Brividi e mal di pancia in pillole, 12

Camera Oscura – Look To The East, Look To The West (Merge)

Un decennio abbondante ci separa dall’ultimo messaggio inviatoci dai Camera Obscura, e i motivi del silenzio vanno cercati nella tragica dipartita della tastierista Carey Lander. Correva il 2015 quando la band cancellava un tour americano per stringersi attorno a Carey e fare il possibile per guarirla, ma in autunno un osteosarcoma la stroncava. Subito la cantante Tracyanne Campbell dichiarava che l’amica era ancora nel gruppo, che al tempo – forte del contratto con 4AD e di due apprezzabili album – stava riscontrando un crescente successo fuori dal “giro” indie. Già conquistato a inizio carriera, quello, grazie a fan come John Peel e uno Stuart Murdoch che della formazione produceva l’LP di esordio: questione di evidenti affinità, sebbene i Camera Obscura abbiano sempre allontanato la definizione di “Belle & Sebastian di serie B” in virtù di canzoni dove la classe e l’ispirazione seguivano il cuore.

Che quest’ultimo tuttora serva da bussola lo comprovano il rimettersi in sesto umano e artistico avviato nel 2019 e gli ovvi – ma non per questo scontati – risvolti emotivi di questo splendido Look To The East, Look To The West, in cui profondità di analisi e pienezza espressiva (la scrittura è di alto livello, gli arrangiamenti calibratissimi e attenti all’intarsio) si fondono in un pop “per adulti” (non un controsenso: pensate a Blur e Clientele) dal taglio dolceamaro. Ricetta collaudata che recapita il disco migliore degli scozzesi, in ragione della grazia mai svenevole – fosse tutto così, il twee pop! – di Liberty Print e del brano omonimo, di una We’re Going To Make It In A Man’s World che chiude il cerchio tra giovani Beatles e girl groups, degli aromi country (che tornano anche altrove, sistemati da qualche parte tra Easy Pieces e Love Not Money…) sparsi su The Light Nights, di una frizzante ed esplicativa Pop Goes Pop, del chiaroscuro Sleepwalking e dell’accorata gemella in forma di pianistica elegia Sugar Almond. Parafrasando un brano degli stessi Camera Obscura che rispondeva al classico del connazionale Lloyd Cole: Tracyanne, we’re really heartbroken.

Ibibio Sound Machine – Pull The Rope (Merge)

Guidati dalla cantante di origine nigeriana (tanto stile e sentimento nella sua voce) Eno Williams, i londinesi Ibibio Sound Machine rappresentano un esperimento di contaminazione dove ogni elemento è al posto giusto. Pubblicano poco e bene, maneggiano disinvolti le radici e la tecnologia, vantano intelligenza, classe e personalità tali da ravvivare un crossover che troppo spesso sovente si dà per scontato. Un cocktail che il nutrito ensemble ha condotto ad assoluta perfezione nel 2022 con Electricity, amalgamando retaggio soul e venature terzomondiste, scansioni ballabili e arguzie pop, Africa ed Europa, anni ’80 e terzo millennio. Ne risulta un’idea felicemente ibrida e modernissima di black poggiata sull’eleganza di forme rara – ovvero, del tipo che non va mai mai a scapito della sostanza – e sulla volontà a non assopirsi sugli allori.

Da cercare lì le fondamenta di Pull The Rope, dal momento che la presenza in cabina di regia di Ross Orton ha esortato Eno e il partner creativo Max Grunhard a una sterzata metodologica: invece di incastonare testi su pezzi scritti da Max oppure scaturiti da jam con il gruppo, il duo ha composto in stretta collaborazione. Successivamente, con un lavoro in studio più rapido del solito, ha messo a punto sonorità ricche di verve e finezza caratterizzate da uno scrupoloso lavoro sull’aspetto ritmico. Buonissimo nel complesso l’esito e addirittura sensazionale nello scontro frontale sulla pista da ballo tra quei Talking Heads e Afrika Bambaata del brano omonimo, in una Mama Say dalle volute synth-pop e una coda scatenata che invoca il remix, nel vigore avvolgente di Political Incorrect, nell’afro-disco-space-hop (!) Them Say, negli elettrofunk da giungla urbana Dance In The Rain e Fire. Oltre a tutto questo, applaudi il messaggio che emerge dalle parole mai banali della Williams e dal significato del progetto nel suo complesso. Perché in tempi così angoscianti abbiamo più che mai bisogno di musica bella, certo che sì, ma soprattutto viva. Ed è proprio ciò che Pull The Rope offre a piene mani.

Brividi e mal di pancia in pillole, 11

Can – Live In Paris 1973 (Mute)

Una volta tanto il riordino di archivi non è un raschiamento di barili. E, una volta tanto, il recupero di materiale ufficialmente inedito ha permesso di riconsiderare la fase storicamente considerata “calante” di una delle band più innovative e importanti di sempre. Avrete di sicuro sugli scaffali gli ottimi Live In Stuttgart 1975 e Live In Brighton 1975, che hanno investito di una diversa luce il quartetto che all’epoca pubblicava album di studio mediocri restando formidabile in concerto. Grati di tutto ciò, ora ci è servito il piatto forte: senza nulla togliere a Malcom Mooney, si passa infatti al setaccio il periodo aureo del gruppo di Colonia che vede al microfono il samurai Damo Suzuki, scomparso proprio lo scorso febbraio. Raccolte sul palco parigino dell’Olympia, ripulite e sottoposte a un felice collagismo “alla Teo Macero” da Irmin Schmidt e René Tinner, le incisioni del 12 maggio ‘73 rappresentano un documento vivo come di rado è dato sentire. Sistemate cronologicamente tra il magnifico Ege Bamyasi e il forfait di Suzuki, le cinque tracce – al solito contraddistinte solo da luogo, data e numero progressivo in tedesco – si spingono oltre la “semplice” musica. Questo benefico e implacabile magma (dove spezzoni di brani del repertorio sono utilizzati da trampolino per salti in panorami tuttora futuristici) scavalca generi ed epoche, restituendo un flusso pulsante cui abbandonarsi. La sua potenza creativa allo stesso tempo così controllata e istintiva, fisica e cerebrale, spiega con dovizia di particolari che nessuno era come i Can prima e legioni proveranno a esserlo dopo. Invano.

