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la lunga estate indiana degli Shiva Burlesque

Si porta dietro un nome importante, Grant Lee Phillips. Un nome intriso di storia e di drammi, quasi fosse un tentativo di suturare la ferita della guerra civile americana. Mi piace l’idea, come mi piace che a volte un destino di grandezza possa avverarsi: in fondo basta intendersi sul concetto di grandezza, che non sempre – di rado, in verità – si misura in copie smerciate e classifiche scalate. Con un battesimo che accorpa Robert E. Lee e Ulysses Grant, costui potevi da subito dirlo destinato a qualcosa di importante. Così è stato. Non solo in virtù dei Grant Lee Buffalo, ma anche per ciò che li ha preceduti: per il fascino che gli Shiva Burlesque sprigionavano nell’album d’esordio, sin da una copertina grondante misticismo psichedelico che preannunciava chissà quali caleidoscopi sonori.

Prima di poggiare la puntina sui solchi sapevi che Shiva Burlesque non sarebbe stato calligrafico o nostalgico. L’ascolto svelò subito un “a sé” decollato dalla bohème trance di Los Angeles e non da un Paisley Underground ormai dissolto. In retrospettiva è evidente che il gruppo costruì un ponte tra i due mondi, poggiando un terzo pilone in Inghilterra per mescolare flash acidi sixties e brume new wave in qualcosa che si è conficcato nel cuore. Non molti quelli disposti ad ascoltare, ma ognuno serba un posto speciale per un incantesimo inquieto che tuttora fluttua nel tempo e nello spazio.

Lungo la seconda metà degli eighties, il poco più che ventenne Phillips si trasferisce da Stockton a L.A. per incatramare tetti, studiare cinema all’università e riallacciare i contatti con l’amico e cantante Jeffrey Clark. Dividono uno scalcinato appartamento e abbozzano il progetto Tom Boys, scrivendo canzoni ispirate agli eroi adolescenziali David Bowie, Alice Cooper e Johnny Cash in una singolare mescolanza di lustrini e radici. Abbandonati dalla drum machine e dal bassista Rich Evac, diretto verso gli Psi-com del giovane Perry Farrell, rinascono Shiva Burlesque con la sezione ritmica di Joey Peters e James Brenner. Affinata la ricetta in piccoli locali di Hollywood, incidono un demo, nella primavera ‘87 si autofinanziano alcune session ai Radio Tokyo Studios e l’atmosfera rilassata di Venice Beach saluta un moderno acid-rock che persuade la Nate Starkman & Son. Entro un anno Shiva Burlesque è realtà.

Per modo di dire, ché occorre rimarcare come la sua natura evocativa appartenga più a un sogno che espande la mente. Tra gli estremi dell’inno leggiadro ma muscolare Indian Summer e di una Marysupermarket da Doors estatici trovi gemme come una desertica Two Suns, come i cupi Love spagnoleggianti di Work The Rat, come la The Lonesome Death Of Shadow Morton che plana da Heaven Up Here per spalancare un esotico, acustico cuore rivelatore e una citazione seminascosta. Se la visionaria The Black Ship se la gioca con il miglior Julian Cope, Water Lilies appoggia il jingle-jangle su un pulsare di basso alla Cure come fosse la cosa più semplice dell’universo, Morning impasta archi e corde in un cavalcata ribollente e Train Mystery delira come un convulso Stan Ridgway.

Malgrado tanta meraviglia, la band rimane in un limbo dove la critica si spella le mani, le vendite sono modeste e le college radio iniziano a puntare le antenne su Seattle e dintorni. A sottolineare lo stretto rapporto della formazione con la scena di Savage Republic e Red Temple Spirits è, nell’inverno 1990, la partecipazione alla raccolta di autori vari Viva Los Angeles II della romana Viva Records, cui è offerta l’incantevole ed esplicativa Arabesque. Nel frattempo è arrivato il violoncellista Greg Adamson e, dietro lo pseudonimo di Dick Smack, Paul Kimble rimpiazza Brenner al basso. Li ascoltate nel pregevole Mercury Blues, fuori in chiusura di annata per la Fundamental: un filino meno brillante la penna, Grant Lee prende gradualmente controllo in un alveo folk-rock qui vibrante (Sick Friend, Peace, Who Is Monalisa?) e là oppiaceo (Sparrow’s Song, Cherry Orchard, la title track).

Nulla cambia: le riviste seguitano ad apprezzare, il pubblico si nega e la tensione cresce. Il gruppo si separa al principio del decennio in cui Phillips conquista il proscenio spostando le lancette sui Settanta e su una meravigliosa Americana “deviata”: i primi due album dei Grant Lee Buffalo (in squadra anche Kimble e Peters) trasfigurano Mott The Hoople e Johnny Cash riallacciandosi all’educazione sonora di chi oggi vanta una dignitosa carriera solista. A proposito di cerchi che si chiudono, nel 1996 Clark imbarca Adamson e Brenner per il solistico, disteso Sheer Golden Hooks e, dopo una pausa pluridecennale, torna con If Is. In ogni caso, l’estatico show di Shiva resta qualcosa di irripetibile. Per chiunque.

