Cosa ci saremmo persi se Ryland Peter Cooder non fosse mai nato… Per attenermi all’indispensabile: un musicista poliedrico che odia i virtuosismi; un compositore di colonne sonore per lo schermo e la mente; un’enciclopedia dell’Americana dalle radici alle ali e ritorno; un infaticabile indagatore di culture. Aspetti complementari del Genio che ritrovo esplicitati o tra le righe in The Prodigal Son, lavoro fresco di stampa con i crismi del sunto di carriera. Del gesto che prova a fermare la clessidra con l’unico mezzo disponibile a un essere umano: l’Arte.
Un’Arte tanto più pura quanto più si contamina, pescando dal fluire del tempo e nel tempo accomodandosi mentre parla degli Stati Uniti, di storia e leggenda, di spiriti e spirituals. Che si tratta di un auto-compendio lo provano il ritorno del settantunenne a trascorsi metodi di registrazione e il dominio quasi assoluto sul parco strumenti, con giusto un paio di ospiti e batteria e coproduzione affidate al rampollo Joachim. Soprattutto, lo sguardo rivolto a quando iniziava a donare nuova linfa alla tradizione, trattenendone i significati e travasando la contemporaneità in una sapienza musicale assoluta.
Ora come allora, è il passato che spiega dove sta (e stiamo) andando. Lontano, vi dico, perché questi cinquanta minuti si aggiungono all’epopea di Chavez Ravine e all’Esopo traslocato nella Grande Depressione di My Name Is Buddy. Senza nulla togliere al discreto I, Flathead e completando il quadro con lo sbocciare di una rimarchevole cifra autoriale, sono un altro pugno di istantanee così antiche da essere più che mai vive.
Per loro tramite, l’uomo di Santa Monica tira le fila di una fulgida vicenda lunga più di mezzo secolo, che dai Rising Sons – via Captain Beefheart e Randy Newman, Little Feat e Van Dyke Parks e Stones – plana nel cuore di una carriera solista partita (e qui il cerchio si chiude perfetto) affrontando proprio Blind Willie Johnson e Woody Guthrie. Poi sarebbero giunti tex-mex, gospel, soul, le Hawaii, il Buena Vista Social Club, Talking Timbuktu… In giorni più vicini, un libro di racconti e l’impegno politico di Pull Up Some Dust And Sit Down ed Election Special. Tuttavia la fonte era e resta l’anima di un uomo. Il blues.
The Prodigal Son lo inzuppa in gospel e country su consiglio di Joachim: pensate che meraviglia, figlio e padre prodighi che omaggiano altri padri scagliandoli oltre il Duemila in atmosfere che disegnano un più terrigno e solare Oh Mercy. Esemplare l’incipit Straight Street dei Pilgrim Travelers, pescato dai ’50 e rivestito di nuove corde, pelli, voci d’ebano. Una delle quali appartiene a Terry Evans, amico e fidato collaboratore scomparso di recente: eppure non è triste – virilmente melanconica, piuttosto – l’elegia tallonata dal caracollare spavaldo di Shrinking Man e da un’elettroacustica Gentrification affacciata sull’Africa sub sahariana.
Autografi sensazionali che si saldano senza cesure ai traditional (la title-track immagina John Fogerty negro ed esuberante, In His Care rasserena Tom Waits a colpi di acquasantiera) e ai brani altrui (il soul celtico You Must Unload, la chiesa traslocata in strada per I’ll Be Rested When The Roll Is Called) di cui il Maestro si appropria. Sono comunque tre i momenti che svelano l’intima essenza del disco: una cover da brividi di Nobody’s Fault But Mine che sta al Nostro come Blind Willie McTell a Dylan; Jesus And Woody, commovente folk latino e farina cooderiana della più pregiata; Everybody Ought To Treat A Stranger Right: Johnson il Cieco reso gospel swingante. Tre apici di un matrimonio tra forma e contenuto che la contemporaneità celebra molto di rado. Perché alla bisogna servono esperienza, visione, sentimento. Perché serve Ry Cooder.
Disco davvero sensazionale. E una carriera, quella di Cooder, invidiabile.
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Veramente. Genio puro.
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