The Reds, Pinks & Purples – Unwishing Well (Tough Love)

Assecondando una tendenza tipica degli anni ‘90, la ragione sociale Reds, Pinks & Purples vede un solo uomo al comando. Il suo nome è Glenn Donaldson, da San Francisco per servirvi se la vostra tazza di tè contiene il pop chitarristico che, sin dai tempi di Postcard, Creation e Sarah, consegna dolcezze melanconiche intrecciando la lezione di Byrds, Love e Velvet Underground. Può bastare per consigliare Unwishing Well agli amanti del (sotto)genere mentre annoto che il progetto sorge dalle ceneri degli Art Museums, che Glenn è un autore dall’approccio “visivo”, che porta avanti altre faccende stuzzicanti e ciò nonostante The Reds, Pinks & Purples rappresenta il mezzo che gli permette di brillare in scioltezza. In questa decina di canzoni, infatti, ogni singolo tassello del mosaico è al posto giusto: dalle melodie che si appiccicano scansando la banalità ai toni seppiati, passando per meditazioni sui massimi sistemi all’insegna di un intimismo profumato di pioggia primaverile e di pomeriggi spesi a inseguire i pensieri. Frughi nelle tasche di Glenn e ne spuntano santini che onorano la tradizione senza per questo scadere nel ricalco: durante l’ascolto vi sarà facile identificarli, tenendo comunque presente che a imporsi è una calligrafia capace di recapitare l’umbratile traccia omonima e la slanciata What’s Going On With Ordinary People, il gassoso shoegaze Faith In Daydreaming Youth e i Cure lievi e accorati di Dead Stars in Your Eyes, lo “stile indie” anni Ottanta di Nothing Between The Lines At All e We Only Hear The Bad Things People Say. I fan gradiranno, ma pure tutti gli altri porgano orecchio: ne ricaveranno belle soddisfazioni.

Jane Weaver – Love In Constant Spectacle (Fire)

Affatto propensa a riposare sugli allori, sinora Jane Weaver ha fatto di tutto un po’, tenendosi stretta un filo intuitivo ed emotivo che funziona sia da elemento unificatore che da sfondo costante per una carriera solista quasi ventennale sfociata nell’avant-pop venato di elettronica e krautrock. Una sorta di variante pastello di Stereolab e Broadcast, se vi va, svelata da The Silver Globe e resa perfetta da Modern Kosmology, capolavoro personale della ragazza cui replicavano le rielaborazioni di Loops In The Secret Society, il progetto parallelo Fenella e Flock, che nel 2021 aggiungeva alla ricetta spezie glam e black. Apprezzabile la mossa, il risultato necessitava di maggiore focalizzazione anche a fronte di una scrittura piuttosto appannata. Difetti non gravissimi e nondimeno evidenti dei quali l’autrice deve essersi resa conto, siccome Love In Constant Spectacle si muove di nuovo in luoghi sonori intrisi della malinconia per passati immaginari che avvolge e riscalda. Il navigato John Parish a cesellare e rifinire, l’esito racconta un’artista padrona di consolidati mezzi espressivi e di un linguaggio ispirato pur nella devozione ai nomi di riferimento. Soprattutto, racconta un album assai riuscito, con vertici nell’ombrosa seduzione pop della title-track e di Perfect Storm, nel madrigale folk Motif, nel melodramma à la Air di The Axis And The Seed. Più che altrove, in un eccellente finale consacrato ad atmosfere che ricordano il Brian Eno versione “mondo verde” nella struggente fragranza di Univers e a una Family Of The Sun che trasporta Nico sul lato A di Neu 75. Bentornata a casa, Jane.

Fotografie della memoria: Eyeless In Gaza

Ci sono momenti in cui apriamo dei cassetti senza rendercene conto. A questo proposito viene da dare ragione a Brian Eno, quando esorta a onorare gli errori come intenzioni nascoste. In altre parole, ad approfittare di un caso che forse davvero tale non è, siccome quella maniglia ci chiama tra tante altre. E dopo il lancio nel passato privi di paracadute, le mani frugano tra fotografie, lettere, oggetti; i ricordi salgono in superficie, mescolandosi all’immaginazione finché non tingono il passato di altri colori. Allora, quanto possiamo fidarci della memoria se la vita spesso è questione di sfumature? Eccomi al punto. 

Eccomi agli Eyeless In Gaza, che hanno fuso sperimentazione e intimismo in un a sé con radici evidenti attraverso dischi di culto che i decenni hanno reso classici. Dischi che lavorano di sottintesi e gradazioni mostrando la complementarità di ciò che sulle prime parrebbe antitetico. Dischi che intrecciano spigoli e volute, slanci e sospensioni, calibrazioni e spontaneità in un post-punk visionario, steso con la spatola e gli acquerelli amalgamando sonorità organiche, elettronica in media fedeltà e, soprattutto, un gusto per l’avanguardia che arriva al cuore. Un distillato di malinconia inquieta e respiro romantico tipicamente inglese che suggerisce ipotesi di Young Marble Giants domiciliati a Sheffield, di Cabaret Voltaire introspettivi che rinascono O.M.D., di Ultravox! accasati alla 4AD.