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Pioneers over P(op): dB’s

La “nostra” musica abbonda di grandi artisti che la sorte confina a patrimonio di pochi. Esemplare la vicenda dei dB’s, un cocktail di sfortuna e scelte errate subite dai diretti interessati allorché di “indie” si viveva mettendoci sudore e anima. Qualcuno lo spieghi agli emaciati fighetti che ci ammorbano con le loro minestrine riscaldate: non potranno capire, ma tant’è. Tornando al punto, i dB’s pagarono lo scotto di essere fra i primi a coniugare sixties e new wave, plasmando il suono chitarristico americano degli ’80 senza cavarne monetariamente che briciole. Resta in ogni caso il gruzzolo di dischi che nel cuore custodisce due capolavori cult cui il tempo ha dato ragione. Non è poco. Come i loro fan R.E.M., i dB’s sono figli della provincia: Winston-Salem, North Carolina.

All’interno dell’intricata scena locale, a metà degli anni ’70 il cantante/chitarrista Peter Holsapple fa parte dei Little Diesel, intestatari di un disco dove alla batteria siede Will Rigby e in regia c’è Chris Stamey. Quest’ultimo smercia power pop garagista negli Sneakers assieme a Will e a Mitch Easter, futuro Let’s Active e produttore di Murmur e Reckoning. Nel ’77 si salutano, Stamey va a New York e corona un sogno suonando per Alex Chilton e pubblicando l’abbagliante Chris Bell di I Am The Cosmos/You And Your Sister. Nel frattempo incide (I Thought) You Wanted To Know e di lì a un annetto ne fa un 45 giri aggiungendo If And When, ritmica del fantasioso Rigby più il compaesano bassista Gene Holder. Lasciatosi alle spalle gli H-Bombs con Easter e un breve soggiorno a Memphis, in ottobre anche Peter si unisce a Chris Stamey & The dB’s.

Accorciato il nome, i ragazzi investono nell’attività di studio molto del denaro ricavato dai concerti. Una parte del materiale riaffiora nel ’93 grazie alla Rhino su Ride The Wild TomTom, dove l’ibrido tra solarità anni Sessanta, piglio del decennio successivo e nevrosi contemporanee è già definito. Retrogusto popedelico, echi di Move e Badfinger e la Trinità Beatles/Byrds/Big Star fanno il resto, nondimeno il disinteresse per le penne complementari di Chris e Peter dura fino al 1980, quando la Shake pubblica il 7” Black And White/Soul Kiss e il gruppo è messo sotto contratto dalla Albion. Mixato da Easter con l’ennesimo rimando remiano di un giovane Scott Litt, nel gennaio ’81 Stands For Decibels è realtà. Britannica la casa discografica, in madrepatria l’album si trova solo d’importazione ed è un peccato per uno stile che, ipotizzando Chilton a capo degli XTC, sferraglia beat modernista (Dynamite, Tearjerkin’), sparge aromi barrettiani su Pet Sounds (She’s Not Worried) e colora di tonalità pastello i Gang Of Four (The Fight).

Non valgono meno l’esotico mutant funk Cycle Per Second, una Big Brown Eyes che media Cars e Zombies, il Lennon strapazzato da Bad Reputation e preda di smanie Feelies per I’m In Love. Apice assoluto nella naturale complessità di Moving In Your Sleep, commiato dove Brian Wilson si aggira per le stanze semibuie di Sisters Lovers. Concluso un lungo giro dell’Europa, con Litt si lavora al secondo album nei prestigiosi Power Station e successivamente in Inghilterra, agli studi Air di George Martin dove l’incuriosito Paul McCartney fa capolino durante il missaggio di Repercussion. Avrà gradito il soul candeggiato Living A Lie, i Knack cupi della giostrina We Were Happy There, i Big Star post-punk di Happenstance e In Spain; non gli saranno sfuggiti il romantico latineggiare di From A Window To A Screen, la sferzante malinconia di Amplifier, una flamencata Storm Warning; si sarà invaghito di irresistibili compendi autoriali come Ask For Jill e Ups And Downs e del ruvido babà I Feel Good (Today). Un classico suggella inducendo a ripartire: preceduta dalla soffusa Nothing Is Wrong, la trascinante melodia di Neverland sarà spesso ripresa dai R.E.M. Di fatto, nel 1982 ne costituisce un evidente prototipo.

