lancette sui Settanta e su una meravigliosa Americana “deviata”: i primi due album dei Grant Lee Buffalo (in squadra anche Kimble e Peters) trasfigurano Mott The Hoople e Johnny Cash riallacciandosi all’educazione sonora di chi oggi vanta una dignitosa carriera solista. A proposito di cerchi che si chiudono, nel 1996 Clark imbarca Adamson e Brenner per il solistico, disteso Sheer Golden Hooks e, dopo una pausa pluridecennale, torna con If Is. In ogni caso, l’estatico show di Shiva resta qualcosa di irripetibile. Per chiunque.

Brividi e mal di pancia in pillole, 1

Durante un raro momento di lucidità mi sono reso conto che da un po’ non creavo una nuova rubrica per “Turrefazioni”. Cogliendo la palla al balzo, ho scelto di assecondare il mio approccio alla contemporaneità improntato a rigide selezioni e a una metodologia vecchio stile, lontana dal senti-e-getta attuale. Così, da questo primo appuntamento apro una finestra periodica dedicata a dischi usciti nell’anno in corso che, per vari motivi, non tratto in articoli più lunghi. In ogni caso, tiro le fila delle reazioni suscitate da ascolti attenti e ripetuti, per l’appunto comprese nell’ampio spettro tra il brivido e i bruciori di stomaco. La cadenza delle “pillole” resta legata alla valanga di pubblicazioni che ci sommerge quotidianamente e al tempo utile per selezionare e poi ascoltare più attentamente possibile. Altro non mi resta da dire, se non ringraziare Shaun Ryder per il “campionamento” del titolo. Buona lettura.

Chills – Scatterbrain (Fire!)

Nell’era di Internet abbiamo perso il senso “verticale” del tempo e il controllo sulle reunion, che troppo spesso oscillano tra il superfluo e il patetico. Meno male che qualche eccezione conferma la regola: per esempio i Dream Syndicate e, su un piano più di culto, i neozelandesi Chills. C’è un valido motivo: la band è espressione del talento di Martin Phillipps, il quale voleva essere Syd Barrett, Roger McGuinn e Ian Curtis tutti insieme appassionatamente e c’è riuscito eccome. Dal 1980 questo artigenio non ha mai smarrito il tocco magico che con Scatterbrain sistema un altro pregevole tassello, dove gli ingredienti sono i soliti ma la scrittura si “apre” un filo più che negli immediati predecessori. Chissà che c’entri qualcosa il film “The Chills: The Triumph And Tragedy Of Martin Phillipps” che due anni fa raccontava le vicende del nostro antieroe con disarmante franchezza. Doversi rivedere – e rivedere il passato – può aver acceso qualche altra scintilla e allora parlerebbe chiaro Monolith, eloquente gioiellino collocato in apertura di programma. Per capirci tra fan, è una Pink Frost che sostituisce il pozzo di malinconia con un prudente ottimismo, conducendo in un universo parallelo dove Julian Cope è uno dei Seeds. Annotato che la grafica è opera niente meno che di David Costa, gustatevi l’ennesima dose di dolceamaro indie-pop d’autore che miscela folk-rock, new wave e psichedelia “morbida” con rara maestria. Grazie, Martin: ci risentiamo tra tre anni. Se ti va, anche prima…

Dry Cleaning New Long Leg (4AD)

Formazioni come i Dry Cleaning risultano utili da un punto di vista “speculativo”, perché stimolano a ragionare sul peso delle formule nell’attualità della popular music e su quanto possa reggere un suono non sostenuto da un’adeguata scrittura. Ciò premesso, dal 2018 il quartetto britannico ha gestito la sua carriera alternando uscite di breve formato a un’intensa attività concertistica interrotta dalla pandemia. Nel frattempo, ha lavorato con cura sull’attesissimo album d’esordio e, allorché si registrano dischi all’insegna del “tanto per”, l’intenzione è assai lodevole. Non così il risultato, dove l’ennesima riapparizione del post-punk cerca di sottrarsi a un passato ingombrante (senza scomodare i pesi massimi, basta il paragone con certi nomi dei “nostri” anni Dieci ed è tutto dire) ricorrendo al consolidato repertorio di scorticamenti, obliquità e storture che abbiamo ascoltato infinite volte con tutt’altra verve, sicché gli interessanti testi sgranati da Florence Shaw – pensate a una Laurie Anderson scazzata: pure troppo per i miei gusti – sono inanellati su un rosario di luoghi comuni per lo più smunti e incolori. Costituiscono belle eccezioni la sensualità funk sbiancata alla Au Pairs di Strong Feelings, l’ipnotico minimalismo di Leafy, i Polyrock irrobustiti di More Big Birds e la No Wave declinata math e space di Every Day Carry. Canzoni di buonissimo livello con le quali una volta si sarebbe confezionato un 12”, mentre il resto scivola via senza artyparty.