Oltre ogni plausibile riferimento, trovate un suono storto ma cordiale che raccoglie cocci di Canterbury e del krautrock per chiudere il cerchio sulla trilogia berlinese di Bowie. Pilastri di tanto post-punk, certo, trattati nondimeno da punti di partenza di una personalità che risente della sintonia umana alla base del duo di Nuneaton, Warwickshire. Martyn Bates e Peter Becker hanno già esperienze alle spalle quando nel febbraio 1980 allestiscono il progetto, scegliendo una ragione sociale dalle ascendenze letterarie (Aldous Huxley, che a sua volta citava John Milton) e abbracciando un felice eclettismo minimale. Martyn canta da angelo caduto davanti a Peter Hammill e insieme armeggiano con svariati strumenti attorno a meraviglie come quelle offerte con l’autarchico marchio Ambivalent Scale nell’E.P. Kodak Ghosts Run Amok.

Dopo il passaggio alla Cherry Red, entro un anno il 33 giri Photographs As Memories dipana ineffabile post-synth pop e ombrosità sperimentali, sistemando nel giusto mezzo bagliori che smontano l’idea di canzone per ricostruirla con estro. Più che altrove in una tesa, arabeggiante Seven Years, nella rugginosa elettro-samba From A To B, nelle estatiche contorsioni John Of Patmos e Speech Rapid Fire. La replica Caught In Flux non si fa attendere: in settembre le prime copie accludono il fascinoso 12” The Eyes Of Beautiful Losers a un album di vocalità sofferta ed espressiva, fratturazioni strutturali ed elettronica spartana. Spiccano una Point You da suscitare invidia negli Human League, il cyber funk Scale Amiss, gli struggimenti mistici Soul On Thin Ice, Rose Petal Knot e Skeletal Framework, il flessuoso incalzare di Every Which Way e See Red.

Sigillati mesi prolifici con gli E.P. Others e Invisibility, nell’82 Bates e Becker tirano le fila nell’esatto istante in cui si affacciano su nuovi panorami. Per la norvegese Uniton, in giugno Pale Hands I Loved So Well modella astratte “colonne sonore per la vita quotidiana” approdando a una ambient industriale che cancella i confini tra Tago Mago, Cluster e il lato B di Low. Il mese dopo Drumming The Beating Heart accoglie una relativa limpidezza: mantenuta la continuità nella crepuscolare Dreaming At Rain, a illuminare d’immenso provvedono l’umorale eleganza del capolavoro Transience Blues, le reinvenzioni folk Throw A Shadow e Lights Of April, i Soft Cell asciutti di One By One e Veil Like Calm e la trasparente Before You Go.

Un calendario ancora e Rust Red September abbraccia il New Pop con modalità viepiù distese e profonda leggerezza che nei medi Ottanta non snaturano l’indole arty della formazione. Purtroppo l’intelligenza paga solo moderatamente, nell’86 Back from the Rains cade nel vuoto e ci si separa sereni. I percorsi solistici (di particolare interesse quello intrapreso da Bates) si riallacciano nel 1993 e da allora i gentiluomini noti come Eyeless In Gaza hanno consegnato numerosi altri lavori mai meno che buoni. L’intima natura e il significato della loro opera sono in ogni caso conservati nella giovane maturità qui magnificata. (Ri)ascoltare per credere.

Brividi e mal di pancia in pillole, 10

Astrel K – The Foreign Department (Tough Love)

L’America è anche uno stato della mente, pertanto ognuno la trova dove meglio crede. Prendete ad esempio Rhys Edwards, suddito della corona britannica che risiede in Svezia e i più attenti ricorderanno al timone degli Ulrika Spacek. Lo trovate dietro il “paravento” Astrel K, progetto giunto a un secondo album – fuori tra una settimana – eloquente sin dal titolo, che allude alla condizione di espatriato dell’artefice e riflettendo su un anno trascorso da pendolare tra Londra e Stoccolma, tra una nuova dimora e una lunga storia d’amore frattanto andata a rotoli. Come ben sappiamo, i tormenti del cuore costituiscono materia prima perfetta per le canzoni e, in mani abili, sono un argomento che può ancora elargire emozioni. Da cercare anche lì il nucleo del disco, cioè nell’autobiografia che gioca a nascondino finché, tenendosi stretta una certa timidezza, esce allo scoperto intrecciando arrangiamenti equilibrati, l’abilità nello sviare i cliché e una manciata di sottigliezze dalle tinte pastello. Ne deriva un tristallegro zibaldone dal retaggio indie che, caratterizzato da curiosi siparietti e retromania di buona fattura, conosce i momenti migliori nel krautrock stralunato – però appiccicoso e swingante – di Heavy Is The Head, nella cartolina spedita a Sean O’Hagan (evocato anche altrove…) Darkness At Noon, nei pasticcini che non inducono carie By Depol e Brighter Spells, in una A Rudderless Ship da Stereolab garagisti, nell’elettro-samba con squarci lounge e crescendo techno-pop R U A Literal Child?. Svagato e tenero a sufficienza per farsi notare, The Foreign Department. Mica poco, di questi tempi.  

