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Mezzo secolo Bianco

They say it’s you birthday, we’re gonna have a good time.

Nella vita arriva un momento in cui ti stupisci di quanto tempo è trascorso da certi avvenimenti che hanno lasciato il segno. Grossomodo coincide con lo scorrere sempre più rapido della sabbia nella clessidra, quando non sai più se sia questione di percezione o se davvero le cose viaggino a doppia velocità. I pomeriggi infiniti di quand’eri ragazzino non possono essersi dissolti così, lasciando il posto a giorni che in un lampo scivolano nelle settimane e settimane che si trasformano in mesi e mesi in anni. O forse sì. Quando poi nella giostra sai che è uscita l’ennesima versione “deluxe” di un disco che ami, qualcosa capisci. Capisci che l’Arte è una barriera contro Crono; che quando tutto è fruibile simultaneamente, spesso le cose sono fraintese per mancanza di prospettiva e un contesto non ricostruibile a posteriori; che il mezzo secolo resta comunque un traguardo importante nella cultura pop.

beatles garden 1

Nel novembre di cinquant’anni fa, il Gruppo più grande di gesù tirò le fila di ciò che aveva in larga parte plasmato. Lo fece con quattro facciate di vinile che scagliavano strampalate, lucenti biglie in tantissime direzioni. Tuttora strabilia il White Album, per come è enciclopedicamente riassuntivo ma anche avant mentre mostra quattro icone restituite a se stesse. Prodigiosa parabola, la loro, compressa in uno spazio dove in fretta dei ragazzi divennero Cesari moderni. Il doppio bianco lo trovate là, in cima, ennesimo Capolavoro nel percorso iniziato dal beat allo stato dell’arte di Rubber Soul e proseguito con il domani a chiare lettere di Revolver e lo snodo lisergico tra sogno e incubo di Sergent Pepper’s….

Un percorso da Divinità che nel ‘68 affrontano la crisi e l’unità che si sgretola attorno e dentro, però traendo energia da contrasti, delusioni e incazzature reciproche. La band si era infranta contro la realtà e un’intera epoca, con le sue aspettative e i suoi ideali, si apprestava suo malgrado allo stesso destino. Nondimeno, lo sfascio fu apparente: i Sessanta rappresentano ancora il monolito nero del Novecento perché in noi perdura l’eredità del loro benefico, pirotecnico impatto. Per fortuna. Lo stesso vale per un’opera che si poneva come una tabula rasa sin dal “non titolo” e da una copertina totalmente bianca. Gesto che traduco in una tela affidata all’ascoltatore, in un punto a capo di già punk a capo. Le enciclopedie non vantano copertine colorate, giusto? E non è forse il futuro un’ipotesi da riempire di idee e visioni? Ragion per cui…

white album

Ragion per cui tutto quadra. Quadrano il collage fotografico allegato in un richiamo visuale delle sonorità; quadrano i ritratti dei Beatles separati, accigliati, calati nell’introspezione e nel privato reso pubblico dei ‘70. Finita l’era del we all live in a yellow submarine, la “revolution” scandaglia l’io e, pur senza dimenticare il mondo circostante, si fonde all’ansia di fine decennio. Da qui l’alienazione sorridente e gli stridori latenti e pertanto ancor più inquietanti che vengono a galla. Da qui l’abilità a sfruttare l’imprevisto. Da qui pagine straordinarie che inventano Hüsker Dü (Helter Skelter) e slowcore (Long Long Long), preconizzano la new wave (la complessa frenesia di Everybody’s Got Something To Hide… un’anticamera dei Feelies; l’assonnata, irresistibile I’m So Tired), il college-rock (del nonsense pythonesco Wild Honey Pie i Pixies incrementeranno squilibrio e volume; le Breeders riveriranno Happiness Is A Warm Gun), le melodie sghembe di Nirvana e Soundgarden. Assume così un altro senso l’evidenza che il Bianco sia l’album beatlesiano più venduto negli Stati Uniti.

Aggiungete un profondo senso della Storia e il saper padroneggiare linguaggi distanti con piglio da Maestri ed ecco cortocircuiti che sottraggono Chuck Berry ai fratelli Wilson (Back In The U.S.S.R.), psichedelia West Coast (un’immensa Dear Prudence ripresa da Siouxie e camuffata dagli Smiths) oppure britannica (Cry Baby Cry cammina sull’asse Lewis Carroll/Syd Barrett, Glass Onion profuma di XTC maturi), schizzi giamaicani (Ob-La-Di Ob-La-Da), pessimismo barocco (Piggies), vibrazioni errebì (Savoy Truffle, Why Don’t We Do It In The Road?).

E ancora: dolcezza acustica (I Will, Julia), satire di cantastorie americani (The Continuing Story Of Bungalow Bill, Rocky Raccoon) e del country (Don’t Pass Me By), dodici battute esistenzialiste (Yer Blues), hot jazz e vaudeville (Honey Pie), un rock che rolla trascinante (Birthday), si racconta sardonicamente impegnato (Revolution 1) e addolora, sublime (While My Guitar Gently Weeps). Se le magnifiche oasi folk Mother Nature’s Son e Blackbird rappresentano l’humus della Perfezione Pop di Martha My Dear e Sexy Sadie, l’hollywoodiana Good Night chiude la porta delle milioni di case in cui ha fatto irruzione lo Stockhausen di Revolution 9.

fighting beatles

Casomai quanto sopra non dovesse parervi geniale, arrivederci e grazie. Benissimo così, il mondo è vario e comunque non mi fido di chi non apprezza i Beatles. Mi fido del White Album e di una Bellezza viva e pulsante con la quale salutarono l’istante lunghissimo che avevano vissuto, costruito, sopportato. Dopo di che toccherà all’elevata accettazione di Let It Be e Carry That Weight scrivere la fine. Sigillata la cronaca, nasce il Mito. Intanto, un disco perennemente cangiante e fedele a sé si espande dentro un goccia spezzata in quattro. Una goccia che, a ben ascoltare, si ricompone nell’eternità.

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