GY!BE – G-d’s Pee AT STATE’S END! (Constellation)

Compagni che non ti deludono mai, i GY!BE. Li hanno disegnati così: sicuri dei propri mezzi etici ed estetici, fedeli a una solidissima linea, determinati a tratteggiare l’apocalisse attorno a noi con dischi che mostrano uno spirito sempre più umano. Perfetto, poiché c’è un gran bisogno di puntare il dito e di sperare in un domani. Soprattutto, di combattere per esso con ogni mezzo necessario. Perché non basta mettere dei disegni di bottiglie molotov in copertina se l’antagonismo si ferma lì. Ma questo, lo sappiamo bene, non è il caso di chi offre oasi di pace bellicosa e intenzioni che divengono sempre prassi. Come questo nuovo album, intenso apice di un percorso ripreso quasi dieci anni fa insistendo per l’appunto sull’umanità e sforbiciando un pochino le durate di composizioni al solito mercuriali, densissime e imprendibili. Qualcosa che, nello specifico, spinge a escogitare descrizioni fantasiose – tanto per cambiare, abbastanza velleitarie – come “King Crimson e Amon Düül II che ospitano i Savage Republic a Pompei”, salvo sistemare a fondo corsa uno struggente congedo di liturgico afflato avendo già intervallato un altro oceano sonoro – indeciso tra la mestizia nervosa degli Earth, un’elegia da Spacemen 3 terrigni e fughe motorik – con un oscuro e sospeso folk urbano. Sempre uguale ma sempre diversa, la musica del collettivo canadese è un essere vivente che cresce con i suoi artefici e con chi ascolta. È Arte unica, suprema e meravigliosa. Arte da tenere stretta al cuore.

Ryley Walker – Course In Fable (Husky Pants)

Nonostante l’esito poco persuasivo, fa comunque piacere che Ryley Walker si sia messo alle spalle un periodo umanamente complicato. Lungo la seconda metà dello scorso decennio, infatti, la sua parabola di moderno cantautore ha mostrato un talento cristallino, abilissimo nello spremere un succo personale e gustoso da tanti frutti, che fossero l’Americana, le contaminazioni folk a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, un “post” dapprima attitudine e poi anche forma. Splendori come Golden Sings That Have Been Sung e Primrose Green erano arditi e baciati in fronte da una naturalezza di scrittura e impaginazione che attualmente appartengono a pochi. Ecco: il difetto di Course In Fable va cercato proprio in un diffuso virtuosismo spacciato per eclettismo, nel tortuoso zigzagare tra inutili orpelli che altrove scivola in una rilassata monotonia poco adatta ai cavalli di razza. A conti fatti, la presenza in regia di John McEntire lasciava presagire qualcosa di più di un catalogo di stilemi della Chicago che fu e di deprecabili strizzate d’occhio al progressive. Senza l’ironia e la classe di un Jim O’Rourke, il disco finisce per impantanarsi a metà del guado e meno male che – forse conscio di farla spesso fuori dal vaso – il ragazzo recupera lucidità porgendo un po’ di romanticismo che respira, emozionato ed emozionante. In attesa della prossima mossa, si salva in corner permettendo di assolvere Course In Fable con un sei e mezzo e una pacca sulla spalla. Quanto al domani, si vedrà.

I Breathless tra felicità e dolori del cuore

Dicono che alla fine ci si abitui anche alla Bellezza. Non ne sono così sicuro, a dirla tutta. Se a un certo punto l’incanto svanisce, le possibilità sono due: non era bellezza autentica, ma soltanto un abbaglio; altrimenti, le ho voltato le spalle e prima o poi me ne pentirò. Sono trascorsi più di trent’anni dal primo incontro con la musica dei Breathless, eppure ogni volta trova lei la via dell’anima e vi sistema il suo bagaglio di incanto ed emozione. E non avete idea della gioia, quando quasi nove anni fa mi trovai a intervistarli: da allora, non passa natale senza un biglietto d’auguri e un omaggio di uscita discografica. Quando si dice la signorilità…