Bevis Frond – Focus On Nature (Fire)

L’incontro tra esperto artigiano e genio istintivo offre succosi frutti, specie tra coloro che siamo soliti definire artisti di culto. Categoria perfetta nella quale incasellare la figura di Nick Saloman, emerso già veterano lungo la seconda metà degli ‘80 dal sottobosco neopsichedelico d’oltremanica mescolando i DNA di Jimi Hendrix, dei Byrds e – in un curioso gioco di specchi tra nomi per pochi eletti – di un’altra favolosa “one man band” come gli Wipers. Però senza fermarsi lì. Però impastando sonorità turgide e acide con il folk, badando a scrivere canzoni e a non sbrodolarsi addosso mentre insaporiva la ricetta con la giusta dose di umorismo. Insensato scegliere tra Inner Marshland, Miasma e New River Head, da allora il nostro uomo – attorniano da diversi compagni di avventura: la formazione attuale è un classico quartetto – ha tirato dritto (auto)producendosi un catalogo sconfinato tramite il marchio Woronzow, fino al 2018 e al passaggio chez Fire. Terzo album in sei anni per la nuova etichetta, Focus On Nature ragiona sullo stato del pianeta in un’ora e un quarto di musica graziata da un’urgenza sconosciuta a tanti giovanotti che si accontentano di vuoti calligrafismi. Di stilemi, qui, non troverete nemmeno l’ombra: al loro posto, piglio ruvido ma attento alle sfumature e intuizioni brillanti che strappano l’applauso, recapitando saggi di peculiare hardelia, tempi medi tra torrido e visionario, ipotesi di Hüsker Dü e di Neil Young albionici, polaroid da Big Star ruvidi, inquietudini elettroacustiche, ipnosi art-psych. Tutti assieme, appassionatamente. Più che un culto, Nick, sei un mito.

Laetitia Sadier – Rooting For Love (Duophonic)

Difficile stabilire se l’ispirazione di recente ritrovata da Laetitia Sadier sia dovuta alla reunion degli Stereolab, laddove è lampante che la sua carriera solista sia stata finora apprezzabile però parca dei guizzi che hanno contraddistinto il percorso di Tim Gane. Marcava uno scarto What Will You Grow Now?, collaborazione del 2023 con i brasiliani Mombojó a nome Modern Cosmology, persuasiva per la seria giocosità e la scultura sonora. Quest’ultima è la trave portante di Rooting For Love, che osserva il mondo con sguardo umanista post-postmoderno e un’ampia, bilanciata tavolozza strumentale che presta particolare attenzione alle voci. Annotato che calligrafia e stile poggiano su una complessità che vanta il sapore del classico riconoscibile, finalmente ci si porge con brillantezza degna dei migliori Stereolab, confermando che gli originali sono altra cosa quanto a inventiva e visione e hanno pieno diritto di ricordarcelo con una zampata d’autore. Puoi riassumerla così la coperta di Linus che cuce psichedelia e colonne sonore, krautrock e yé-yé, anni ‘60 e ’70 con la maestria responsabile del listening per nulla easy di The Dash, del malinconico inno New Moon, del babà Une Autre Attente, del Brian Wilson a gravità zero di Who + What, del sofisticato pop prefissato “space” e “avant” di Panser L’inacceptable, La Nageuse Nue e Protéïformunité, del viaggio dal sognante all’ipnotico Don’t Forget You’re Mine. Soprattutto, di una favolosa Cloud 6 che sistema Linda Perhacs nella scia di Farewell Aldebaran. Un proverbio cinese insegna che il tempo apre ogni porta a chi sa aspettare. Più che appropriato, direi.

Ty Segall – Three Bells (Drag City)

Ty Segall è capace di esaltare e indispettire in ugual misura. In ciò simile al tardo Neil Young e all’altro adorabile chiacchierone Howe Gelb, talvolta la logorrea gli ha tarpato le ali, e se avesse applicato un severo controllo qualità – forse ma forse – avrebbe in bacheca un paio di capolavori in più. Però piacciono la curiosità che mette in comunicazione generi ipoteticamente distanti, la frenesia produttiva che pare stia rallentando e le piacevoli incognite legate a cosa ascolteremo con la prossima bracciata in un mare magnum dove peschi tanto di buono. Addirittura di ottimo nel caso di Freedom’s Goblin, sensazionale riassunto degli orizzonti ampi (psichedelia, hard, glam, arguzie danzerecce, quadretti beatlesiani: di tutto, di più) di un rock che, condito da autoironia e stridori, tiene a bada il revivalismo per sfociare in un linguaggio personale. A sei anni da quel vertice assoluto, Three Bells presenta un ciclo incentrato su un viaggio al centro del sé, tuttavia scordatevi certi stopposi concept, ché un’ora abbondante scorre compatta e caleidoscopica. Propulso da una calligrafia focalizzata e dalla cura infusa in ogni episodio, il programma vive di un eclettismo che non scade nella dispersione, recapitando tra le altre cose una The Bell in transito dall’oppiaceo allo spigoloso, l’acid-rock Void, i T.Rex alienati di Watcher e Hi Dee Dee, lo sbilenco e appiccicoso garage Eggman, i nervi e i guizzi del guitar-pop My Room, l’avvolgente kraut-jazz dedicato alla moglie Denée, una To You da Love indecisi tra new wave e Bo Diddley. Sì: Ty lo ha fatto ancora, e stavolta gli ha detto parecchio bene…

Di occhi, inquietudini e sorrisi: The Smile

Al di là di ogni ascolto da bulimici e delle chiacchiere da bar, ritengo abbia poco senso domandarsi se dobbiamo archiviare in via definitiva i Radiohead e voltare pagina. Non è così importante, e del resto gli scandagli gettati nel mare delle intenzioni attraversato da un artista rischiano di danneggiare il piacere dell’ascolto e adombrare la bellezza. Non sia mai. Pur vero che i paragoni sono odiosi, tuttavia piuttosto utili e, di conseguenza, da usare con giudizio. Roba da trattare come punto di riferimento e non come zavorra, tanto più se, in virtù di un secondo album scintillante che segue l’assai persuasivo A Light For Attracting Attention, The Smile non stanno facendo – né, a questo punto, faranno – la fine degli Atoms For Peace.

