Brividi pop maniacali: That Petrol Emotion

A noi romantici piace voler bene a certi gruppi ignorati da fama e fortuna. Perché molto spesso non riesci a incasellarli, ti conquistano con idee limpide e belle canzoni, precorrono i tempi e infine si collocano in una bolla di classicità eterna, a rafforzare la convinzione che lo spirito multiforme per comodità chiamato “rock” possegga ancora delle potenzialità. Per forza di cose meno oggi che nei pieni anni Ottanta, dove tra banalità modaiole e avanzi di antichi fulgori un underground genuino scriveva capitoli importanti ovunque. In Inghilterra, gli esemplari That Petrol Emotion ebbero infatti un successo più modesto rispetto a nomi come Smiths e Jesus And Mary Chain e paiono rimossi o quasi. Lontani dalla provocazione gratuita e dal ribellismo teatrale, pagarono prese di posizione sociopolitiche chiare e scomode, rimanendo sulla soglia di un’esplosione definitiva che non giunse.

Tanto per dire: rifiutarono due volte l’offerta degli U2, che li volevano come spalla dal vivo, perché a loro avviso Bono e soci potevano fare di più per la questione irlandese. Ma diciamolo pure: chi può andare in giro ancora a testa alta? Ecco, appunto. Nobile lignaggio quello dell’Emozione di Benzina, per due quinti discendente in linea diretta dagli Undertones. John O’Neill ne era chitarrista e autore, e dopo lo scioglimento traffica nella natia Derry (Irlanda del Nord) su un nuovo progetto con Raymond O’Gormain, anch’egli chitarrista. La cosa assume forma più definita nell’autunno 1984 con l’altro O’Neill (Damian: sei corde solista nei punk preferiti da John Peel, qui imbraccia il basso) e Ciaran McLaughlin dietro tamburi e piatti.

TPE

Traslocati a Londra, trovano un cantante nell’americano Steve Mack ed entrano nel circuito concertistico sfruttando il nome ancora caldo degli Undertones. Buono il riscontro per sonorità nelle quali impegno politico e ruvida poesia si saldano a un peculiare gusto melodico e all’esecuzione abrasiva e vigorosa. Un filo acerbo il 7” di debutto Keen, nel settembre 1985 l’autoprodotto EP V2 è il passo avanti che procura un contratto con la Demon. La primavera successiva saluta l’avant pop capolavoro di Manic Pop Thrill, che con la supervisione dell’esperto Hugh Jones porge chitarre mulinanti (Cheapskate), ipotesi di Fall virtuosi (Fleshprint, Circusville) e saggi di naturale complessità (Lettuce, Lifeblood).

La raffinata irruenza di Can’t Stop e i Television asciutti di It’s A Good Thing pongono in risalto la quieta Blindspot e il delizioso valzer Natural Kind Of Joy, ma è l’intero programma a vibrare di un fervore creativo che trasforma la new wave e i suoi antesignani (A Million Miles Away è seducente folk velvetiano, Mouth Crazy un vigoroso post-garage) nel punto di partenza per una fusione assai originale tra istinto e cerebralità. Entusiasta la stampa, il disco raggiunge la cima della chart indipendente inglese, fa capolino nei Top 100 generalisti e apre la caccia delle major. A spuntarla è la Polydor e l’aprile ’87 saluta il sensazionale indie-funk Big Decision, che occhieggiando al rap traina l’LP Babble alla trentesima piazza. Confezionato nelle pause tra due tour col produttore Roli Mosimann, enfatizza l’impatto ritmico e divide viepiù gli oneri compositivi alternando l’orecchiabilità obliqua di Swamp, Spin Cycle e Belly Bugs al cupo lirismo che avvolge For What It’s Worth e Inside.

manic pop thrill

Di nuovo, nessun compromesso: se la busta interna del predecessore riportava un saggio sul feudalesimo in Irlanda, qui condanna le leggi antiterrorismo di Sua Maestà. Sovversivi nel sistema? Troppo bello perché duri. All’ostracismo radiofonico l’etichetta risponde chiedendo hit: grazie a un cavillo contrattuale, i ragazzi passano alla Virgin pubblicando poco ma bene. Il singolo Genius Move, interventi su tributi a Beefheart e Johnny Cash e il mini Live non possono comunque smuoverli da uno spossante stallo. La lavorazione del “difficile terzo album” ha luogo in un clima di tensione crescente e alla fine John getta la spugna. La defezione non sarà indolore. End Of The Millennium Psychosis Blues chiude gli eighties confermando Mosimann e la congenita impossibilità del gruppo a essere normale. Accolto con qualche mugugno, apparecchia invece una saporita sorpresa che aggiunge elementi funk, hip-hop e dance alla collaudata ricetta.

Groove Check spedisce al tappeto i B.A.D., Here It Is…Take It! omaggia Sly & The Family Stone, la meravigliata Cellophane concede influenze celtiche e Tired Shattered Man scopre venature jazz. Tuttavia i That Petrol Emotion sono precursori sin troppo perfetti e anticipano il fenomeno “Madchester” – ascoltare per credere Sooner Or Later e Tension – senza poterne cavare benefici commerciali. Il timone passa a McLaughlin e O’Gormain e i ’90 si aprono sul più levigato Chemicrazy, ma neppure la regia di Scott Litt evita l’ennesimo buco nell’acqua e il licenziamento. Un triennio e Fireproof chiude discretamente i giochi con un’autoproduzione e un nuovo primato di vendite indie. Lo zoccolo duro dei fan non basta più, ci si saluta amichevolmente e sarà di scarsa rilevanza quanto pervenuto dagli ex membri e dalla reunion (senza John O’Neill) del biennio 2008/2009. Faccende pleonastiche, laddove i primi tre dischi suonano tuttora unici. It’s a good thing, oh sì!

4 pensieri riguardo “Brividi pop maniacali: That Petrol Emotion”

  1. Bello e ben fatto al solito l’articolo. Gruppo assolutamente da riscoprire, purtroppo quasi rimosso dalla memoria però con canzoni notevoli. Certo non essere saliti sulla rampa di lancio U2 ha pesato non poco sulle future ambizioni.

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      1. Ho il primo in vinile, preso al tempo e mi piacque.
        Domanda: il secondo ne vale la pena? Lessi le recensioni e mi convinse l’acquisto. Tu che ne pensi? Grazie.

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