Tutto quadra: più che dischi, questi sono tasselli di un mosaico del cuore che vanno posandosi dalla metà degli Eighties. Dei primi passi del quartetto britannico già vi ho riferito e idem delle loro imprese di fine millennio, ma torno nuovamente sull’argomento per riferire che a metà luglio la Tenor Vossa pubblicherà la ristampa del trentennale di Between Happiness And Heartache. Con l’usuale cura infusa in tali operazioni, il vinile (rosa) è ricavato dai master originali, vanta una grafica rimessa a nuovo, fotografie inedite di Kevin Westenberg e la possibilità di scaricare i brani in digitale con l’aggiunta del bonus Everything I See, ombroso dream pop che flette i muscoli come un David Sylvian più terreno. Ecco: la chiave interpretativa dell’album sta in due parole che diventeranno assai popolari in futuro.

Nel rigoglioso 1991, infatti, si parlava ancora di shoegaze, del quale i Breathless avevano in largo anticipo costruito le fondamenta mescolando post-punk e psichedelia in canzoni evocative che un magico equilibrio impedisce di risultare leziose o ridondanti. Con alla regia Drostan John Madden invece di John Fryer, il quarto LP Between Happiness And Heartache si affida a un approccio relativamente più grezzo senza perdere in ricercatezza. Vicino a un impatto “da live”, il suono racconta un’evoluzione che sterza dal morbido predecessore Chasing Promises superandolo di slancio. Scrittura, esecuzione e atmosfere dispiegano un pop raffinato e acuto pur restando sognanti lungo otto incantesimi dove le chitarre spiccano più del solito.

Tra ipotesi di Smiths che escono indenni dagli anni ’80 omaggiando i Joy Division con un cantante assai più espressivo (I Never Know Where You Are, You Can Call It Yours, Clearer Than Daylight) e i Galaxie 500 trasportati nella brughiera – questione di genitori comuni e affinità elettive – di Over And Over, la visionaria robustezza di Wave After Wave e All That Matters Now consegna sapienti variazioni della post-psichedelia tipica del gruppo. A sigillare un cerchio appena chiuso, la favolosa rilettura di Flowers Die degli Only Ones con ospite John Perry e un crescendo che sul serio lascia senza fiato. Sulla sua eco, le magistrali sferzate malinconiche di Help Me Get Over It scrivono la fine di un primo capitolo. Fino al 1999 i Breathless tacciono, poi tornano sulle scene a insegnare un paio di cose ai portabandiera del post e del drone-rock. Da allora, comunicano di rado e con invidiabile sicurezza. La stessa che li conserva in forma smagliante. Felicità, dolori del cuore e tutto quello che vi è in mezzo.

Salute, efficienza, genio: This Heat

Nei giorni in cui scrivo queste righe i britannici Black Country, New Road sono il nome del momento. Portabandiera del “post-rock 2.0”, posseggono il minimo sindacale di umanità sufficiente a scansare l’approccio tutto tecnica e zero emozione di troppi colleghi e pertanto paiono promettenti. Tra i riferimenti centrifugati dai ragazzi saltano all’orecchio i This Heat, dimostrando quanto fu forte a suo tempo il legame tra rock progressista e new wave e come quella “alleanza” si sia riverberata su chi ha raccolto il testimone. Un robusto filo rosso lega infatti Van Der Graaf Generator, King Crimson, P.I.L., Pere Ubu, Slint e June Of ’44 ai Black Country, New Road: nel mezzo, la cerniera post tra punk e rock dei This Heat è un “a sé” di sconcertante contemporaneità con un cuore umano nascosto sotto la potenza dello stile e delle idee.

Un equilibrio raro tra avanguardia e umanesimo, il loro, cui va aggiunto uno spruzzo di caustica ironia per tracciare un parallelo con i Faust: che il collettivo di Wümme fosse un modello dichiarato per i This Heat è la logica chiusura del cerchio e la conferma del carattere duraturo e autorigenerante delle migliori musiche di ricerca. Lo sapeva bene John Peel quando sottolineava l’unicità di una band che, formatosi nella scena di Canterbury, non cedette all’onanismo ma preferì indagare grigi panorami urbani e annunciare apocalissi a venire tenendosi stretti il look falsamente casual, la coerenza, il gusto per la provocazione. Come per gli Henry Cow, chiamatelo avant rock in opposizione.