Qui, tra echi post-rock e taglio arty, respiri un’altra aria. Qui si affrontano inquietudini che assalgono da fuori e da dentro inglobandole in un’estetica riconoscibile pur nelle sue metamorfosi. Qui, come d’abitudine, si misurano territori il più possibile inesplorati, seguendo le orme vocazionali di un Brian Eno che da sempre incarna il modello dell’intellettuale (dopo) rock. Sta nell’intesa figlia di metodologie e visioni condivise (beninteso: insieme al “terzo elemento”, il batterista Tom Skinner) uno dei segreti dell’attesissimo Wall Of Eyes. Attenzione però alla trappola dei rimandi: se proprio non si possono evitare, che siano ridimensionati per rispetto verso cavalli di razza che girano attorno alla propria identità d’autore, con movimenti un po’ circolari e un po’ ellittici. Intanto il pubblico si divide e discute. Meno male, sai che noia altrimenti.

The Smile by ALEX LAKE INSTA CREDIT @TWOSHORTDAYS

A pensarci bene, il modo migliore – il più corretto, in fondo – di accostarsi a Wall Of Eyes è una tabula rasa di ciò che potremmo/vorremmo aspettarci. Ascoltare le sue otto canzoni con attenzione senza pensare a Kid A e ad Amnesiac, anche se talvolta il panorama sonoro può inevitabilmente richiamarli. Mentre ascoltiamo, fregarcene se quei due sono o meno “ex Radiohead”, dal momento che ci dimostrano quanto il loro futuro sia un’ipotesi da scrivere adesso. E lo fanno con calligrafia sicura, con un’attenzione per arrangiamenti ricchi ma severi e calibrati, con il gusto per l’intreccio tra atmosfere e generi che sfugge a rigide classificazioni. Tutto ciò – che, sotto il profilo attitudinale, mi ricorda non poco un disco immenso come Fear Of Music – rappresenta la base solida sulla quale estro e talento costruiscono la Bending Hectic in transito da quieti chiaroscuri a un muro non di occhi ma di rabbia, l’Africa contemporaneamente math e cosmica di Under Our Pillows, un brano omonimo con le sembianze della samba aliena.

Collocato in apertura, introduce in modo perfetto a un programma che porge inoltre la vibrante sospensione Teleharmonic, l’esotismo spigoloso aperto da squarci di luce e slanci kraut di Read The Room, la carola in jazz con qualcosa di lennoniano Friend Of A Friend, la gassosa e avvolgente I Quit, l’accorata ipnosi di una You Know Me! prossima a certi Spiritualized. Ecco: trovateli altri che, con alle spalle decenni di carriera e un paio di capolavori in bacheca, hanno ancora voglia di osare, di mettersi in gioco e in discussione. Per realizzare dischi complessi che arrivino al cervello e al cuore bisogna disporre di motivazioni, classe, idee. Bisogna essere artisti che badano al sodo e non ti sbattono in faccia il genio. Ne esistono ancora, per fortuna.

Smarrirsi per ritrovarsi nel 2023

Più il tempo passa e più mi rendo conto di una ciclicità che emerge anche nell’era del suo appiattimento orizzontale. Ci ragiono e realizzo che forse quella mutazione non appartiene al tempo in sé ma alla nostra percezione. Lo comprova il fatto che, con acrobazie mentali ed emotive, riusciamo a far “funzionare” diversamente qualcosa di davvero relativo. Per questa ragione, nel tramonto del 2023 vedo sciogliersi anniversari legati a persone che solo in apparenza non ci sono più, passaggi affrontati meglio che ho potuto, un senso di perdita che sfuma nel (ri)trovarsi e in una nuova felicità. Il tempo è relativo, sì: scorre fin troppo rapidamente al cospetto della bellezza, si congela nei momenti bui, avvolge e intrappola con costante, incrollabile disinvoltura.

Però non ci respinge, dunque bisogna conservare ogni esperienza e ogni singolo attimo, tenersi strette le gioie condivise e le anime che, nei modi più vari, si legano alla nostra. Tasselli del mosaico che potrebbe svelare un senso allorché l’ultima tessera si posa. Chissà se davvero è “la” fine, quella, e non la porta spalancata su una nuova condizione. Staremo a vedere, ché la vita viene ma più che altro va e tutti siamo di passaggio, in più di un’accezione. A me, che credo nell’euritmia dell’universo e nella ricerca dei fili che lo attraversano, piace credere che casa sia dove abbiamo il cuore, anche se – no: soprattutto perché – siamo in movimento. Sempre e comunque.