Tuttavia l’ennesimo tour è causa di stanchezza e l’etichetta lamenta le vendite esigue di un LP che, uscito sul Vecchio Continente in ritardo con copertina e scaletta differenti, ha confuso i pochi interessati. Chris abbandona, nell’83 gli altri firmano per la Bearsville ma in Like This latitano magia e smalto e problemi di distribuzione vanificano il buon riscontro presso le radio universitarie. Ventiquattro mesi di stallo e la I.R.S. pubblica il modesto The Sound Of Music, dopo di che Holder getta la spugna, il successo di Document – prodotto, colmo dei colmi, da Scott Litt… – prosciuga le forze promozionali dell’etichetta e il successore Paris Avenue vedrà la luce solo a metà anni ‘90.

Si chiude nel 1988: Holsapple offre i propri servigi a R.E.M. e Hootie & The Blowfish, fonda i Continental Drifters con la moglie Sue Cowsill e pubblica in proprio mentre Stamey produce (Whiskeytown e Le Tigre tra i tanti) e porta avanti un’apprezzabile carriera solista. Fino al 2005, quanto di più simile a una reunion sarà l’ennesimo bel disco ignoto ai più: opera di Peter e Chris, il terso folk-pop di Mavericks vede la luce in un 1991 mirabile all’eccesso. Per riallacciare i fili con tutti i membri originali bisognerà attendere il 2012 del godibilissimo Falling Off The Sky; poi, l’aprile scorso, ecco che in Our Back Pages Holsapple & Stamey si rileggono con classe. A voi ora il compito di fare un po’ di giustizia.

Mark Mulcahy, stella brillante

La vita non è stata gentile né equa con Mark Mulcahy. Quest’uomo ha scritto canzoni splendide in un gruppo che, fedele al nome, ha compiuto miracoli per una platea che dire ristretta è puro eufemismo. Ma ciò è ancora niente. Nel 2008 Mark perdeva la moglie restando con due figlie piccole e per soccorrerlo economicamente alcuni colleghi allestivano Ciao My Shining Star, un benefit album di riletture del suo repertorio. Per avvicinarvi ai Miracle Legion partite tranquillamente da lì: garantisco che cercare gli originali e innamorarsene sarà questione di un attimo.

Quello sarà il vostro dorato biglietto di accesso a un club che annovera Michael Stipe, Ryan Adams, Nick Hornby e diversi altri fedelissimi di nobile rango pronti a giurare su una bellezza che mescola folk-rock, new wave, emozioni. Se la ricetta sembra familiare, è perché i Miracle Legion furono una versione meno criptica dei primi R.E.M. e oggi si ergono a simbolo di tanti che come loro seppero rinnovare il passato, trovandosi loro malgrado lontano dai riflettori. Non dovesse bastare, per sua stessa ammissione Thom Yorke vide mutato da costoro l’approccio al cantato e alla scrittura.

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Ragazzi di provincia folgorati dal punk, nei primi Ottanta gli amici Mark Mulcahy e Raymond “Mr. Ray” Neal suonano batteria e chitarra in diversi gruppi di New Haven, Connecticut. Quando decidono di scrivere assieme, il primo tira fuori quaderni pieni di parole, si piazza al microfono e la strana coppia funziona. Nel 1983 i due adottano la ragione sociale definitiva, una delle cento copie del demo A Simple Thing plana sulla scrivania di “Sounds” e per uscire dalla cantina serve una sezione ritmica. Detto, fatto. Un altro anno e la Incas del manager Brad Morrison stampa The Backyard, sfavillante mini-LP che dipana nostalgia e ricordi su intrecci chitarristici, passo squadrato, una voce profonda e tremolante.

L’innodica title-track, una meditativa Say Hello, l’inquieta Butterflies e il notturno acustico Stephen, Are You There? conquistano il cuore e i critici ma il seguito si fa attendere parecchio. Un concerto dopo l’altro, i ragazzi affinano intesa e repertorio, poi firmano con la Rough Trade e nell’87 Surprise Surprise Surprise poggia su strutture complesse e arrangiamenti dediti all’intarsio malinconici mid-tempo (Country Boy, Mr. Mingo), ballate accorate (Truly, Little Man), gioielli come la cantilena in ripartenza Paradise, il crescendo Wonderment, la fenomenale psych-wave di All For The Best. Dopo l’EP Glad, però, i Miracle Legion sono di nuovo Mark, Ray e basta.

The Backyard

Senza perdersi d’animo, i due vanno in tour con gli Sugarcubes e registrano in perfetta solitudine Me And Mr. Ray. Mossa azzeccata, ché il robusto minimalismo si addice alle cupezze di Pull The Wagon e all’ipnosi di And Then?, alla filastrocca You’re The One Lee e al country-rock The Ladies From Town, a una Sailors And Animals visionaria e a una vibrante Gigantic Transatlantic Trunk Call. Oltre la cerchia degli appassionati non lo nota nessuno, Rough Trade fallisce e nel 1992 i Miracle Legion tornano un quartetto passando alla Morgan Creek, una casa cinematografica californiana decisa a trarre profitti dal boom indie. Supervisionato da John Porter, già in regia con gli Smiths, Drenched avrebbe qualche possibilità grazie alle raffinate Snacks And Candy ed Everything Is Rosy e alle luccicanze Little Blue Light, Sea Hag e Out To Play.