Attivi dagli albori del decennio con il progetto impro Dolphin Logic, i due Charles (Bullen: fiati, chitarra, viola) e Hayward (batterista proveniente dai Quiet Sun di Phil Manzanera) incontrano nel ’75 il “non musicista” Gareth Williams, lo sistemano a basso e tastiere e sperimentano nel disastrato sud di Londra ricavando uno studio da una cella frigorifera. Tra le mura del Cold Storage – afferrata l’ironia, vero? – sfogano la creatività e, pensando ai Can e all’Inner Space, smantellano le convenzioni tra stratificate tessiture, oggetti trovati e un approccio che tratta luogo e atto della registrazione come strumenti. Dopo una parentesi a nome Friendly Rifles e il cambio di ragione sociale suggerito dalla torrida estate 1976, Peel ascolta un demo casalingo e nel marzo Settantasette convoca gli sconosciuti senza contratto a registrare una session che in piena apoteosi punk offre sonorità fantasticamente innovative.

Esemplare il capolavoro Horizontal Hold, che anticipa la meglio gioventù di Louisville tra slarghi krauti, matematica frippiana e funk industriale. Otto minuti e mezzo che, previa una leggera sforbiciata, avranno l’onore di aprire il primo LP e qui garantiscono di già gli annali a chi rincara la dose con l’ambient malata di Not Waving e una The Fall Of Saigon cupa e trafitta da clangori tipicamente June Of ’44; sei mesi e un altro mazzetto di brani si cimenta con ispido pseudo jazz industriale, scontri frontali Shellac/Liars, anticamere di Immagine Pubblica, parafrasi audio del test di Rorschach. La faccenda è così avanti che servono due anni per un album, inciso con calma e pubblicato dalla neonata Piano di Chris Cunningham. Noto anche come “blue and yellow” per la minimale confezione, This Heat dispiega le 24 Track Loop e Testcard che prefigurano la techno più astratta e l’isolazionismo, una rediviva Not Waving colma di malinconia wyattiana, l’omaggio a Tago Mago di Water e una Twilight Furniture che viaggia verso la rarefazione; altrove, l’orrorosa Diet Of Worms risponde all’esplicativa Music Like Escaping Gas e una The Fall Of Saigon viepiù livida riordina il caos di Rainforest. Ascolti e non ci credi che abbiano più di quattro decenni sul groppone.

Mentre il management prova a trasformare il trio in una sorta di Pink Floyd per le nuove generazioni, nel 1980 il 12” Health And Efficiency conduce a estreme conseguenze la manipolazione di nastri con una Graphic/Varispeed suonabile a 16, 45 e 33 giri, ma recapita anche una formidabile title-track che preconizza i Battles sposando krautrock, rumorismo e melodia. Su tali basi un anno dopo Deceit segna il passaggio a Rough Trade innestando sapori etnici sul tronco di brani obliqui eppure solidi che reinterpretano i Talking Heads e indicano la via ai Savage Republic. Di un album che guarda al debutto nel jazz mitteleuropeo Triumph e nella serrata Paper Hats persuadono inoltre le moderate progressioni cantabili (apice l’immane A New Kind of Water) e una fermezza che fonde slancio, raffinatezza, trasversalità. Nonostante rimanga molto da esplorare, dopo una breve e poco convincente esperienza senza Williams nel 1982 ci si separa e partono le rispettive carriere soliste.

Dei This Heat si torna a parlare sottovoce nei medi Novanta, quando la These, etichetta legata al gruppo, immette sul mercato Repeat, che a Graphic Varispeed i rabbrividenti bordoni da rituale Gamelan di Metal. Altri tre anni e il fondamentale Made Available recupera le incisioni per la BBC accompagnando la definitiva consacrazione del post-rock con l’effetto collaterale della (ri)scoperta della band e un riaffacciarsi sulle scene interrotto dalla morte di Gareth nel dicembre di vent’anni fa. A tirare le somme nel 2006 Out Of Cold Storage, imperdibile box con l’integrale discografico e inediti, poiché non si va oltre quel trio. Da un lustro infatti Bullen e Hayward si esibiscono dal vivo con la sigla This Is Not This Heat, ospitando spiriti affini come Thurston Moore e Alexis Taylor. Non riesco a immaginare un modo migliore di restare fedeli a se stessi e onorare la memoria dell’amico scomparso. Avanguardia e umanesimo, fino alla fine.