Viaggiare significa mettersi in discussione e in gioco, sia durante il percorso che alla meta, ed è anche questo che dona un significato allo stare al mondo. Il viaggio non è un’esperienza neutra. Mai. Lascia segni e impressioni su di noi, che al ritorno ci scopriamo cambiati. I dodici mesi appena trascorsi hanno rappresentato un cammino dove a tratti credevo di perdermi e invece mi sono ritrovato. Per questo ringrazio i chilometri macinati, i luoghi visti e i concerti vissuti, i treni con i loro cinemascope e le sfreccianti quattro ruote, le Converse e gli scarponi, le acque e le montagne, le città e i paesi. Più di ogni altra cosa, chi mi accompagna e le parole: pronunciate, scritte, lette, ascoltate, sentite.

Quasi pletorico sottolineare che la musica mi ha seguito e sostenuto, facendo qui da coro greco e là incorniciando la magia. Non a caso, di quanto ha visto la luce nel 2023 vi offro una scelta (per quanto mi riguarda, una delle più anglocentriche di sempre) che va a chiudere più cerchi. Dischi di movimento fisico e interiore, che giungono da chi ha compreso di poter ancora vibrare all’unisono per – e con – un’altra persona; dischi che intrecciano retaggi e stili in fascinose relazioni; dischi che spiegano come il confine tra “nuovo” e “classico” sia ormai sottile fino a scomparire. In controtendenza con la frammentazione nella quale siamo immersi, tutti hanno chiesto – e giustamente ottenuto – la dovuta attenzione, svelando la natura di balsami per il cuore. Care lettrici e cari lettori, non mi resta che augurarvi buon (ri)ascolto. Che il 2024 sia per voi colmo di viaggi il più possibile caleidoscopici, armoniosi e ricchi. What a long, strange and wonderful trip…

Il distillato

African Head ChargeA Trip To Bolgatanga

Blur – The Ballad Of Darren

Clientele – I Am Not There Anymore

Robert ForsterThe Candle And The Flame

PJ Harvey – I Inside The Old Year Dying

Holy Tongue – Deliverance And Spiritual Warfare

Index For Working Musik – Dragging The Needlework For The Kids At Uphole

King Krule – Space Heavy

Lael Neale – Star Eaters Delight

Squid – O Monolith

Waeve – s/t

Yo La Tengo – This Stupid World

Premi della critica: Kristin Hersh – Clear Pond Road; Immaterial Possession – Mercy Of The Crane Folk; Sparks – The Girl Is Crying In Her Latte

Ital-ieni: Twoonky – Ottico

Tra(n)sfigurazioni: Panda Bear/Sonic Boom/Adrian Sherwood – Reset In Dub

Voci vicine, sempre presenti: Sparklehorse

Ieri, oggi, domani: Chills – Brave Words; Replacements – Tim: Let It Bleed Edition

Voci vicine, sempre presenti: il pop e l’età adulta

Qualche sera fa, scorrendo un vecchio saggio critico di Flavio De Bernardinis su Nanni Moretti mi sono imbattuto in una frase che possiamo in tutta serenità applicare allo stato attuale della popular music: “estinguere i debiti col passato è molto difficile”. In linea di massima sono d’accordo, benché vorrei obiettare che in fondo questo saldo non sia un obbligo. Insegna William Faulkner che il passato non muore mai e neppure passa: semmai, è una coperta che scalda, protegge e confonde le coordinate con le quali cerchiamo di interpretare il qui e ora. La nostra epoca ha comprovato che lo scorrere della sabbia nella clessidra è qualcosa di relativo e riconducibile alla percezione della realtà e di noi stessi: al proposito, come ipotetica chiusura di cerchio annoto che tra i segreti del pop più nobile troviamo la capacità di porsi al di sopra dei decenni mentre li attraversa lasciando un’impronta.

Questo importa, siccome la rilevanza di un artista e di un genere non si misura certo con i tabulati di vendita o la presenza su giornali e social network. Una volta spazzati via sensazionalismi e mode, restano la profondità di radici immerse nella cultura, il ruolo di modello e riferimento che non odora di museo ma di vita vera, la capacità di affrontare temi validi per chiunque in qualsiasi epoca. Le caratteristiche che associamo ai classici, ecco. Intanto la fine dell’anno si avvicina e, inevitabilmente, lo sguardo cade sulle uscite targate 2023: una generosa manciata di sorprese, di conferme, di “canzoni racconto” che applicano i meccanismi del folk al rock unendo i puntini del popolare e, per venire infine al punto, di meravigliosi ossimori trasformati in realtà.

Pur se con diversi presupposti, The Waeve, I Am Not There Anymore dei Clientele e The Ballad Of Darren dei redivivi Blur – invero mai defunti: il passato eccetera – ottengono gli stessi risultati. Con le dovute sfumature, approdano a un miracoloso pop della mezza età che si fa beffe di un’apparente contraddizione in termini. Una bellezza da tenersi stretta, le cui fondamenta stanno nella comunicativa, nella passione, in un senso della storia intesa sia come narrazione che come bagaglio di stili, nel citazionismo che accantona il distacco per diventare materia prima, in una consapevolezza di mezzi e linguaggi che non scivola mai nel manierismo. Sistemate quei titoli accanto al Bird Machine che restituisce la grandezza di Mark Linkous e, da fantasma più vero del vero (perché il passato eccetera…), lo accomoda in un teatro di voci vicine e presenti. Voci che, a prescindere dal luogo e dal tempo di provenienza, rivelano la caotica complessità del mondo ma non ne ignorano i risvolti e gli anfratti.