Per ragioni ignote l’etichetta non lo promuove, abbandonando i Nostri fino al 1996 del commiato autoprodotto Portrait Of A Damaged Family. Poi Neal si trasferisce in Scozia per amore e Mark adotta la sigla Polaris per i brani del programma televisivo The Adventures Of Pete & Pete. Qualche tempo dopo la tragedia cui accenno in apertura, Mulcahy viene raggiunto dall’amico su un palco britannico e voilà. Il “Record Store Day” 2016 saluta la ristampa di Portrait Of A Damaged Family, quell’estate la reunion è ufficializzata con una tournee e riassunta la primavera seguente dal live Annulment. Per non farsi mancare nulla, sappiate che intanto quel bel tipo di Mulcahy ha rimesso in pista anche i Polaris. Tanta tenacia andrebbe infine premiata, non credete?

Bentornati al medicine show

Benché zoppicante e rattoppata, la democrazia è il sistema di governo nel quale viviamo e conviene averne la massima cura, perché tra tante altre cose garantisce la libertà di pensiero ed espressione. Ognuno può più o meno pensarla come vuole su qualsiasi tema, dalla nazionale di calcio alle famigerate reunion. Tema spinoso e complesso, quest’ultimo, poiché se Wire e Feelies tuttora dispensano lezioni di ingegno, più spesso che no assistiamo a faccende patetiche per le quali risulta difficile spendere elogi o un minimo di benevolenza. Almeno così è per il sottoscritto, considerando che al mondo esiste pure chi si inebria di nostalgia canaglia e problemi non ha.

Fra i due estremi ci sono poi artisti che riannodano i fili che furono con il senno di quanto accaduto nel frattempo. Da questa delicata operazione può nascere un equilibrista che cammina disinvolto sul filo tra ieri e oggi. Tuttavia non sempre la si azzecca al primo tentativo. Nel caso dei Dream Syndicate “anni dieci”, il fresco di stampa The Universe Inside indica che How Did I Find Myself Here? These Times siano stati i passaggi intermedi per giungere a uno stile che non si arrendesse alla rievocazione. Gesto da applaudire anche solo per la serietà e il rispetto verso se stessi e il pubblico, non vi pare?

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Un gesto necessario, anche. Perché se in line-up c’è un chitarrista abile (Jason Victor) ma diverso dai predecessori, devi adattare il linguaggio sonoro. E allora accogli in pianta stabile il vecchio amico tastierista Chris Cacavas e, forte della comprovata solidità ritmica di Mark Walton e Dennis Duck, convochi un fiatista e un percussionista. Entri in studio, attacchi la spina e vedi cosa succede. Succede che infine (ti) trovi. Succede che sposti le chitarre un passo indietro, però conservi la ruvida meraviglia della neopsichedelia impastandone il lato più free con jazz cosmico e krautrock. Steve Wynn è pur sempre il curioso onnivoro che cantava del blues di John Coltrane ed ecco che, mutatis mutandisThe Universe Inside vive della febbrile creatività e della grandezza autoriale appartenute a The Medicine Show. 

Registrato in diretta e successivamente “montato” ispirandosi al lavoro di Teo Macero con Miles Davis, il disco svela subito la rivoluzione in The Regulator, venti minuti di sensazionale cavalcata motorik dentro una giungla urbana di chitarre, voci, sax e il sitar dell’ospite Stephen McCarthy. Grossomodo, un’ipotesi di Can che in California mescolano On The Corner e Velvet Underground, risacche e impennate, codeina e anfetamine. Non vale meno il resto, dall’ombrosa ballata The Longing al groove acido misto country siderale di Apropos Of Nothing passando per quella ipnosi vibrante che in Dusting Off The Rust guida un funk-jazz elettrizzato ed elettrizzante. Approdo conclusivo The Slowest Rendition, tesa astrazione con l’eco di For Your Pleasure nell’aria. C’è stato un tempo per giorni di vino e rose e un tempo per storie di fantasmi. Adesso abbiamo un universo interiore nel quale perderci. Roba da non credersi. Roba da medicine showmen.

Texas Instruments: radici nell’infinito

Non deve essere male vivere ad Austin. Capitale del Texas dal lontano 1839, riposa sulle rive del fiume Colorado tra laghi artificiali e colline rocciose vantando una vivace scena musicale. Caratteristica che mi permette di introdurre al volo un gruppo che prese il nome dall’omonima casa produttrice di calcolatori allorquando la new wave sfumava in una faccenda esaltante per comodità definita rock alternativo. David Woody (chitarra), Ron Marks (basso) e Steve Chapman (batteria) erano ragazzi che – similmente a tanti altri sparsi nella provincia statunitense – navigarono alla riscoperta di un passato e, nell’indifferenza del grande pubblico, seppero reinventarlo senza rendersene conto.

