Come scrissi a proposito del rock’n’roll romantico Elliott Murphy, nei primi anni Settanta la caccia ai “nuovi” Dylan causò più danni della grandine. Altresì vero che il rock abbonda di gente schiacciata dai propri modelli, talvolta immeritatamente e per prevenzione di chi ascolta ma nella maggioranza dei casi per mera mediocrità. La popular music in sostanza è un’arena dove chiunque inizia “facendo come” qualcun altro e, per selezione naturale, i migliori a un certo punto fanno come se stessi. Ecco: Kevin Morby sta un po’ nel mezzo, tuttavia pare indirizzato sulla strada giusta.
Talento di provincia ispirato dal nomadismo insito nella cultura statunitense, è uno sradicato (il padre lavorava per la General Motors, portandosi dietro la famiglia nei tanti spostamenti) che ha imparato presto a contare su di sé, sviluppando l’introspezione che a un cantautore torna sempre utile. Quasi fosse segnato dal destino, nasceva in quella Lubbock trentuno anni fa e, dopo un lungo vagare per il Midwest, approdava a Kansas City; diciottenne, si trasferiva a Brooklyn e quattro calendari dopo imbracciava il basso per i Woods e fondava i Babies con Cassie Ramone delle Vivian Girls.
Tutte prove tecniche per il salto col quale nel 2013 lasciava anche la Grande Mela per L.A. tuffandosi nel frattempo anche dentro il pozzo della tradizione. Quando usciva allo scoperto con Harlem River, l’omaggio alla metropoli d’adozione parlava la lingua di un songwriting confessionale ampiamente storicizzato. Nulla di male, siccome mantenendosi lontano da stilemi e fotocopie, Kevin regalava belle promesse e una gemma come la dilatata title-track. Successivamente Still Life, Singing Saw e City Music hanno sottolineato la qualità della sua Americana sospesa tra urbano e bucolico, tenebre e luci, acustico ed elettrico.
Dallo scorso aprile, in tale contesto Oh My God segna un altro passo disinvolto e sicuro. Di esso non respingono la natura di esplicito concept incentrato sulla religione – in realtà si tratta di un senso di spiritualità interiore – né una copertina un po’ così. A svelarne la natura contribuisce la scintilla a monte: nel gennaio 2017, il sodale Sam Cohen suggeriva a Morby sonorità policrome però più del solito minimali. Raccolta la sfida, il disco veniva terminato entro altri dodici mesi.
Il rimettersi in gioco e la calma si sono di conseguenza saldate alla maturità in un lavoro che maneggia il suono americano – ma non solo… – con la conoscenza della storia e un’acuta contaminazione. Del tipo che svecchia la classicità quel tanto che basta per cancellare gli eccessi di conservatorismo e mescolare le carte. Da qui una Seven Devils di melanconia epica prossima al Bill Fay di Life Is People, la Nothing Sacred/All Things Wild che spedisce Zimmie con le mani umide d’acquasantiera a fare già i conti con Oh Mercy, i lustrini mescolati al gospel sulla Highway 61 di OMG Rock’n’roll, una Hail Mary che dalla cantina di Big Pink ipotizza un diverso Blonde On Blonde.
Testimone una versione metropolitana di The Band, la title-track benedice l’incontro tra l’autore di Time Of The Last Persecution e Sua Bobbità, altrove rinsavito da No Halo e I Want To Be Clean. E se Piss River avvolge il cuore come una giostra al calar della sera, Savannah e Sing A Glad Song rasserenano l’artista che Ballad Of Faye ossequia nel titolo, essendo la forma un inquieto strumentale jazz. Appropriatamente, è l’elegiaco soul dell’uomo bianco O Behold a chiudere un “difficile quinto album” dove Kevin si fa notare e anche ricordare. Dati i tempi, non mi pare poco.