Benché zoppicante e rattoppata, la democrazia è il sistema di governo nel quale viviamo e conviene averne la massima cura, perché tra tante altre cose garantisce la libertà di pensiero ed espressione. Ognuno può più o meno pensarla come vuole su qualsiasi tema, dalla nazionale di calcio alle famigerate reunion. Tema spinoso e complesso, quest’ultimo, poiché se Wire e Feelies tuttora dispensano lezioni di ingegno, più spesso che no assistiamo a faccende patetiche per le quali risulta difficile spendere elogi o un minimo di benevolenza. Almeno così è per il sottoscritto, considerando che al mondo esiste pure chi si inebria di nostalgia canaglia e problemi non ha.
Fra i due estremi ci sono poi artisti che riannodano i fili che furono con il senno di quanto accaduto nel frattempo. Da questa delicata operazione può nascere un equilibrista che cammina disinvolto sul filo tra ieri e oggi. Tuttavia non sempre la si azzecca al primo tentativo. Nel caso dei Dream Syndicate “anni dieci”, il fresco di stampa The Universe Inside indica che How Did I Find Myself Here? e These Times siano stati i passaggi intermedi per giungere a uno stile che non si arrendesse alla rievocazione. Gesto da applaudire anche solo per la serietà e il rispetto verso se stessi e il pubblico, non vi pare?
Un gesto necessario, anche. Perché se in line-up c’è un chitarrista abile (Jason Victor) ma diverso dai predecessori, devi adattare il linguaggio sonoro. E allora accogli in pianta stabile il vecchio amico tastierista Chris Cacavas e, forte della comprovata solidità ritmica di Mark Walton e Dennis Duck, convochi un fiatista e un percussionista. Entri in studio, attacchi la spina e vedi cosa succede. Succede che infine (ti) trovi. Succede che sposti le chitarre un passo indietro, però conservi la ruvida meraviglia della neopsichedelia impastandone il lato più free con jazz cosmico e krautrock. Steve Wynn è pur sempre il curioso onnivoro che cantava del blues di John Coltrane ed ecco che, mutatis mutandis, The Universe Inside vive della febbrile creatività e della grandezza autoriale appartenute a The Medicine Show.
Registrato in diretta e successivamente “montato” ispirandosi al lavoro di Teo Macero con Miles Davis, il disco svela subito la rivoluzione in The Regulator, venti minuti di sensazionale cavalcata motorik dentro una giungla urbana di chitarre, voci, sax e il sitar dell’ospite Stephen McCarthy. Grossomodo, un’ipotesi di Can che in California mescolano On The Corner e Velvet Underground, risacche e impennate, codeina e anfetamine. Non vale meno il resto, dall’ombrosa ballata The Longing al groove acido misto country siderale di Apropos Of Nothing passando per quella ipnosi vibrante che in Dusting Off The Rust guida un funk-jazz elettrizzato ed elettrizzante. Approdo conclusivo The Slowest Rendition, tesa astrazione con l’eco di For Your Pleasure nell’aria. C’è stato un tempo per giorni di vino e rose e un tempo per storie di fantasmi. Adesso abbiamo un universo interiore nel quale perderci. Roba da non credersi. Roba da medicine showmen.
Pur essendo un paria che più spesso che no si inebria di nostalgia canaglia e problemi non ha, condivido il tuo entusiasmo per “The Universe Inside”. Più lo ascolto e più mi viene da scomodare il termine “capolavoro”.
🙂 🙂 🙂
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La grande musica mette tutti d’accordo. Sempre. 🙂
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Indubbiamente. E non sono mai stato uno che ha sempre e solo ascoltato e amato “rock” in senso stretto (magari prevalentemente, questo si). Ma anche “Alphabetland” degli X (per dire di un disco uscito più o meno in contemporanea a “The Universe Inside” ed intestato ad una band che proviene dallo stesso humus dei Dream Syndicate: L.A., anni ottanta, quello che allora, con scarsa fantasia ma tant’è, chiamavamo “nuovo rock”) è riuscito a regalarmi brividi a getto continuo lungo la spina dorsale pur non mettendo in atto la minima rivoluzione nei confronti del classico sound della premiata ditta Doe/Cervenka/Zoom/Bonebrake.
🙂 🙂
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Nel caso degli X c’è la magia della formazione originale, e un’urgenza – frutto dell’epoca in cui la musica costava molta più sacrifici: anche interiori – che le ultime generazioni per lo più non hanno, forse non possono avere. Insomma non sempre guardare al passato è una baracconata inutile. Meno male, ti dirò.
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