Folk e hard, slanci acidi e ipnosi post-punk, ammiccamenti ai Settanta e un ribollire ritmico parente dei Minutemen (omaggiati sul secondo LP rileggendo Life As A Reharsal) disegnavano i confini di un terreno spesso confinante con quello presidiato dai fratelli Kirkwood. Sarebbe tuttavia ingiusto ridurre i Texas Instruments a epigoni meno talentuosi dei Meat Puppets e/o dei Giant Sand: dai loro dischi migliori affiora un’interpretazione intrigante il giusto dell’ineffabile “estetica desertica” che trasformava miraggi in canzoni. Date loro una chance e garantisco che non vi deluderanno.

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Corre il 1983 quando il trio esce dalla cantina per lanciarsi a testa bassa nei locali di Austin. Ventiquattro mesi di serrata attività ripagano con la coesione e la robustezza sfoggiate dall’autarchico EP More Texas Instruments! La formazione predilige cadenze pacate e attende lo stesso lungo intervallo per esordire a 33 giri, dando nel frattempo una mano a Daniel Johnston per il nastro Continued Story. Ben ponderato, l’album omonimo (edito come il successore dalla Rabid Cat) può fondere muscoli e cervello giocando disinvolto tra impatto e raffinatezza. In un programma privo di cadute spiccano Call And Response, Prussian Blue, No Wonder I’m Confused e Girl Like You, mentre le travolgenti cover di Do Re Mi (Woody Guthrie) e A Hard Rain’s A-Gonna Fall sistemate in chiusura paiono eseguite da un Fogerty punkettaro.

Le promesse di grandezza trovano pieno compimento nell’oppiaceo, policromo Sun Tunnels, forte nel 1988 di una scanzonata You Ain’t Going Nowhere sottratta ancora a Dylan, del pigro folk Little Black Sunrise, del boogie‘n’roll modernista A Seascape Scapegoat, di una The Daily Image che strapazza il sixties pop britannico. Facce complementari della medesima, splendida moneta sono il citato tributo ai Minutemen e le scintillanti ipotesi di Hüsker Dü sotto LSD The Thing In Apartment B e Some Kinda Surprise, l’ondeggiare flessuoso di Floating Off To Greenland e una title-track che alterna estasi a impennate. Capolavoro cult? E sia.

sun tunnels

L’anno seguente il chitarrista Clay Daniel si aggiunge alla line-up mentre fervono i lavori al terzo LP. L’etichetta però fa bancarotta e Crammed Into Infinity esce su Rockville solo nell’autunno 1991, restando giocoforza schiacciato dai “pesi massimi” di una vendemmiata irripetibile. Un vero peccato perché atmosfere un poco più roots sfociano negli incantevoli folk-rock alla R.E.M. prima maniera del brano omonimo e di Hanging By A Thread, in un’articolata World’s Gotten Smaller, negli aromi blues di Big White Horse, in una She’s Not Free indirizzata sulla malinconica traiettoria che conduce da The Band agli Wilco. Altri due calendari e un passaggio alla Doctor Dream nel mezzo, Magnetic Home accusa il colpo in termini di brillantezza e scrittura, laddove il dignitoso Speed Of Sound segna la resa a metà dei Novanta.

Troppo obliqui sia per il grunge che per il movimento “No Depression”, i nostri spossati eroi si separano anche perché la multinazionale di cui sopra ha intentato causa, vinto e piantato l’ultimo chiodo nella bara. Non siamo in molti a ricordarci di loro, tuttavia (ri)scoprire i Texas Instruments è d’obbligo qualora la “tradizione reinterpretata” sia il vostro pane quotidiano. Da una sognante e tranquilla dimensione parallela, il bagliore traslucido di Floating Off To Greenland e Hanging By A Thread ribadiscono quanto la vecchia scuola indie americana costituisca un esempio di intelligenza, stile e creatività indenne allo scorrere del tempo. Avercene di gente così, oggi.

My Paisley back pages

Prima o poi le radici ti trovano. Un giorno, quando la vita ha rifilato una certa dose di schiaffi e carezze, nello specchio all’improvviso scorgi le fattezze di tuo padre o di tua madre. Quasi. Il retaggio ti ha fregato e sai che è giusto. Come è altrettanto giusto che esistano dischi e dischi, da quelli che esaltano cuore e cervello a quelli che ancora non sai bene che ci facciano sullo scaffale. Nel mezzo ogni possibile sfumatura e in primis certi toccasana dell’anima che non lasciano mai soli, siccome prima o poi le radici eccetera.