Anzi: a vincere è la varietà viva di chi interpreta uno spirito e un approccio alla materia in maniera diversa: camminando sul confine tra sperimentazione e riepilogo di carriera, affidandosi a un realismo fantastico di lucide metafore, ragionando sulla mezza età con distacco partecipato. E via dicendo, in una policromia dove spesso e volentieri i metodi si intrecciano. Ne derivano dischi splendidi da ascoltare più volte e con molta attenzione, canzoni d’autore generose di arguzia ed epifanie, una pop art profonda e intensa che trasforma il particolare in universale. È l’ennesima contraddizione che si risolve, poiché dalla messa in scena dell’autenticità emergono ricordi, emozioni, speranze e desideri. Questo pop adulto, di conseguenza, cerca di saldare i conti con il passato, conquistando il classicismo e adattando le proprie forme alla relatività del tempo. Senza illudersi di fermarlo, lo modella continuamente e, sottraendosi alla nostalgia, cambia restando fedele a sé. Oggi come oggi, un’arte popolare matura è la chiave di accesso a mondi favolosi. Se questo è un sogno, siete pregati di non svegliarmi.

Canzoni che sono racconti che sono canzoni

Ieri sono stato ospite dell’amico Tiberio Faedi, per la terza volta in diretta a Silent Radio. Abbiamo parlato – e soprattutto ascoltato – di canzoni che posseggono una dimensione di racconto, di quel tesoro controverso che sono i “concept album”, di quando l’autobiografia si estende ai massimi sistemi. Qui sotto trovate il link al podcast. Buon ascolto!

Più in alto, nel sole: quando i R.E.M. voltarono pagina

Quando ti viene la strampalata idea di scrivere di musica, prima o poi devi confrontarti con gente importante per motivi che in parte esulano dal giudizio artistico. Parlo del momento in cui cerchi di capire se sei in grado di trattare degnamente chi ti ha reso la persona che sei e non un’altra tra le mille possibili. Accanto ad altri geni, i signori Buck, Berry, Mills e Stipe hanno contribuito a scolpire anima e spirito del sottoscritto, il quale ha finalmente deciso di saltare in piscina senza salvagente. In quasi venti anni di, ehm, “carriera” non avevo ancora scritto nulla su uno dei miei gruppi preferiti, un po’ mi stupisco e vi confido un segreto che racchiude il (probabile) motivo di tanto procrastinare: davanti a un mostro sacro, temo di scivolare sul piano inclinato dell’ovvio e di ripetere lezioni che altri molto più bravi hanno già tenuto. Per questo mi scuso se, inconsciamente, ciò accade nelle righe che seguono nonostante abbia scalato la vetta da una via poco battuta.

Per le ragioni suesposte ho scelto infatti un disco che compie un quarto di secolo ma mi pare un po’ dimenticato. A me invece, di Up piace ricordare come nell’autunno 1998 lasciò a bocca aperta (taluni con l’amaro: valli a capire) tramite una capriola che dimostra come si può cambiare restando se stessi. Una costante per i R.E.M., giacché fino a Reveal incluso ogni capitolo risponde al predecessore seguendo un’evoluzione che, a seconda dei casi, si distacca in modo netto oppure – e più spesso – modella toni e stile nella riconoscibilità che associamo ai quattro di Athens. Ho scritto “quattro”, tuttavia siamo di fronte al primo passo di una creatura che, perso un pezzo, si è trasformata a testa alta e facendo di necessità virtù.

Bill Berry ha dato le dimissioni ed è insensato rimpiazzarlo con un elemento fisso. Non è “solo” un batterista eccellente, ma il tassello di una democrazia unica nel rock, dove gli autodidatti Stipe e Buck (rispettivamente: la visione da artista e la conoscenza enciclopedica maturata sul campo) si integrano perfettamente a una sezione ritmica di solidità e fantasia rare, capace di donare alle canzoni un centro e una base come di lanciarle nel più alto dei cieli. E che, non contenta, maneggia altri strumenti apportando un fondamentale contributo sotto il profilo compositivo.

Di conseguenza, in mancanza di un pilastro tanto vale azzardare delle modifiche all’intero edificio. Si spiegano così panorami dove le chitarre sembrano sparite e in realtà allestiscono una rete di chiaroscuri sullo sfondo dell’approccio “orchestrale” che intreccia tasti, archi, corde e lo spazio circostante in tessiture policrome. L’esito quasi costa ai R.E.M. lo scioglimento, tuttavia possiede una bellezza sottile e ricercata che rappresenta la vera avventura nell’alta fedeltà. In retrospettiva, Up e l’ancor più riuscito Reveal conquistano con grazia, instaurando un dialogo che disegna la facciata notturna e quella solare di chi spiazza accludendo i testi e convocando in regia Pat McCarthy e Nigel Godrich al posto di Scott Litt.

Non un caso, siccome il trio saluta il secolo con un occhio all’attualità di Air e Stereolab e l’altro al passato vitalissimo di Suicide, Roxy Music e Beach Boys. Come a dire che il confine tra new wave, post-rock e pop a tinte qui elettroniche e là psichedeliche è sottile. Come a dire che, se un confine esiste, va cancellato. Come a dire, infine, che il loro suono è sempre stato un duttile scheletro di canzoni stellari per memorabilità, comunicativa e arguzia. D’accordo: pur se le intenzioni sono buone il commiato Falls To Climb eccede in slancio epico, gli art-rock elettroacustici The Apologist e Sad Professor a tratti scappano di mano e Hope ammicca alla coheniana Suzanne in un’ipotesi di Suicide trasparenti.