Ecco: il teenager “avveduto” degli ‘80 ha sognato una California diversa da quella appartenuta a zii e fratelli maggiori. L’Eldorado contemporaneamente vicino ai fab sixties, al post-punk e al domani stava dall’altra parte del globo, tuttavia sa iddio quanto e come e in che meravigliosa maniera lo sentivamo vicino noi che consumavamo Emergency Third Rail Power Trip, The Days Of Wine And Roses e All Over The Place. Perché qualcuno si ispirava a vinili custoditi e venerati come reliquie e mentre conservava la tradizione – gesto necessario in era pre-Internet – ne cavava dell’altro. Metteva del suo in favolosi arazzi da smarrircisi dentro tuttora, storditi e felici.

paisley family

Chiedi cos’era il Paisley Underground e dirò lisergia senza sbrodolate, policromie chitarristiche che diverranno un pilastro del college rock, luce abbagliante nell’attualità. Da un bel po’ infatti c’è psichedelia nell’aria: devono essersene resi conto Bangles, Dream Syndicate, Three O’Clock e Rain Parade ascoltando la propria lezione estetica e attitudinale in decine di contemporanei. Lì forse la scintilla che nel dicembre 2013 spingeva a una rimpatriata live tanto riuscita da instillare l’idea di un album di reciproche riletture. Dai tempo al tempo e lui, galantuomo, farà giustizia.

Ciò premesso, 3×4 è cosa diversa dal mitico Rainy Day nello stesso modo in cui i figli maturi si discostano dai genitori. Fuor di metafora: l’irripetibile Rainy Day celebrava la comunanza e l’amicizia della “scena” congelando nel presente un passato indiscutibilmente glorioso; le cover di 3×4 sottolineano la classicità di canzoni che i medesimi amici forgiarono trasfigurando proprio quel passato.  Oggi, questa musica ha una propria storia e sa benissimo da dove proviene e che percorso ha compiuto. Alla fine, incastrato in uno di quei magnifici cortocircuiti che a volte crea la musica popolare, capisci che sulla sua Grandezza non vi erano dubbi sin dall’inizio.

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Di conseguenza tutto ha qui un senso. Le Bangles accentuano la cupezza vellutata di That’s What You Always Say conducendola dalla parti di Dancing Barefoot, cavalcano il nerbo melodico di Jet Fighter e rendono Talking In My Sleep un byrdsiano sogno più giovane di ieri. I Rain Parade avvolgono Real World in coltri di malinconia oppiacea, trasformano When You Smile nella splendida continuazione di No Easy Way Down e scintillano estatici con As Real As Real. Il Sindacato del Sogno sferraglia lungo la Hero Takes A Fall dedicata giustappunto a Steve Wynn, si appropria con classe di You Are My Friend e risale energico alla She Turns To Flowers incisa nel 1982 dai Salvation Army.

I quali furono l’anticamera dei Three O’Clock, bravissimi qui a correggere il loro cocktail pop con power (Tell Me When It’s Over), sunshine (What She’s Done To Your Mind) e garage (Getting Out Of Hand). Il tutto senza un singolo minuto di nostalgia canaglia, vacui karaoke o mero mestiere. Nell’epoca in cui la retromania è un comodo paravento per le mezze seghe e le chitarre sono date per spacciate – sveglia: ogni forma d’arte lo è in mano a dei pagliacci! – fatevi un favore: fiondatevi su 3×4. Qualsiasi età abbiate, ascolterete musica pura per gente di oggi. Amen.

Galaxie 500: la nostra musica, oggi

Breve esercizio di scienza dell’ovvio: l’anima sonora dei Velvet Underground era duplice però complementare. Stordenti orge rumoriste e spettri folk urbani si sposavano in albe color neon tramite innocenze smarrite, seducenti ambiguità e cocci di sogni. Tra cento altre faccende, questa Arte concreta e priva di prosopopea ha dato forma alla new-wave, al pop chitarristico di scuola Postcard/Creation, al rock prefissato indie e post, a shoegaze e slowcore. E a una band americana che in coda agli ‘80 fuse o precorse tutto ciò, pescando sintassi e grammatica di discorsi personali da un’educazione sentimentale eclettica, delineata in cover che – da Young Marble Giants a New Order passando per George Harrison, Rutles, Sex Pistols, Buffy St. Marie… – erano geniali trasfigurazioni come oggi non se ne ascoltano quasi più.

I Galaxie 500 tagliavano all’osso canzoni con un’invidiabile senso della dinamica. Le costruivano su pochi accordi, una voce fragile, il melodiare condotto da un basso debitore a Peter Hook, la batteria ancorata su spazi jazz e piatti oceanici. Meraviglie di essenzialità zen pronte a mutare la quiete in maree dove naufragare è dolcissimo. Forse è questo – oltre alla conclamata Classicità – che spiega le periodiche riedizioni del catalogo, tornato disponibile nel 2010 in uscite separate a poco meno di un quindicennio dall’omnicomprensivo box 1987*1991 e dal live Copenhagen, laddove un lustro prima il CD Peel Sessions fu un gran bel regalo per noi fan.

galaxie up

Lo scioglimento del trio fu un autentico trauma per tutti, inclusi i diretti interessati che vissero sulla pelle le amicizie in frantumi (tuttora le opposte fazioni comunicano solo via e-mail: almeno ci sarà risparmiata la reunion…) e l’amara chiusura di un’avventura iniziata nell’estate 1987. Dean Wareham, chitarrista e cantante neozelandese trasferitosi adolescente in America, fonda il gruppo a Boston con i compagni di studi Damon Krukowski e Naomi Yang, lui un eclettico dietro i tamburi e lei una bassista autodidatta. Tratta la ragione sociale da un modello di auto della Ford, si fanno le ossa dal vivo finché un demo ottiene buoni riscontri presso alcune radio locali. Decisi a misurarsi col vinile, si avvalgono del geniaccio Kramer in regia per l’epocale folk-gaze Tugboat e la sommessa King Of Spain.

Un anno dalla nascita della Galassia, eccole su un 7” blu della Aurora, piccolo marchio gestito da un amico. Hanno coronato un sogno, nondimeno rientrano negli studi Noise New York dell’ex Shockabilly – ed essenziale quarto elemento – incidendo materiale bastante a un LP. Dal novembre 1988 Today custodisce così false monocromie (Flowers, Tugboat) e liquidi incastri (It’s Getting Late, Pictures, Temperature’s Rising), colpi d’ala (Oblivious: Dylan accompagnato dai Go-Betweens) e una languida narcosi che, immaginando Reed e Cale sereni coetanei dei Feelies, illumina i Modern Lovers usando alla propria maniera gli arnesi della Gioventù Sonica. Riconoscibili gli ingredienti base, la ricetta possiede un sapore straordinariamente unico.

On Fire

E’ insomma pura magia cui non sottrai una nota, una pennellata, una distorsione tanto è perfetta. Magia che ora necessita di una scuderia dalle potenzialità superiori e nell’89 spetta a Rough Trade (che aveva stampato l’esordio in Europa) benedire il Capolavoro On Fire. Dai vibranti crescendo Blue Thunder e Decomposing Trees alla filastrocca Tell Me, dalla commovente innodia di Strange all’onirico wah-wah che attraversa Snowstorm, dalla vetrosa Another Day al paisley-wave che si guarda le scarpe Leave The Planet emerge il canone che influenzerà frotte di discepoli, su tutti quei Low che presto saliranno in cattedra.

Tuttavia le incomprensioni tra lo scostante Wareham e una coppia frattanto unitasi nella vita degenerano in rancore. Delle tensioni This Is Our Music non reca traccia. Di fascino maturo sì, specie negli incanti Fourth Of July e King Of Spain Part 2, nelle ipnosi Summertime e Melt Away, nelle bucoliche Hearing Voices e Way Up High, nella superba rilettura di Listen, The Snow Is Falling della vedova Lennon. Il precario equilibrio regge fino alla primavera ’91: in corso trattative con la Columbia, all’improvviso Dean lascia.

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Mentre Geoff Travis salta in aria, gli uni curano le ferite e una propria casa editrice. Tornano come Pierre Etoile – “rock star” in francese: non lo trovate spiritoso? – per un estemporaneo, pregevole EP; poi, oltre la parentesi Magic Hour con ex membri dei Crystalized Movements, si dedicano alla meravigliosa folkadelia di Damon & Naomi. L’altro abbiglia i Luna con l’apprezzabile stoffa post-velvetiana proposta anche nei lavori assieme alla consorte Britta Phillips, pubblicati a nome Dean & Britta in un parallelo che non so se ironico, rancoroso o freudiano…

Confesso che a volte immagino di esserci stato anch’io all’asta per il fallimento di Rough Trade. In fondo alla sala, osservo Damon riscattare i master originali a mo’ di risarcimento per le royalties mai ricevute. Seppur con un velo di amarezza, sorrido. Perché so che questo è il giorno in cui i Galaxie 500 entrano definitivamente nella Storia. Venerati Maestri di una statura che cresce anno dopo anno con sussurrata costanza, ci hanno consegnato sfoglie emotive nelle quali perdersi come dentro certi abbaglianti tramonti d’inverno. Impossibile non amarli, se si ha un cuore.