Ma si tratta di peccati così veniali che esulano dalla colpa anche a prescindere da gemme come l’ambientale Airportman, il glam flessuoso e aggressivo Lotus, una Suspicion di trasognata sensualità prossima a Moon Safari e la cartolina scivolata da Pet Sounds di At My Most Beautiful. Se Daysleeper sottolinea il cambio di pelle trasfigurando quel folk-rock umorale, Walk Unafraid ribadisce il concetto in un inno riluttante e l’ipnotica Why Not Smile apre parentesi riflessive; alla stridente, meravigliata e post-psichedelica You’re In The Air replicano la favolosa camminata sul filo di tensioni astratte di Diminished e una Parakeet che omaggia con intelligenza i Roxy Music più allucinati. Ricordo un’intervista d’epoca in cui Michael affermava che un cane deve imparare a camminare con tre gambe: metafora perfetta che rivela l’essenza del coraggioso, duplice colpo di coda di una band meravigliosa. L’ultima a poter essere più grande della vita grazie alla sua inimitabile e risoluta discrezione. Doti che appartengono ai Venerati Maestri, per l’appunto.

Sopraffatti dalla (trist)allegria con i Pernice Brothers

Se è vero che la musica rappresenta un ritorno ai luoghi dove risiedono i nostri ricordi migliori, costituisce evidenza altrettanto assodata che certi dischi possano addirittura costruirne di mai esisti, figli di una memoria che insegue ciò che vorrebbe e non ciò che è davvero stato. Rimembranze provenienti da mondi immaginari però plausibili e da versioni migliorate di quello nel quale viviamo. Ed è anche per questo motivo che ci tuffiamo nel passato e lo idealizziamo, tenendoci stretti i gioielli nel momento in cui spazziamo la cenere sotto il tappeto. Tuttavia, non tutti i decenni sono uguali e ci sarà un perché se l’arte pop è fiorita nel Rinascimento del novecento, ovvero e fuor di metafora i favolosi anni Sessanta. Mentre risulta relativamente facile stabilire il principio di quell’età dell’oro – i Beatles che conquistano l’America – è piuttosto complesso stabilire con certezza dove la sua onda lunga si sia spenta, fino a dubitare che ciò sia veramente accaduto.

A mio avviso i Sixties sono una corrente carsica che riaffiora con intensità variabile a seconda delle epoche. Vi dirò di più: ho la netta sensazione che Joe Pernice la pensasse allo stesso modo quando nel 1997 mise a riposo gli Scud Mountain Boys per costruire un’altra band attorno al proprio cognome. Pur compiendo un ulteriore salto indietro nella storia del rock, un artigenio abile e sensibile come lui non avrebbe potuto incappare nel revival senza causa. Prova ne sia che, una volta chiusa – non del tutto, a ben ascoltare – la finestra sui panorami alt-country, l’anno seguente consegnava con Overcome by Happiness il capolavoro bastante a giustificare una carriera, incastrandolo tra l’inizio del classicismo contemporaneo di casa Wilco e anticipando certe delizie dei primi Shins. Un gioiello di disco, avrete già capito, dove Brian Wilson, Left Banke e Big Star si sovrappongono a Gram Parsons per tramite di una tristallegria senza tempo e di tessiture di suoni e parole che avvolgono come la più calda delle coperte di Linus. In realtà, l’umore che si spande nell’aria cozzando un po’ contro il titolo rappresenta l’unica falsità di Overcome by Happiness, tuttvia è la proverbiale bugia bianca che attira e seduce dispiegando polaroid seppiate e dolcissime malinconie.

Pubblicheranno altri album di vaglia, Pernice Brothers, comunque lontani dall’anima che qui si – e ci – spoglia brano dopo brano, fondendo istinto e razionalità in una bellezza che considera la tradizione un punto di partenza. A proposito di inizi: Joe e il fratello Bob ricominciavano da sé, allestendo il progetto sulle fondamenta della Sub Pop, casa discografica che per ultima aveva accolto gli Scud Mountain Boys, e circondandosi di strumentisti provetti come il chitarrista Peyton Pinkerton, il tastierista Mike Deming, Aaron Sperske alla batteria e Thom Monahan al basso. Spetta proprio a Deming donare una presenza lieve ma decisa agli arrangiamenti di archi e fiati che, incorniciando e ponendo in risalto la scrittura di Joe, si saldano con l’equilibrato arredo elettroacustico e una “voce amica” con la quale condividi bevute e riflessioni sui massimi sistemi fino a un mattino che scopri più pieno e leggero.

Così va la vita, così è la melancolia quando sostiene invece di soffocare. Il resto dipende da te e dalla voglia che hai di osservarti attraverso un diadema di canzoni. Di calarti in un’Arcadia dove i confini sono marcati da Odessey And Oracle, #1 Record, Bradley’s Barn e Automatic For The People però sfumano dentro un ipotetico Pet Sounds inciso nel ’68 tra Memphis e Nashville. Ecco allora scintillare una leggiadra Crestfallen da Teenage Fanclub in abiti roots, la briosa title-track, una dolce e laconica Sick Of You, la profondità emotiva di Dimmest Star e All I Know. Per tacer del retrogusto bacharachiano di Chicken Wire, di omaggi ad Alex Chilton della caratura di Clear Spot, Monkey Suit e Wait To Stop, delle Shoes And Clothes e Wherein Obscurely che avrebbero recitato da protagoniste nel repertorio di Elliott Smith, del meditativo e scarno commiato Ferris Wheel. Carezze al cuore da restare sopraffatti in eterno, anche se – anzi: proprio perché – non capisci se trabocchino gioia, malinconia o il sublime distillato di entrambe. In ogni caso, magia ineffabile da custodire in eterno.

"Brave words about sounds & visions"