 

Acid wonderland: la psichedelia modernista dei Plasticland

Un trentennio abbondante dopo i fatti e sulla neo-psichedelia degli ’80 ancora si discute. Di nuovo in auge grazie a Black Angels, Warlocks e compagnia bella e schitarrante, in realtà quel fantastico mutaforma che amo definire acid style non è mai svanito da che ci lanciavamo in animate polemiche su “recuperi” più o meno creativi. Col dovuto distacco, oggi il quadro pare più ampio e bravo il collega Roberto Calabrò nell’escogitare la definizione neo-sixties: solo così contestualizzi adeguatamente e meritatamente chi, allo sfiorire della new wave, pescava nella memoria idee da adattare al presente.

E se talvolta fu revival e basta, bene lo stesso, ché altrimenti una certa tradizione si sarebbe perduta in era pre-internet. Non in questo specifico caso, poiché in mezzo alla California del Paisley Underground e ai garage newyorchesi si stendevano miglia di provincia dove il decentramento favoriva un approccio personale. Esempi a poli opposti di notorietà la Athens dei R.E.M. e Milwaukee, dimora degli alchimisti di Plastilandia.

plasti paisley

Autentici temerari nei primi Settanta John Frankovic (basso) e Glenn Rehse (voce, tastiere, chitarra), allorché nella città dei birrifici e di “Happy Days” mischiavano psichedelia, jazz e rumore come William The Conqueror. Uno adora Canterbury e il krautrock, l’altro ha numi tutelari in Blue Cheer, MC5 ed S.F. Sorrow e in tale eurocentrica mescolanza trovo molta singolarità futura. L’hard rock li spinge a reagire ripartendo con gli ostici Arousing Polaris, i quali chiudono bottega a inizio 1980. In estate rinascono Plasticland e Mink Dress/Office Skills – primo di cinque 7” autoprodotti – infila il lato A tra Tomorrow, July e Pink Floyd mentre il retro fonde stridori e melodia in scia a Soft Boys e Television Personalities.

Nel maggio 1981 l’EP Vibrasonics From Plasticland offre elaborate cartoline acide ed ecco arrivare la sei corde di Brian Ritchie. Ammiratore di lungo corso, Brian suona soltanto nel popedelico, orientaleggiante e imperdibile Color Appreciation/Mushroom Hill dell’aprile ’82 e poi forma i Violent Femmes. Lo rimpiazza l’abile Dan Mullen e, malgrado il costante valzer di batteristi, i Plasticland impressionano per l’eclettismo e la preparazione superiori lasciate in dote dall’età e dalla lunga gavetta.

plasticland

Suggello della prima fase l’EP Pop! Op Drops (apici lo scontro Bo Diddley/Tomorrow di Garden In Pain e il basso energico sotto al derapante fuzz in Drive Accident Prone) e il garagismo pastello di Euphoric Trapdoor Shoes/Rattail Comb. Nel 1984 infatti Glenn e John convincono la francese Lolita ad assemblare un 33 giri ripescando buona parte di quanto sopra (potete recuperare il materiale escluso con demo e rarità sul consigliato CD Mink Dress And Other Cats). Nonostante la logica e lieve disorganicità, Color Appreciation vanta una scrittura stravagante priva di forzature e radici messe in policromia su bianco rileggendo Pretty Things e Pinkerton’s Assorted Colours.

Plasticland sarà la versione per la madrepatria con la scaletta ritoccata: pubblica la Pink Dust, sottomarca Enigma che l’anno seguente piazza sotto il vischio il “vero” debutto Wonder Wonderful Wonderland. Suoni pastosi e produzione accurata incorniciano la filastrocca Don’t Let It All Pass Bye e la spigliata Flower Scene, il prestito dai Can Grassland Of Reeds And Things e il fumigare di Gloria Knight, la title-track dove Brian Wilson si aggira impaurito e una Transparencies, Friends dove perfino scorgi gli Stereolab.

plasti salon

Saldato il conto con El Syd rifacendo Octopus sul tributo Beyond The Wildwood, tre decenni or sono Salon conduceva le sonorità in una dimensione un po’ più terrena. Scherzosamente annunciato come “Motown oriented”, sistema in tralice le nervature black escogitando il frizzante beat Go A Go-Go Time e il Beefheart moderno di Don’t Antagonize Me, l’immaginifico freakbeat It’s A Dog’s Life e i trip maligni A Quick Commentary On Wax Museums e We Can’t. Per tacer delle Reserving The Right To Change My Mind e House che, calcando la mano su esecuzione e sonorità, preconizzano i Black Angels maturi. Sogno o son desto?

Immediato il declino a fine decennio: fiacchi i live su Midnight You Need A Fairy Godmother con Twink e Confetti, dimesso il commiato in studio Dapper Snappings uscito postumo nel ‘94. In parallelo alle carriere soliste dei leader, la sigla coprirà una sporadica attività dal vivo dal 2008 portata avanti dal solo Rehse più comprimari. Passo oltre consigliando ai pigri l’antologia Make Yourself A Happening Machine. Per la plasticmania basterà loro un ascolto. Parola d’onore.